sabato 31 ottobre 2015

Sul comodino: letture compulsive (e disordinate)


Letture compulsive

Mai come in questo momento mi divido tra diverse letture in contemporanea. Fino a poco tempo fa mi capitava di rado di dedicarmi a più libri nello stesso tempo e, se accadeva, doveva trattarsi di generi molto diversi. Insomma, leggere più romanzi nello stesso periodo, almeno tanti come adesso, non mi era mai successo. ‘Colpa’ del social reading, ma anche grazie al social reading, una pratica di lettura condivisa attraverso gruppi di lettura più o meno strutturati, che si scambiano commenti, impressioni, incoraggiamenti, attraverso i principali social network: ce ne sono molti organizzati su Goodreads, molti su Facebook, esiste la comunità di TwLetteratura, che del gioco letterario della twitteratura (a proposito, il termine è ormai entrato nel vocabolario Treccani![1]) a partire da una lettura condivisa, fa un manifesto. E poi ci sono i gruppi di lettura che nascono in ambiti precisi, la scuola ad esempio, o i salotti letterari che si riuniscono periodicamente per parlare di un libro. Di tutto questo non mi faccio mancare nulla, da buona lettrice senza troppi pregiudizi rispetto magari a qualche titolo che di primo acchito non mi ispira.
Non è certo il caso dei libri che sto leggendo in questo periodo così intenso, nel senso che per tutti questi non ho avuto alcuna remora, ma anzi ho nutrito curiosità già in passato, ho sentito il bisogno di accostarmici, qualcuno è una scoperta, per un altro si tratta di una rilettura, a distanza di oltre trenta anni.
Photo Elena Tamborrino

Ma andiamo con ordine (non di inizio, ché tanto non me lo ricordo); per i primi due volumi indico qui le ultime edizioni disponibili (dei Fratelli è quella che possiedo, acquistata per l’occasione, mentre del romanzo della Viganò ho l’edizione stampata nel 1972), di Satta e di Dahl le edizioni che possiedo (de “Il giorno del giudizio” Adelphi ha pubblicato l’edizione economica nel 1990, collana Gli adelphi; del libro di Roald Dahl esistono moltissime edizioni, anche in versione pop-up e in ebook, l’ultima del 2014 sempre per Salani, mentre Einaudi l’ha pubblicata nel 1999 nella collana Einaudi Scuola, a c. di Tea Noja).
  
I fratelli Karamazov

Autore: Dostoevskij Fëdor
Traduz.; Villa Agostino
Dati: 2014, 1033 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Einaudi tascabili. Biblioteca)

Sforzatevi di amare il vostro prossimo
attivamente e ininterrottamente.
Nella misura in cui avanzerete nell’amore,
acquisterete anche la convinzione dell’esistenza di Dio,
e quella dell’immortalità dell’anima.

Nella vita prima o poi i russi ti toccano. Russi inteso come Grandi Scrittori Russi. Da tempo corteggiavo l’idea di accostarmi a Dostoevskji, o a Tolstoj o a Cechov, del quale comunque avevo letto qualche racconto, probabilmente per una specie di condizionamento determinato dagli studi liceali e sentivo che non aver letto nulla dei grandi romanzi che questi scrittori hanno scritto rappresentava una grave lacuna, considerando anche il mio lavoro di insegnante di materie letterarie. Così mi sono sicuramente fornita negli anni di titoli anche cronologicamente lontani come Anna Karenina di Tolstoj e Il dottor Živago di Pasternak, Le notti bianche e Il giocatore di Dostoevskji, Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Le anime morte di Gogol’, tanto per portarmi avanti con il lavoro, ma senza avere il coraggio di cominciare a leggerli (con l’eccezione de Il giocatore, letto lo scorso anno a scuola con i miei alunni, senza particolari entusiasmi, soprattutto da parte loro).
È stato provvidenziale l’incontro con il gruppo di lettura di Maria Di Biase del blog Scratchbook (qui la pagina FB del blog https://www.facebook.com/scratchbookblog/) con il quale ho già affrontato Infinite Jest (ne ho parlato qui) che ha proposto di leggere insieme “I Fratelli Karamazov”. Le prime impressioni, che riporto qui dopo averle già scritte negli spazi di condivisione del gruppo, sono state determinate da sensazioni di profondità e allo stesso tempo, con la sapienza magistrale di chi sa cambiare registro senza compromettere l’omogeneità del testo, di leggerezza. Solo nelle prime cento pagine l’Autore passa a parlare di menzogna ("Chi mente a se stesso e presta ascolto alle proprie menzogne, arriva al punto di non distinguere più la verità, né in se stesso, né intorno a sé.") alla distinzione esilarante tra Spirito Santo e Santo Spirito, che può scendere in forma d'uccello che ha voce umana e che avvisa se verrà un balordo a rivolgere domande insulse. La capacità di Dostoevskij di scandagliare l’animo umano, parlando ad esempio, oltre che del mentire a se stessi fino a convincersi che quella menzogna è invece verità, anche di suscettibilità, dell'immaginarsi un'offesa ("sa che lui stesso ha mentito per comporne un quadro, ha spaccato in quattro ogni parola e d'un fuscello ha fatto una montagna") con la conseguenza di un rancore certo. Altro punto importante, a mio parere, delle prime cento pagine è la descrizione dell'imbarazzo di Alëša il cui sguardo va verso la giovane Lisa, la cui infermità lo attrae e lo respinge insieme: a chi non è capitato di indugiare con lo sguardo dove non si vorrebbe/dovrebbe guardare? Ecco, Dostoevskij lo descrive in modo davvero mirabile. E poi già solo nei primi capitoli il narratore discetta sul rapporto tra Stato e Chiesa, sul concetto di colpa ("Ricorda soprattutto che non puoi essere giudice di nessuno. Perché non vi può essere sulla Terra nessuno che giudichi un criminale se prima non abbia riconosciuto di essere egli stesso un criminale come chi gli sta dinanzi, e di essere forse il maggior colpevole del delitto da questi commesso. [...] Perché se io fossi giusto, forse non vi sarebbe neppure il criminale dinanzi a me.", questo passo nella traduzione di Nadia Cicognini e Paola Cotta, ed. Mondadori 1994), su senso dell’onore e della malvagità ("Se poi la malvagità degli uomini suscitasse in te un'indignazione e una contrarietà irrefrenabili, a segno di farti sorgere un desiderio di vendicarti sui malvagi, abbi timore di questo sentimento più di ogni altra cosa.").
Anche in Dostoevskij c'è tutta l'umanità (e le miserie del mondo) e l’attualità. Come in Manzoni.
Siamo a metà dell’impresa, che si concluderà il prossimo 13 dicembre e, nonostante l’affanno dello star dietro alle tappe, l’esperienza si sta rivelando totalizzante.

L’Agnese va a morire

Autore: Viganò Renata
Dati: 2014, 256 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Einaudi tascabili. Scrittori)

Io non so sparare.
Gli ho dato un colpo così.

Questo con il romanzo di Renata Viganò, partigiana e scrittrice, è per me un ritorno. Ho letto “L’Agnese va a morire” quando ero studentessa di liceo e seguivo le suggestioni della narrativa neorealista, a partire da “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola, passando per il Calvino de “Il sentiero dei nidi di ragno” e da “Uomini e no” di Vittorini: furono anni di letture molto importanti e il ricordo si rinnova spesso, quando mi sorprendo a risfogliare queste edizioni tascabili che ormai si stanno spaginando.
Nell’ambito degli argomenti che tratterò a scuola con i miei ragazzi di quinta, ho pensato che non ci sia modo migliore, anche quest’anno, di far parlare i testi letterari invece che i manuali di Letteratura, o meglio che questi ultimi siano indispensabili, ma subordinati alla voce ancora viva degli scrittori che hanno vissuto la Resistenza e hanno sentito l’urgenza di raccontarla. Così il nostro percorso è iniziato da Agnese, la lavandaia delle valli di Comacchio alla quale i nazisti portano via il marito Palita: l’esistenza di questa donna tranquilla e riservata sarà sconvolta dalla perdita, ma troverà riscatto nella partecipazione alla lotta partigiana.
Non ricordo come arrivai a questo romanzo, se dietro indicazione della mia insegnante di Italiano, se da sola frequentando librerie; so che mi colpì molto questa figura di donna affaticata, pesante, goffa eppure coraggiosa e agile all’occorrenza, una che si caricava la bicicletta sulle spalle per attraversare passaggi fangosi dove affondava i suoi grandi piedi, chiusi nelle ciabatte sformate, una che caracollava sulle due ruote, in precario equilibrio su sentieri dissestati e sotto lo sguardo dei soldati che mai avrebbero sospettato di una vecchia così malmessa, che invece nascondeva sotto i cumuli di biancheria da lavare, esplosivi e dispacci per i compagni partigiani nascosti tra le paludi. Il fascino di Agnese mi ha conquistato da ragazzina e vedo che lo fa anche adesso: è impossibile non partecipare al suo sordo dolore, quello che non le fa sentire la fame e il freddo, è impossibile dimenticare il suo sguardo cupo e le sue parole misurate. Non so se anche nei miei ragazzi si riflettono le stesse mie emozioni: avremo modo di parlarne, la fine della lettura condivisa di “L’Agnese va a morire” terminerà entro la prossima settimana, ne discuteremo in classe e poi vedremo insieme il film che nel 1976 ne è stato tratto, per la regia di Giuliano Montaldo (e una grandissima Ingrid Thulin che interpreta Agnese).

Il giorno del giudizio

Autore: Satta Salvatore
Dati: 1979, 292 p., brossura
Editore: Adelphi

Il guaio è che amare è una cosa difficile,
ed è più facile essere grandi scienziate e grandi scrittrici,
 come ce ne sono state.
 Perché l’amore non è volontà, non è studio,
 non è quel che si dice genio,
è intelligenza, la vera sola misura della donna,
e anche dell’uomo.

Di Salvatore Satta non conoscevo nemmeno l’esistenza: è stato un grande giurista, rinomato per le sue pubblicazioni di Diritto e Procedura civile, ma anche un narratore apprezzato. Le sue opere di narrativa sono solo tre, delle quali solo “De profundis” è stata pubblicata la prima volta nel 1948 dall’editore Cedam di Padova (e poi nel 1980 e nel 2003) sotto la cura dell’Autore, mentre le altre due opere sono state pubblicate postume (“Il giorno del giudizio” nel 1977 ancora da Cedam e poi da Adelphi l’anno successivo, e “La veranda” nel 1981 da Adelphi).
Ma è “Il giorno del giudizio” a diventare caso letterario internazionale, tradotto in molte lingue. Più volte ho affermato che l’incontro con la comunità di TwLetteratura mi ha permesso di conoscere e leggere opere alle quali non avevo mai pensato di avvicinarmi: è la forza del gruppo, della condivisione e di un modo di vivere la cultura che riunisce molte persone, anche diversissime tra loro, pronte al confronto continuo. In questo periodo il progetto #TwSatta, in collaborazione con la comunità dei lettori sardi Lìberos, riempie le mie giornate di lettrice disordinata e compulsiva.
La voce narrante ci accompagna in una Nuoro dolente e rassegnata, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, specchio di una società arcaica e rinunciataria come tanti autori sardi ce l’hanno consegnata, quasi che la Sardegna fosse scrigno di identità complessa e imperscrutabile più di qualsiasi altro luogo (“La gente di Nuoro sembra un corpo di guardia di un castello malfamato: cupi, chiusi, uomini e donne, in un costume severo, che cede appena quanto basta alla lusinga del colore, l’occhio vigile per l’offesa e per la difesa, smodati nel bere e nel mangiare, intelligenti e infidi.”). In un palazzotto dall’architettura ardita (sviluppato in altezza, fatto di enormi scalinate e stanze che si inseriscono l’una nell’altra, di mezzanini e studioli nascosti) vive Don Sebastiano Sanna, notaio, con la moglie Donna Vincenza, una donna sfatta dalle gravidanze e dalla mancanza di amore, a parte quello dei numerosi figli. Una famiglia che con la nascita del settimo figlio ha concluso in se stessa il ciclo, allontanando definitivamente i coniugi l’uno dall’altra e relegandoli a custodi di un simulacro svuotato da qualunque manifestazione affettuosa. Attorno a casa Sanna si muove un mondo di anime perse, rievocate nel ricordo dalla voce narrante, che passa in rassegna i personaggi che popolano l’unico loro vero ‘luogo comune’, come recita il risvolto di copertina, la morte.
Anche qui, come per i Karamazov, sono a metà dell’opera: l’8 novembre si concluderà la riscrittura su Twitter di #TwSatta.



La fabbrica di cioccolato

Autore: Dahl Roald
Traduz.:Duranti Riccardo
Illustrazioni: Blake Quentin
Dati: 2005, 200 p., rilegato
Editore: Salani (collana Istrici d’oro)

«La fabbrica di Cioccolato Wonka è davvero la più grande del mondo?»

Nonostante questo libro di Roald Dahl sia molto famoso, tanto da contare molte traduzioni e innumerevole ristampe e tanto da dare origine a due trasposizioni cinematografiche altrettanto popolari (“Willy Wonka and the Chocolate Factory” del 1971 con Gene Wilder, sceneggiato dallo stesso autore e diretto dal regista Mel Stuart, e “Charlie and the Chocolate Factory” del 2005 di Tim Burton) la sua lettura mi mancava totalmente. Mi mancava probabilmente anche per una forma di pigrizia mentale, visto che la letteratura per i ragazzi non mi attira, fatta eccezione per quei libri considerati grandi classici dalla mia generazione; e poi semplicemente non mi è mai capitata.
In realtà mi devo ricredere: questa è senza dubbio una lettura per i più piccoli, ma anche molto per i grandi, per capire che genitori siamo, sempre pronti a soddisfare i desideri dei nostri figli prima ancora di dar loro il tempo di esprimerli. E per capire che insegnanti siamo, quali valori trasmettiamo.
Lo leggo con i miei ragazzi di seconda superiore, che mi hanno chiesto di partecipare a #TwWonka, il progetto in creative commons ideato da Maria Cristina Berti e Erika Pucci e realizzato con il metodo  TwLetteratura
: ritmi blandi, meta ancora lontana, siamo solo al nono capitolo, ma già abbiamo conosciuto il piccolo Charlie Bucket e la sua famiglia. Questa famiglia (papà, mamma, figlio e quattro nonni, tutti in due stanze e un solo letto) è talmente povera da non potersi permettere nulla, ma nonostante ciò non vuole rinunciare a regalare almeno una volta l’anno, nel giorno del suo compleanno, una tavoletta di cioccolato Wonka al piccolo Charlie, che è un bambino molto buono e diligente: cinque biglietti d’oro nascosti nell’incarto di cinque tavolette di cioccolato Wonka rappresentano l’opportunità di visitare la famosa fabbrica di Willy Wonka. I bambini che fino al capitolo 9 hanno trovato il biglietto d’oro sono tutti odiosi e viziati, siamo in attesa di sapere se il piccolo Charlie sarà baciato dalla fortuna in qualche modo, anche se restano ben poche speranze.


s. f. L’opera letteraria narrativa, sia come creazione originale sia come riscrittura di opere celebri, ridotta entro la misura dei centoquaranta caratteri di cui si compone un messaggio (tweet o cinguettio) in Twitter®.
• [tit.] Twitteratura, “a scuola smontiamo Manzoni in 140 battute” (repubblica.it, 12 marzo 2014, ‘Cronaca Firenze’).
• “Twitteratura”, ovvero l’arte trasformata in tweet: mira a sfruttare e stimolare la lettura utilizzando strumenti che ognuno di noi ha a portata di mano, ossia un libro, uno smartphone (tablet o pc), una connessione internet, un account Twitter, con l’obiettivo di riscrivere, e quindi rileggere grandi opere della letteratura come “Le città invisibili” di Italo Calvino (corriere.it, 19 marzo 2014, ‘Cultura’).
Dall’ingl. twitterature o sul suo modello; derivato dal marchionimo Twitter® incrociato con il s. (letter)atura, ingl. liter(ature). Già attestato nel sole24ore.com, 14 novembre 2009, ‘Cultura & Tempo libero’ (Serena Danna).

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