La mia prof di Lettere del Ginnasio
aveva il nome di un fiore. Non i soliti Rosa o Margherita. Un nome, al
contrario, insolito. Non so se le somigliasse, in genere somigliamo ai nomi che
portiamo. Ma lei la chiamavamo con il cognome, che poi era il cognome dell’ex
marito, cognome che le calzava a pennello, lei si poteva chiamare solo così.
Infatti credo che ne fosse tanto consapevole da continuare a usare quel
cognome, nonostante non le appartenesse più.
Era una donna dall’età indefinibile,
credo che all’epoca (parliamo dell’inizio degli anni Ottanta) dovesse avere
intorno ai quarantacinque anni o giù di lì. Bella. Bella di una bellezza
difficile perché bisognava cercarla la sua bellezza in mezzo a quel suo essere
un po’ trasandata, i capelli sempre spettinati, la trascuratezza nel vestire,
mai truccata se non fosse stato per un po’ di bistro nero a cerchiarle gli
occhi. E quando se lo metteva con più cura e arrivava a scuola con i capelli
raccolti in uno chignon da cui non scappavano come al solito ciuffi ribelli,
significava che era di cattivo umore. Ed erano guai seri perché allora faceva
la pazza, anzi la stronza proprio.
Credo che avesse avuto un’esistenza
difficile, segnata da scelte anche controcorrente, difficili per una donna.
Come quella di lasciare un’esistenza borghese per crescere da sola le figlie in
una città che non era la sua, lei era ligure dell’entroterra di La Spezia.
O la amavi o la odiavi. Oppure tutt’e
due. Era capace di incantarti, non solo parlandoti di un ottativo medio passivo
o della perifrastica attiva, ma raccontandoti la storia con una passione che ti
sembrava di esserci, lì nella piana di Maratona o al passo delle Termopili. Ti
incantava la voce, la sua risata quando rideva. Eppure era anche odiosa, a
volte faceva delle interrogazioni bastarde, tanto per affossarti. E poi ci
metteva l’uno contro l’altro: abbiamo trascorso due anni di ginnasio in perenne
tensione tra di noi, eppure eravamo anche compatti…. Compatti nell’amore per
lei e dilaniati anche dalla sua tirannia. Perché era un’amorevole amabile
tiranna.
Ci portava al cinema… non a vedere le
cosette. No, lei ci dava appuntamento –chi mi ama mi segua e la seguivamo
tutti- davanti ai cinema d’essay a vedere il “Don Giovanni” di Losey o la vita
di Moliere. Altro che ore extracurricolari, altro che i progetti che si fanno
oggi a scuola, pagati poco e male, ma pagati. Lei lo faceva per il puro piacere
di farlo, seguita da un codazzo di studenti adoranti che portava a vedere, a 15
anni, “Aspettando Godot” nei teatrini off che si trovavano in culo al mondo. E
ci si andava stipati nell’autobus o a piedi.
Cosa mi ha insegnato? A parte il fatto
di averci insegnato a tradurre il latino e il greco, le regole grammaticali e
tutto quanto fosse strumento per interpretare, ci ha fatto fare le cose ‘da
grandi’: la prima orazione di Cicerone, la Pro Milone, io l’ho studiata in V
ginnasio. E ho letto Lisia…dal vero! Ma una cosa grande mi ha insegnato: a
chiedere, a rompere le scatole, a non accontentarmi di una risposta qualunque.
E quanti cappuccini nel bar davanti a
scuola quando lei aveva l’ora buca ed io magari non ero entrata: ero in crisi
profonda ed ogni tanto mi prendevo una vacanza di un giorno o due dalla scuola e
da lei, ma poi non resistevo e la cercavo fuori ed annacquavo di lacrime quel
latte e caffè.
E quante discussioni politiche, lei
leggeva il Manifesto e ci voleva tutti con sé… ma molte erano le voci di
dissenso, quando ancora aveva un senso parlare di politica a scuola, quando le
assemblee di istituto erano davvero delle assemblee e venivano i bidelli a
cacciarci perché eravamo andati oltre l’orario normale di uscita. Non come
adesso che non sanno proprio cosa significa riunirsi e parlare.
Io non me la dimenticherò mai.