Le pittule, ce suntu me sai dire?
Nu picca de farina a mmenzu all'oiu.
Ma lu Natale nu se po' sentire se mancane le pittule, lu meiu!
Nu picca de farina a mmenzu all'oiu.
Ma lu Natale nu se po' sentire se mancane le pittule, lu meiu!
Osservava l’impasto appiattito sul fondo
della coppa. Si sarebbe dovuto alzare quasi fino all’orlo, pieno di bollicine,
risultato della fermentazione della pasta.
Qualcosa era andato storto, non era possibile
un disastro del genere, erano le otto e mezza di sera, impossibile rimediare in
alcun modo; non ci sarebbe stato il tempo per fare un nuovo impasto con il
lievito di birra liofilizzato, che per emergenza teneva sempre in casa “non sia
mai il lievito madre dovesse morire di stenti nel frigo”.
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Photo HelenTambo on Instagram |
Si doveva far nascere Gesù Bambino nel
presepe, i tempi erano da sempre sincronizzati alla perfezione, nulla era
lasciato al caso, le tradizioni sono tradizioni. Poi si sarebbe messa ai fornelli,
felice che i ragazzi le girassero intorno con aria disinvolta e furtivamente si
servissero dal vassoio, per poi nascondere in bocca le palline roventi di pasta
lievitata fritta, diventando rossi e soffiandosi dentro…
Fin da bambina aveva guardato attentamente la madre mentre sbatteva
energicamente l’impasto molle, seguendo tutte le fasi della preparazione delle pettole (al paese di mamma, in mezzo
alla Puglia preciso, ché invece in Salento sono pittule con la e che
chiude in i e la o che diventa u) e
assistendo alla magia di quella massa di farina, acqua e lievito che si sarebbe
gonfiata e trasformata in palline dorate, nell’olio bollente.
Era la cena della Vigilia, come se ne poteva
fare a meno? Bisognava che imparasse a farle: una volta che avesse avuto la sua
casa adulta, avrebbe dovuto friggerle per suo marito e i suoi bambini,
bisognava proprio che stesse attenta alla consistenza dell’impasto, alla forza
che sua madre metteva nella lavorazione, il composto doveva incorporare aria e
gonfiare alla perfezione mentre lievitava.
E adesso? Sembrava che l’impasto fatto la
mattina prestissimo con il lievito di madre, unica deroga al procedimento
consueto di sua madre che invece utilizzava il panetto di lievito di birra
comprato al supermercato, non si fosse mosso da come lo aveva messo sul fondo
della coppa, si era solo allargato sulla superficie piatta.
L’essere una buona massaia, oltre che una
donna impegnata e realizzata nel lavoro fuori casa, prevedeva levatacce nei
giorni festivi, che consentissero di farsi trovare all’opera in cucina al risveglio
del resto della famiglia: la ricerca della perfezione quasi, la prova che se si
vuole si può e lei voleva e poteva, non c’erano scuse, non c’erano per nessuna
Donna, lei ne era la dimostrazione vivente.
Era un presagio, un segno.
Era l’inizio del crollo, era tutto ciò che fino
a quel momento non avrebbe voluto, era quello che non era previsto nella sua
vita di signora Perfettini, era l’inizio delle recriminazioni che di lì a poco,
in quella lunga notte di Vigilia, ci sarebbero state.
Era il principio di una presa di coscienza,
era la consapevolezza che nulla si costruisce senza che anche gli altri lo
vogliano davvero, e gli altri non avrebbero voluto tutta quella montatura,
quell’insieme di riti che a lei sembravano irrinunciabili altrimenti non era
Natale, tanto per dirne una e per tacere del resto.
Era quello che sarebbe successo, la fine di
tutto.
Era la decisione di rinunciare finalmente ai
vincoli che da sola si era imposta, le abitudini che la rendevano riconoscibile
a se stessa e agli altri.
Era il rendersi conto che la riproduzione di
modelli amati da ragazzini non corrisponde al vero, che spesso imitare la vita dei
propri genitori, quando considerata migliore della nostra, non dà quasi mai l’effetto
sperato, inseguito.
Era l’accorgersi che era tutto farlocco, era
tutto finto, era una galera di consuetudini istituite che ora esigevano di
essere sciolte.
Era la rivolta dell’impasto delle pittule.
Era la rivolta dell’impasto delle pittule.
Era la liberazione.
Era stato un presagio, un segno.
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