«Ti prometto che non bruceremo tutto per troppa luce,
che questo fuoco non arderà come un falò di sterpi»
e la cosa, invece di farla ridere come avrebbe dovuto,
le fa salir su un altro grumo di pianto,
ne è seccata, si libera dalla morsa,
affonda la testa nella pelliccia interna dell’eskimo
che Antonio tiene aperto.
Livio Romano è uno scardinatore, un sovversivo della lingua: cercare di “spiegarne” la scrittura è difficile, perché è un po’ come voler prendere l’acqua in mano, non è possibile, non ci sta.
Livio Romano è uno che lo leggi e ti risucchia in un vortice di parole legate spesso per asindeto, senza congiunzioni e a volte anche senza virgole, ché occupano spazio e quando i pensieri vanno rapidi, le parole devono seguirli senza inciampi, veloci come bere un bicchiere d’acqua quando fuori fa caldo e ti senti la bocca secca. Lo fa in alcuni passi di questo romanzo sorprendente, se non si conosce la scrittura di Romano, invece perfettamente in linea con uno stile personalissimo e inconfondibile, che a tratti fa pensare alla scrittura di Gaetano Cappelli –penso in particolare a “Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” e a “Volare basso” (entrambi titoli Marsilio)-, ma che acquista la sua individualità nel momento in cui la narrazione è calata nel contesto salentino, dove l’Autore ha ambientato anche altri suoi romanzi, come “Mistandivò”, edito da Einaudi, “Porto di mare” (Sironi), “Niente da ridere” (Marsilio) e “Il mare perché corre”, anche questo edito da Fernandel. Se insomma un tratto dobbiamo trovare in comune con lo scrittore lucano, questo va ricercato sicuramente nel tono dissacratore e umoristico, fino al sarcasmo, di alcune pagine.
Dove, quindi, Livio Romano riversa questa verve singolare, in che contesto, a quali personaggi regala un profilo, che storia racconta?
La trama, in breve: Antonio Congedo e Simona Marris, lui ispettore del lavoro e lei avvocata, si incontrano e danno inizio a una relazione che, tra alti e bassi, li vede anche coinvolti nella battaglia civile contro il progetto per la realizzazione di un parco tematico nella regione salentina dell’Arneo. Il parco -la ricostruzione di un’antica città messapica, interamente finanziata con fondi pubblici- è idea ingegnosa di un docente universitario, il Prof. Caraccio, del proprietario di una web tv, Vittorio Nardelli, di un medico dell’ASL, il dott. Amari, i quali hanno ingaggiato l’architetto portoghese Francis Arrangiau per la sua realizzazione.
L’esecuzione del progetto, devastante per il territorio ma redditizia assai per il terzetto truffaldino, prevede come primo intervento l’abbattimento di una masseria in cui alloggiano centinaia di lavoratori agricoli immigrati, sfruttati dai “caporali” nelle campagne limitrofe. Da qui si muove l’attività di Simona che diventerà, probabilmente suo malgrado, protagonista della lotta contro l’ingiustizia nei confronti del territorio e degli immigrati e che troverà in Antonio un alleato prezioso. Quanto prezioso, si vedrà alla fine della storia, che ha un risvolto giallo.
Su questa struttura narrativa, sale un carosello di personaggi irresistibili, alcuni dei quali grotteschi fino alla caricatura. Spiccano tra tutti le figure di Simona e Antonio, protagonisti di una storia d’amore potente e tormentata dalle profonde diversità caratteriali dei due -lei passionale, iperattiva, vulcanica, sexy, lui più posato e riflessivo, eppure complementari (nel dormire, “masso di sonno e carne pesanti lui, elastica seppia aderente lei, filiforme eppure vigorosa”)-. Sorpresi da fatale attrazione reciproca, partita da un’iniziale antipatia, si prendono e si lasciano, concedendosi -negli intervalli- improbabili relazioni sessuali che alimentano gelosie e rimpianti: tra loro, anche nei momenti di distacco, resistono stima e amore.
Più difficile è parlare degli altri personaggi che animano questa commedia tragicomica, dove troviamo insieme temi sociali e vizi privati, dinamiche familiari complesse e sistemi affaristici disdicevoli: molto caratterizzati, richiedono di essere accolti dal lettore e ascoltati, compresi.
I temi affrontati sono di stretta attualità, tanto da far apparire Romano quasi preveggente: la fine della scrittura del romanzo risale al 2013, quando ancora non si poteva immaginare la svolta mediatica che avrebbe visto solo quest’anno la nostra regione in primo piano, per le iniziative imprenditoriali che probabilmente trasformeranno parte della costa adriatica in un grande villaggio turistico di lusso, “’na cosa che la gente deve rimanere di stucco”, come dice il dottor Amari al Nardelli, descrivendogli il progetto del parco messapico.
Troviamo ancora il tema dell’immigrazione e dello sfruttamento degli irregolari africani da parte dei piccoli imprenditori terrieri in tutto il meridione, sappiamo bene –perché ce lo racconta la cronaca- in quali condizioni e spesso con quali conseguenze.
Sullo sfondo, la profonda riflessione sul futuro di questa terra, dai giovani trentenni “che o se ne vanno a Copenaghen oppure restano qua”, ad accontentarsi di ciò che trovano da fare e soprattutto a casa con i genitori, fino alla convinzione che il turismo sia la sola risorsa possibile, da sfruttare senza criterio, pensando solo all’immediato guadagno economico.
Leggere questo romanzo è stato come salire sulla giostra, nota come "calcinculo", i seggiolini volanti che tra l'altro sono in copertina. E non poteva esserci immagine più calzante per una narrazione mozzafiato, sia per la storia in cui si intrecciano amore, sesso, corruzione, territorio, sia per lo stile ironico e dissacrante, sia per la lingua, che Romano piega a suo piacimento, mescolando preziosismi lessicali a dialetto e gergo, con risultati ibridi decisamente originali.
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Per troppa luce
Autore: Livio Romano
Dati: 2016, 269 p., brossura;
Editore: Fernandel;
Prezzo: € 16,00
Giudizio su Goodreads: 5 stelle
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