venerdì 26 febbraio 2016

Ultima lettura: "Che tu sia per me il coltello" di David Grossman


Che tu sia per me il coltello

Autore: Grossman David
Traduzione: Shomroni Alessandra
Dati: 2000, 330 p., brossura
Editore: Mondadori (collana Oscar Mondadori- Scrittori del Novecento)

Non sbagliarti sul suo conto, Myriam,
non sbagliarti sul suo conto e sul mio:
tra me e lei c'è un legame che non posso descrivere a parole.
Perché non è nelle parole,
è nel corpo, nel contatto, nelle sensazioni sottopelle
 (cosa ne sai tu di noi?)


Pensavo che non avrei dedicato un post nel blog a "Che tu sia per me il coltello" di David Grossman.
Non glielo avrei dedicato perché ero consapevole di non sapere che cosa scrivere: ci sono libri che spiazzano e ci lasciano a rimuginare pensieri ai quali dare ordine è estremamente difficile, sempre ammesso di riuscirci.
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Nel caso di questo romanzo epistolare, è impossibile limitarsi alla sola trama, l'incontro casuale tra due sconosciuti che stringono una specie di patto: raccontarsi nel proprio intimo, raccontarsi fino a strapparsi la pelle, raccontare i più reconditi pensieri, anche quelli più scomodi, anche quelli che non si direbbero alla persona più vicina, ma che si finisce col confidare agli estranei che sono capaci di insinuarsi nella nostra vita. E la gran parte del libro è occupata dalle lettere di Yair, alle quali si intuisce che Myriam risponde e che entrambi sono impegnati in questa lunga conversazione introspettiva a distanza, dove l’uno scava dentro se stesso a favore dell’altra che lo legge, e viceversa. Solo nell’ultimo terzo delle pagine del libro sentiamo la voce di Myriam, dalla quale ci si aspetta di poter meglio capire in che consista questo legame, di cosa si sostanzi, se sia parole e ricordi, piuttosto che pensieri e fantasie.
Troppo facile, uscirsene con la trama. In realtà non basta, la letteratura è piena di romanzi epistolari (lo stesso titolo di questo romanzo proviene da “Lettere a Milena” di Franz Kafka, dove leggiamo “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso”) e questo di Grossman è solo uno dei tanti. Ma ciò che lo rende particolare è la capacità di lusingare e allo stesso tempo respingere il lettore, che a tratti sembra messo alle strette, obbligato quasi a rileggere se stesso in tanti, troppi passaggi del delirio di Yair e Myriam.
La mia copia è piena di segni e sottolineature, la lettura è stata un succedersi di sobbalzi dell’anima, e respiri (e sospiri) faticosi: non tanti, rispetto a quelli che quindici anni fa mi costrinsero a rinunciare all’impresa, intrapresa perché sedotta dal titolo, e tuttavia abbastanza per confermarmi che questa storia e i suoi personaggi sono impegnativi e totalizzanti, prendono la mente e costringono a farsi delle domande e a guardarsi dentro, anche nelle pieghe più intime dove non si vorrebbe andare a indagare.
Però, alla fine, il rischio di entrare nel loop Grossman è altissimo: io mi preparo a leggere prossimamente “Qualcuno con cui correre” e “A un cerbiatto somiglia il mio amore” (anche questi, titoli attraenti).

C'è un pensiero che non m'abbandona: sanno tutti fare con naturalezza ciò di cui io mi sento assolutamente incapace: mettere radici.

venerdì 19 febbraio 2016

#Maus di Art Spiegelman con TwLetteratura


Maus

Autore: Spiegelman Art
Traduttore: Previtali Cristina
Dati: 2000-2010, 292 p., rilegato
Editore: Einaudi Editore (collana Stile Libero Extra)

Anja? Cosa c’è da dire?
Sempre dove guardo io vedo Anja…

Scorro il tweetbook della mia riscrittura di #Maus su Twitter e ripercorro la storia di Vladek Spiegelman, ambientata durante la seconda guerra mondiale e raccontata da suo figlio Art in un romanzo a fumetti tra il 1973 e il 1986 in due volumi e pubblicata in Italia da Einaudi, in un unico volume, a partire dal 2000.
Photo Elena Tamborrino
Avevo sentito parlare di questo libro qualche anno fa, senza interessarmene più di tanto, dal momento che non sono una grande appassionata di fumetti e pensando, a torto, di aver visto tanti film e di aver letto tanti libri sul tema della Shoah, che uno in più (graphic novel per di più) o uno in meno non avrebbe fatto differenza. Non pensavo che il mio fosse un errore gravissimo che tradiva proprio la memoria di chi dai campi di sterminio è tornato e ci ha chiesto di testimoniare con loro e per loro: la visita che ho compiuto ad Auschwitz-Birkenau due anni fa mi ha aperto uno squarcio nella coscienza e mi ha dato la consapevolezza che, al di là della visione globale di un fenomeno atroce come il genocidio di un popolo, la grande Storia è fatta di piccole storie, delle sezioni di vita di diverse persone che tutte insieme si raccontano sulla stessa pagina, o aspettano che qualcuno lo faccia per loro. La lettura di “Maus” ha amplificato in me il ricordo di quel viaggio in Polonia con il Treno della Memoria.
L’occasione per leggere “Maus” è arrivata da TwLetteratura che ha supportato il progetto didattico in creative commons ideato dall’insegnante Sabrina Valentini e da due classi del Liceo Classico “Vittorio Emanuele II” di Jesi (la IV E del Liceo delle Scienze Umane e la IV I del Liceo Economico Sociale). Ho letto da sola il fumetto di Spiegelman, senza coinvolgere ufficialmente i miei alunni con un’adesione formale al progetto, per gli annosi problemi che purtroppo nella scuola abbiamo e che riguardano l’impossibilità di chiedere ai nostri alunni di sopportare spese di libri oltre a quelli di testo (per i quali peraltro va rispettato un certo limite): tuttavia qualcuno di loro ha acquistato ugualmente il libro e qualcun altro lo ha letto anche dopo il termine della riscrittura su Twitter, quando abbiamo fatto girare in classe i volumi acquistati, prestandoli.
Nei due volumi che Art Spiegelman ha disegnato, si racconta la storia di Vladek, suo padre che “sanguina storia”. Il racconto è racchiuso in una cornice, la storia è nella storia: Artie decide di testimoniare le vicende che hanno visto protagonisti i suoi genitori, Vladek e Anja, a partire dal loro incontro nel 1935, seguito dal matrimonio e dalla nascita del primogenito Richieu, morto da bambino, fino ai loro tentativi di sfuggire alle persecuzioni naziste in Polonia, miseramente falliti con la deportazione ad Auschwitz, a cui sopravvivranno entrambi.
I personaggi sono rappresentati come animali, sulla base della loro nazionalità e del loro status sociale e secondo una serie di metafore (gli ebrei perseguitati sono riprodotti come topi, contrapposti ai nazisti rappresentati da gatti; i francesi sono rappresentati da rane, i polacchi da maiali, gli americani da cani).
Nei disegni di Spiegelman incontriamo Vladek ormai anziano e sposato in seconde nozze con Mala (Anja è morta da anni, suicida), che racconta al figlio la sua storia. Gli inciampi della vecchiaia vogliono che l’uomo non ricordi cosa è successo il giorno prima, ma mantenga viva la memoria di ciò che è stato lontano nel tempo.
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L’uomo appare diverso rispetto al suo passato di giovane innamorato e coraggioso: è diventato un vecchio sospettoso e tirchio, che incarna inconsapevolmente lo stereotipo caricaturale e becero dell'ebreo avaro, cosa di cui il figlio e la moglie sono preoccupati. Lontano da Auschwitz la vita di Vladek si fa piccola, meschina, fatta di fiammiferi di legno da non sprecare, di tombolate a scrocco negli alberghi vicino a casa e di atteggiamenti che sfiorano il razzismo verso i neri, dei quali parla quasi come i nazisti parlavano degli ebrei; inoltre Vladek ha sviluppato una forma di egoismo affettivo tipico di molti anziani, secondo lui il figlio Artie dovrebbe rinunciare alla sua vita di sempre, per trasferirsi da lui con la moglie Françoise.
Anche la figura di Mala emerge dalle parole di Vladek in modo diverso da come la vediamo: per il marito è avida, interessata all’eventuale eredità dopo la morte del marito, a me è sembrata infelice, oppressa dalle manie di quest’uomo nevrotico. Invece nei discorsi dello stesso Vladek la memoria della prima moglie Anja è tenero: l'amore resiste al ricordo del dolore e anzi si è rafforzato, perchè condividere l'orrore unisce oltre la morte.
In “Maus” troviamo anche il metafumetto: Art Spiegelman disegna se stesso mentre riflette sulla propria "inadeguatezza a ricostruire una realtà peggiore dei sogni più reconditi", mettendo spesso il lettore a parte dei suoi pensieri rispetto alle difficoltà nel raccogliere la testimonianza paterna, a volte reticente (che fine hanno fatto i diari di Anja? Davvero sono andati persi?).
Particolarmente interessante è la nota della traduttrice italiana, Cristina Previtali: è importante conoscere il criterio seguito per rendere l'opera fedele quanto più possibile all'originale, che nel caso di “Maus” vede Vladek parlare fluentemente nella lingua materna nelle vignette che lo vedono protagonista dei flashback ambientati in terra natia, mentre nelle scene ambientate negli Stati Uniti dove è emigrato, parla un’interlingua frammentaria e incerta.
Art Spiegelman può aver avuto tutte le insicurezze e il senso di inadeguatezza rispetto alla realizzazione di un progetto tanto difficile quanto ambizioso come è il racconto di un sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, tanto più perché il coinvolgimento personale, autobiografico, era al massimo livello: i risultati parlano da soli però, perché la sua opera ha ricevuto apprezzamenti in tutto il mondo e ha vinto lo Special Award del Premio Pulitzer.
Per limitarci a un giudizio e tralasciando gli altri riconoscimenti, alla pubblicazione in Italia di “Maus”, Umberto Eco ha detto: «Maus è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più. Quando due di questi topini parlano d'amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell'Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi dal ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico.»

venerdì 12 febbraio 2016

Ultima lettura: "Scacco alla Torre" di Marco Malvaldi


Scacco alla Torre

Autore: Malvaldi Marco
Dati: 2015, 86 p., brossura
Editore: Editori Laterza (collana Contromano)

Piazza dei Miracoli, per i pisani, è vera solo di notte.

Ci sono libri che compri perché li vuoi leggere, quindi entri in libreria determinato su ciò che cerchi e con il portafogli semiaperto. Ci sono poi libri che ti capitano sotto gli occhi mentre stai cercando altro e finisci col fare acquisti non preventivati, di cui non ti pentirai mai e per i quali ringrazi il tuo sguardo che è andato a cadere proprio su un certo scaffale. È quello che mi è successo con questo piccolo volume su Pisa, che Marco Malvaldi dedica soprattutto a quegli aspetti della sua città che restano all’ombra della famosa torre pendente (che poi, “ad essere precisi, le torri che pendono sono tre: e quella famosa, oltretutto, è quella meno inclinata”).
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Dopo una breve premessa in cui l’autore spiega come gli sia venuta la voglia di raccontare la sua città ‘oltre’ il famoso campanile, questa guida turistica semiseria, destinata a turisti meno scontati di quelli che affollano ogni giorno piazza dei Miracoli e che hanno voglia di scoprire altre bellezze, si dispiega in undici capitoli dove si racconta la città non solo negli aspetti più prettamente descrittivi, ma anche in quelle toponomastici, etnografici, gastronomici e culturali.
Due capitoli in particolare, intitolati rispettivamente “La piazza di giorno” e “Finalmente soli” raccontano piazza dei Miracoli vista di giorno e di notte: se nel primo caso abbiamo una descrizione delle bellezze architettoniche sia del Duomo che del Battistero, in “Finalmente soli” la piazza, che di giorno ‘lavora’ assecondando turisti e commercianti di souvenir di dubbio gusto, la notte “apre volentieri il suo salotto come amica e non come impiegata” e lo fa per i pisani e per i rari turisti che hanno capito che per apprezzarla bisogna vederla col buio.
Un capitolo importante è dedicato all’Università, che fa parte integrante della città anche perché le sedi delle varie Facoltà si trovano nel centro storico e molte sono ospitate da austeri, importanti palazzi: anche le due istituzioni universitarie storiche, la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore di Studi Universitari Sant’Anna, trovano spazio in questa guida di Pisa, sia per la tradizione illustre che le accompagna, sia per i luoghi dove hanno sede. Associati agli studenti ci sono gli itinerari gastronomici e quindi ad esempio il percorso principale che, parallelo all’Arno, arriva al mercato permanente della frutta e della verdura di piazza delle Vettovaglie: durante questo tragitto è possibile trovare tavernette, ristoranti, caffetterie, stuzzicherie e vinerie sorte in modo quasi incontrollato; la stessa cosa si può dire del percorso alterativo che, cruciforme, unisce l’asse Borgo-Logge di Banchi al Lungarno. Ma “di ciccia”, cioè di mangiare, si parla anche in un capitolo non a caso intitolato “Metter su peso, perdere peso”: Malvaldi ci porta nel quartiere di San Martino, dove si trovano alcuni dei locali più caratteristici per gustare il bordatino (minestra di fagioli, cavolo nero e farina di mais) e la zuppa di cavolo nero (che io -forse impropriamente- chiamo ‘zuppa di pane’ ma credo sia la stessa cosa, pane, cavolo nero, fagioli e verdure varie). Mi aspettavo almeno una menzione della cecina dello storico Montino (anche questo ritrovo per gli studenti), ma sono rimasta a bocca asciutta, come si suol dire.
Importante è l’omaggio che Malvaldi fa alle personalità che si sono distinte in ambito scientifico, a partire da Galileo Galilei, che “ha usato più o meno ogni monumento di piazza dei Miracoli come laboratorio o fonte di ispirazione per lo sviluppo della fisica quale oggi la conosciamo”, fino a Leonardo di Pisa, meglio conosciuto come Leonardo Fibonacci, famoso matematico vissuto tra il 1100 e il 1200 a cui dobbiamo l’introduzione dei numeri arabi; alla “serie di Fibonacci” Malvaldi associa l’idea del bellezza: il numero di petali di qualsiasi fiore è un numero di Bonacci e se un fiore ha un numero di petali diverso da un numero di Fibonacci, o ha un numero di petali che è doppio di un numero di Fibonacci, o ne ha perso qualcuno. Ma non basta: ogni numero della serie, diviso per quello che lo precede, dà un valore approssimabile a 1,61803, noto in architettura e nelle arti figurative come ‘sezione aurea’, cioè un rapporto estetico tra grandezze.
Potrei ancora dilungarmi sulla parte che l’Autore dedica a Romeo Anconetani, mitico Presidente del Pisa Sporting Club; il capitolo in cui si parla delle imprese epiche che la squadra di Anconetani ha vissuto sul campo dell’Arena Garibaldi, verrebbe sminuito da qualsiasi mio tentativo di sintetizzarlo: va letto.
E in realtà questo librettino va letto tutto, qualsiasi tentativo di raccontarlo lo priva del pregio principale: lo stile di Marco Malvaldi, che alterna informazioni preziose a intermezzi umoristici, in una scrittura che fluisce sorridente fino all’ultima parola.
A me Malvaldi diverte, leggendo questo “Scacco alla Torre” ho rivissuto le sensazioni provate con "La famiglia Tortilla", guida gastronomica di Barcellona per coppie con bimbi piccoli al seguito. E ho sorriso molto e spesso anche riso, da sola, in un solitario pomeriggio domenicale. E grazie ancora a quel mio sguardo che si è posato casualmente su questo titolo, in un angolo della libreria IBS di Firenze dedicato alle guide sulla Toscana.

mercoledì 3 febbraio 2016

#LeggoNobel: "Il Libro della Giungla" di Rudyard Kipling


Il libro della giungla

Autore: Kipling Rudyard
Curatore: Pieroni P.
Dati: 2009, 232 p., brossura
Editore: Einaudi Ragazzi (collana Storie e rime)

Fortunatamente la Legge della Jungla
gli aveva insegnato a sapersi dominare,
poiché nella jungla la vita e il nutrimento
dipendono dal sapersi dominare.

Se si cita il Libro della Giungla, il pensiero quasi meccanicamente va a Mowgli, il cucciolo d’uomo allevato dai lupi nella giungla indiana. L’associazione di idee è certamente merito (o colpa?) della versione disneyana in cartoni animati (il film è del 1967) dei primi tre racconti del libro di Rudyard Kipling, quelli che hanno appunto Mowgli come personaggio principale. In realtà Kipling pubblicò tra il 1893 e il 1894 una raccolta di sette racconti più la parade-song di tutti gli animali (celebri canzoni e filastrocche dell'epoca), dei quali i più popolari sono forse quelli che narrano le avventure di Mowgli e della mangusta Rikki-Rikki-Tavi, e solo nel 1895, pubblicando “Il secondo libro della giungla”, tornò a raccontare del cucciolo d’uomo. Potremmo dunque dire che in generale l’opera forse più famosa di Kipling è non un libro su un bambino allevato da un branco di lupi, ma un libro sugli animali e sui valori che il loro mondo può suggerire agli umani, che a volte ne sono mancanti.
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Dalla lettura di questi racconti emerge forte la profonda conoscenza che Kipling aveva dell’India, dove era nato e dove ha trascorso i primi anni di vita, per poi farvi ritorno da giovane adulto per svolgere la professione di giornalista. L’Autore ci accompagna nella Natura, cogliendone gli aspetti più misteriosi, impenetrabili e selvaggi, personificando allo stesso tempo gli animali, che -ragionanti e umanizzati- rivestono nella narrazione ruoli sociali ben precisi; e così incontriamo il saggio orso Baloo, che si occupa dell’educazione dei cuccioli della giungla, Mowgli compreso, la forte e coraggiosa pantera Bagheera, che prende sotto la sua particolare protezione il cucciolo d’uomo, Mamma Lupa, che difende l’idea di maternità oltre la specie animale e ama profondamente il bambino che, abbandonato nella giungla, sceglie di curare e crescere insieme ai suoi lupetti. E ancora Shere Khan, la tigre prepotente che odia Mowgli, e il pitone delle rocce Kaa, leale e gentile, fedele amico del cucciolo d’uomo, e quindi Akela, il capobranco dei lupi di Seeonee, la famiglia di Mowgli.
Oltre ai personaggi di cui facciamo la conoscenza nei primi tre racconti delle avventure del cucciolo d’uomo (che per legge naturale farà ritorno tra gli uomini), anche gli altri racconti ci svelano un mondo prezioso che è ovunque, anche tra le gelide acque del mare di Bering, dove assistiamo alla legge che regola la vita e la morte delle foche e dei loro cuccioli, preda degli umani senza cuore che li cacciano per ottenere le loro pelli pregiate.
I valori trasmessi da Kipling e dagli animali che li rappresentano, così forti e così irrinunciabili, sono stati accolti dalla tradizione scout, tanto che la fascia d’età più giovane degli scout, i lupetti, adottano le ambientazioni del Libro della giungla come sfondo per le proprie attività. L’orgoglio con cui gli animali proclamano le proprie caratteristiche, nella “Canzone di parata di tutti gli animali del campo” alla fine del libro, è esemplificativo di uno spirito di corpo ben rappresentato dallo scoutismo.
Molte sono le edizioni che si possono reperire de “Il Libro della giungla”, anche se la scheda in apertura si riferisce all’edizione Einaudi Ragazzi, che è quella consigliata da #LeggoNobel; in realtà io ho letto una vecchissima edizione Mursia (collana I Corticelli) tradotta da Umberto Pittola per la prima edizione italiana del 1928 (la mia è la tredicesima edizione del 1969): nonostante la distanza temporale dalla traduzione, la lettura è scorrevole, distesa e piacevole, mancando qualsiasi sensazione di arcaismo lessicale.
Chi pensa che “Il Libro della giungla” sia un libro per bambini, sbaglia. Sappiatelo.