venerdì 14 ottobre 2016
"Nebula" di Piergiorgio Pulixi
C’è stato un tempo in cui le cose tra noi erano molto diverse. Prima dei silenzi. Prima che ci ignorassimo a vicenda come se non fossimo mai esistiti, come se non ci fossimo lasciati dietro nulla di noi. Quello sì che era un bel periodo. Non lo ammetterò mai, ma solo in quei momenti mi sono sentita viva. Le notti avevano un senso. Adesso, non vedo l’ora che si consumino.
Non so bene quando sia finita, né tantomeno perché. È una domanda che brucia nel segreto della mia anima. A lui l’ho fatta diverse volte, ma non mi ha mai risposto. Alla fine non ha replicato più a nessuno dei miei messaggi e dopo qualche mese non ho più insistito. Ho abbracciato l’idea che le cose finiscono senza un perché. Non è stato facile. All’inizio non concepivo un addio così violento, senza spiegazioni. Un addio immotivato è come un pugno a tradimento. Come una canzone bellissima interrotta a metà. Un addio è peggio di un adulterio. Non lo puoi accettare. È qualcosa che lascia una cicatrice viva, non rimarginabile. E la ricerca di una possibile causa è sale che getti nella carne lacerata. Più domande ti poni, e più svelli la ferita. Più i dubbi ti raschiano il cuore, e più è difficile elaborare la perdita. Tanto vale smetterla di cercare risposte. Mettere in pratica questo proposito non è così semplice. Soprattutto se la persona a cui ti eri data aveva esclusivo dominio del tuo cuore. Come lui.
In bocca avverto l’aroma della sigaretta fondersi con il gusto del caffè in una miscela sensoriale sublime. Forse è stato questo sapore a mettermi addosso questa folle voglia di lui. Mi ha riportata ai nostri caffè bevuti sdraiati sul letto, fumando con le persiane aperte, lasciando che la notte ci asciugasse l’amore dalla pelle.
Strizzo gli occhi. Devo darmi un limite. Devo tracciare una linea da non oltrepassare perché sento che sto perdendo me stessa. Sto scivolando giù. Nel gorgo dei ricordi. Nel buio. E questo è pericoloso. Molto pericoloso.
Pensa ad altro, mi dico. Ma qualcosa dentro di me vi si oppone. Non è nemmeno una sensazione; più una vertigine. Un richiamo, quasi. Così mi siedo davanti al computer ed entro su Facebook. Accedo al mio profilo. Ho tolto nome e cognome, ho scelto un nickname: Nebula. È la mia identità virtuale.
Corro subito ai messaggi privati. Sorrido scorrendo ciò che mi ha scritto. Sì, lui.
Nessuna lo conosce meglio di me. So come pensa, cosa desidera, come vuole essere leccato, cosa vuole sentirsi dire. Per questo dopo aver lasciato passare qualche settimana dopo il suo addio ho creato questo profilo. È bastato chiedere l’amicizia a qualche amico comune e poi ha abboccato. È stato lui a inoltrarmi la richiesta, attirato dalla mia immagine di profilo esca. Ovviamente non ho accettato subito: l’ho fatto sudare, l’ho tenuto sulle spine. Mi ha scritto in privato sollecitando una risposta. Dopo qualche giorno l’ho accontentato. Ci siamo scambiati qualche messaggio in cui mi ha corteggiata spudoratamente ma con quel suo modo simpatico e carino. All’inizio, quando gli scrivevo piangevo. Mi sentivo umiliata. Lui non stava chattando con me, ma con una proiezione dei propri desideri. Le immagini che scorreva non erano le mie, ma quelle di una studentessa universitaria canadese a cui le avevo rubate. Nebula è la quintessenza delle sue fantasie, dei suoi istinti più viscerali. Ma Nebula non esiste. Nebula è l’unico modo che ho per stargli vicino, per avere ancora qualcosa di suo, anche solo un surrogato velenoso di un sogno che non può realizzarsi. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un gioco pericoloso. Forse. Ma è l’unico che mi è rimasto da giocare.
-Oddio quanto vorrei incontrarti. Quanto vorrei poterti abbracciare… - scrive.
Chiudo gli occhi e la casa si popola di ricordi. Sfilano intorno a me come fantasmi. Avevo smesso di chiedermi cosa avessi sbagliato; ma ora quell’interrogativo torna a scassinarmi il cuore. Perché? Eravamo così felici, stavamo così bene… Perché?
Vorrei scriverglielo. Vorrei chiederglielo. Vorrei sapere quali sono state le meccaniche della disaffezione e cosa le ha messe in moto. Ma non otterrei altro che una sua fuga, ne sono certa. Meglio stare zitta. Meglio far finta che Nebula sia la mia sola e unica identità.
-Incontriamoci, ti prego – scrive.
Un senso di ebbrezza mi assale quando leggo quelle parole. Sarebbe facile dirgli di sì. Sarebbe un sollievo perché ho fame di lui, di tutte le sensazioni che mi potrebbe dare. È il nutrimento emotivo di cui ho bisogno per sanare l’anoressia del mio cuore.
-Ho paura di non reggere il confronto con l’idea che ti sei fatto di me – scrivo. – Ho paura che ti sia fatto aspettative troppo grandi nei miei confronti… sto bene con te, e mi sono affezionata. Non vorrei perderti -.
- Non mi perderai. Vedrai che sarà bellissimo, ne sono certo -.
Digli di no.
Digli che è ancora troppo presto, che non te la senti.
Vorrei assecondare la mia coscienza perché so che ha ragione.
Ma non ce la faccio.
- Va bene – scrivo. – Incontriamoci -
Osservo il mio riflesso sul vetro della metro. Sotto il cappuccio che mi copre il capo vedo le ciocche di capelli decolorati. Ho cambiato colore stamattina. Anche il piercing sulle labbra è fresco. L’ho fatto per lui. Per assomigliare il più possibile a quella immagine rubata da internet; all’idea che si è fatto di Nebula.
Sono eccitata come mai prima, come se stessi per riconquistare qualcosa di così dolorosamente agognato. Non mi sembra vero. Sono una persona diversa ora, sono certa che se ne accorgerà. Le porte si aprono. Mi faccio strada tra la massa di pendolari. Raggiungo la scala mobile in una sorta di ondeggiante incoscienza, come se le mie gambe si muovessero da sole. Sono fuori, finalmente. Respiro l’aria della sera a pieni polmoni e cammino verso il parcheggio dove ci siamo dati appuntamento.
“Stai calma” mi dico. “Ti stai agitando troppo… Calma”.
Eccolo. Lo vedo, sotto il lampione. Affondo le mani nel tascone della felpa e abbasso lo sguardo come se avessi paura di guardare in faccia la realtà. Lo sto facendo davvero… sto per incontrarlo di nuovo e non è un sogno.
Ci dividono pochi metri. Continuo a camminare con lo sguardo rivolto a terra, il cappuccio che mi nasconde il viso, sottraendomi alla me che lo fece scappare.
«Ehi…» dici.
La tua voce è calda come lo scirocco estivo. Non mi ricordavo che fosse così profonda. Mi provoca un brivido.
«Non mi guardi?» dici con un sorriso.
“Fallo” mi dico.
Tolgo via il cappuccio e lo fisso finalmente negli occhi. «Ciao» sussurro.
Il sorriso si cristallizza. Poi il viso si crepa come un bicchiere dimenticato nel freezer. Gli occhi si fanno vitrei. Di colpo sembra più vecchio.
«Tu?!» sospira.
«Dovevo rivederti…».
«Che cosa?! Tu, tu… per tutto questo mi hai… Eri… eri tu?».
Annuisco.
«Era l’unico modo che avevo per…».
«Brutta stronza! Eri tu?! Eri tu!».
Accade tutto troppo in fretta. Scorgo un balenio assassino nei suoi occhi ma, prima che possa realizzarlo, un suo pugno mi frantuma il naso. Mi sento sbalzare all’indietro ed atterrare sull’asfalto. Mi manca l’aria. Sento il sapore del sangue in bocca. Schiudo le labbra per prendere fiato, ma il suo pugno me la spacca, facendomi sbattere il capo per terra. Lo sento sopra di me. Mi inchioda al terreno. Mi colpisce con una furia animalesca, vomitando accuse e insulti. Vorrei spiegargli… vorrei dirgli che… ma non riesco nemmeno a respirare. I suoi colpi non me ne danno il tempo.
Non riesco a crederci.
Non doveva andare così…
Non doveva…
Non…
©Piergiorgio Pulixi
Soundtrack: Radiohead, "Creep"
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