sabato 23 agosto 2014

Ultima lettura: "La metà di niente" di Catherine Dunne


La metà di niente

Autore: Catherine Dunne
Dati: 2006, 304 p., brossura, 16 ed., ePub con DRM 371,9 KB
Editore: Guanda (collana Narratori della Fenice)

In principio c’è una famiglia.
Non è niente di eccezionale, è una famiglia normalissima,
proprio come la vostra e la mia

Pubblicato in Italia la prima volta da Guanda nel 1998, negli anni questo romanzo è stato più volte proposto all’attenzione del pubblico, anche dalle edizioni TEA, fino alla versione digitale del 2011 e ancora fino al 2014, in edizione economica ancora una volta TEA. Segno che si tratta di un romanzo di successo, che nel tempo ha incontrato i favori di un pubblico, immagino prevalentemente femminile dato il tema, che si è identificato con una storia tanto comune (e per questo sempre attuale) quanto amara. Il dolore della protagonista Rose, casalinga dalla vita metodica e regolare, devota a un marito che da un giorno all’altro la pianta in asso per scappare con un’amica di famiglia, si trasforma in riscatto, in possibilità di affermazione anche sociale.
La fatica di Rose, costretta a reinventarsi e scoprire in sé risorse insospettabili, diventa rivincita ed è inversamente proporzionale alla disfatta di suo marito Ben: quanto lei all’inizio della vicenda è piccola, dimessa, sopraffatta dagli avvenimenti che la colgono del tutto inaspettatamente mentre lei è al colmo della sua vita ordinaria, per poi emergere da quell’esistenza anonima in tutta la sua forza che la fa giganteggiare, tanto lui –all’inizio arrogante e tronfio nella sua nuova esistenza introdotta dal più banale “Rose, dobbiamo parlare”- diventa misero e insignificante nel corso della storia.
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Quello che piace nella storia di Rose e dei suoi tre figli, credo che sia proprio l’idea di speranza e di rivincita: se è vero che dal letame nascono i fior, la vicenda narrata dalla Dunne è esemplare, perché offre la prospettiva del riscatto e del miglioramento, quello che ti fa pensare che se la tua vita è banale e noiosa -ma tutto sommato accettabile soprattutto perché non hai mai pensato che potesse essere diversa- un evento disastroso può essere l’input per il cambiamento.
La storia si svolge a Dublino, il teatro principale è la casa che Rose e Ben hanno diviso con i loro figli Damien, Brian e Lisa, fino a lunedì 3 aprile 1995. Un prologo illustra la vita di questa famiglia anonima, in cui si va avanti per forza di inerzia, come accade a molte altre famiglie sparse nel mondo (per cui l’Irlanda o altrove non fa differenza). Le quattro parti in cui si articola il racconto racchiudono un periodo che va da quella data all’epilogo di sabato 6 aprile 1996, un anno esatto dopo l’abbandono di Ben. Si tratta di una specie di diario, in cui nelle prime due parti si intervallano lunghi flashback, anche questi datati dal giugno 1972 (il primo incontro e l’amore tra i due) al 31 marzo 1995 (la vigilia della catastrofe familiare), che ricostruiscono la quotidianità di Rose, annullata totalmente appresso alle ambizioni del marito e allo stesso tempo impegnata a dimostrare a lui e a se stessa la piena efficienza nell’affrontare le esigenze familiari, casalinghe, e lavorative di lui.
Nel diario, in terza persona, sono scrupolosamente annotati tutti i cambiamenti, gli avvenimenti, i problemi e le soluzioni: trovano spazio i figli, compresi tra i diciassette e i tre anni -il che significa un ventaglio di situazioni disparate-, le amiche di sempre e una suocera solidale. Ma soprattutto trova spazio la consapevolezza che Rose acquista di sé, la coscienza dell’essere stata fino a quel momento non la metà di una coppia, ma la metà di niente, e quindi la determinazione con cui affronta la sua nuova vita, potendo contare su una nuova se stessa.
Una bella iniezione di fiducia nel futuro per tutte le donne che pensano che la vita sia tutta qua e che magari da vent’anni, come è stato per Rose, “hanno un ratto in fondo alla gola”.

sabato 16 agosto 2014

Sul comodino: "Sono l'ultimo a scendere e altre storie credibili" di Giulio Mozzi


Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili)

Autore: Mozzi Giulio
Dati: 2013, ePub con DRM 1,2 MB
Editore: Laurana Editore

«Non posso rispondere», dico.
«Come, prego?», dice Sonia.
«Non posso rispondere», ripeto. «Non mi aspettavo che la domanda fosse questa.»
«La vita pone spesso domande inaspettate», dice Sonia.
«Sono d’accordo», dico. «Potrei ripartire dalla domanda precedente?»
«Nella vita non si torna mai indietro», dice Sonia.
«Ho capito», dico. «Ma questo è un questionario».
«I questionari fanno parte della vita», dice Sonia,
 «e pertanto sono soggetti alle stesse leggi che determinano la vita.»

Mettiamola così: c’è un omino (in realtà non so se è un omino) che vive a Padova, non ha la patente e si muove esclusivamente a piedi o con i mezzi pubblici. Precisamente quasi ogni giorno prende il treno per andare a Milano, dove lavora, o comunque per andare ovunque il suo lavoro lo porti. Nella vita per l’appunto fa un lavoro non facile da spiegare, anzi non facile da capire. Cioè, non è che fa l’autista di tram, che di sicuro guida i tram, o il capotreno, che io non so bene cosa faccia ma è un problema solo mio, perché sicuramente ha delle mansioni ben precise, che però io non conosco (lo dice la parola stessa ‘capotreno’: non può che fare cose precise). Infatti, fa il consulente esterno per una casa editrice, il lettore di professione, e fa anche lo scrittore.
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Sarà forse per questo che gli capitano incontri bizzarri, intendo dire che la sua capacità di osservazione e di narrazione di ciò che quotidianamente gli accade, fa assumere alla sua vita -e a quella delle persone che incrocia- un’aura di stravaganza che fa sembrare surreale anche ciò che è ordinario. Quindi sembra che capitino a lui in particolare degli incontri bizzarri; invece forse ne facciamo tutti, solo che normalmente noi comuni mortali -non dotati di grandi capacità di riflessione e probabilmente con scarsa attitudine a cogliere il comico nell’ordinario- ci arrabbiamo, invece di sorridere stralunati.
Diligentemente l’omino, che risponde al nome di Giulio Mozzi, ha annotato per anni ciò che gli succedeva, prevalentemente in treno o a casa mentre lavorava, gli incontri e i dialoghi, e per un po’ ha fatto viaggiare in rete questi piccoli racconti; continuo a pensarlo così, l’omino, una specie di Marcovaldo dei nostri giorni, anche se non fa il magazziniere, ma del personaggio di Calvino mantiene lo stesso sguardo ingenuo e stupito, anche se qui è quasi una forma di cinismo a essere travestita da ingenuità, come si evince soprattutto dai dialoghi, con il risultato di una comicità apparentemente involontaria.
Anche gli episodi più comuni, trasferiti su carta e riportati nei più banali particolari, nelle parole dei dialoghi scrupolosamente riportate, fanno pensare a te, lettore, che la gente è pazza. Non Giulio Mozzi, la gente. Anzi, laggente.
Seriamente: dopo aver viaggiato per il web in forma di diario tenuto tra il
2003 e il 2008, una selezione di questi racconti è stata successivamente raccolta e pubblicata nel 2009 da Mondadori. Questa che sto leggendo è l'edizione di Laurana Editore del 2013 (nuova edizione con dieci capitoli inediti e con un rendiconto dell'accoglienza critica in appendice), dopo che la giacenza dell’edizione Mondadori del 2009, dal 1° giugno 2012 è stata mandata al macero, una volta tolta dal catalogo. Da qui, l'interessamento di Laurana e la ripubblicazione, solo in edizione digitale. In realtà il libro edito da Mondadori si trova ancora su IBS nella sezione outlet con il 50% di sconto (ma non era andata al macero?). Oggi è acquistabile solo su BookRepublic anche da qui.
Sono brevi scorci di vita, in cui prevalgono le descrizioni minuziose delle persone che li attraversano (volti, abbigliamento, atteggiamenti) e i dialoghi fatti di ostinate reiterazioni di difetti di comunicazione, dovuti a incomprensione: le persone si parlano ma non si comprendono, perché vanno oltre le parole, emettono intenzioni più che enunciati e se dall’altra parte c’è chi, come il nostro omino Giulio Mozzi, si limita a decodificare il messaggio e a rispondere adeguatamente, si generano gli equivoci più assurdi che si concludono sempre con la rinuncia da parte di quello che si sente incompreso, mentre in realtà non si è spiegato. Abbandoni di campo che alla fine fanno riflettere proprio su questo, su quanto sia difficile dirsi le cose più semplici, troppo abituati a complicare anche il pane.
Sul piano dello stile, ho notato un piccolo vezzo morfosintattico, almeno io lo considero una pratica vezzosa: l’accordo del participio passato con l’oggetto in sintagmi ricorrenti del tipo “ho detta una cosa”, “ho cercata la compagnia”. Come sostiene Gerhard Rohlfs[1], in origine, secondo il modello DOMUS CONSTRUCTAM HABEO (ho costruito una casa/ho una casa costruita), il participio si accordava con il relativo oggetto, così anche nell’italiano antico (come attestato nel Novellino «a rifiutata la nobile cittade», in Dante e in Boccaccio) e successivamente in scrittori moderni che si sono mantenuti in parte fedeli a questa regola. La carta 1145 dell’AIS[2] “hai venduto le uova” mostra la prevalenza di venduto nella Toscana meridionale e vendute a Pisa e nella provincia di Firenze.
Con il passare del tempo però il participio si è come fossilizzato e, perdendosi la coscienza del significato originario, l’accordo del participio non fu più strettamente osservato, come rileva anche Luca Serianni[3], che riporta esempi da Pirandello, Deledda, Carlo Levi, Tomasi di Lampedusa e afferma che se anche “l’uso più tradizionale sembra essere stato quello di accordare il participio con il complemento oggetto”, la tendenza attuale è quella di lasciare inalterato il participio, sia pure con attestazioni diffuse di casi di accordo (eccezioni che confermano la norma derivata dall’uso).
Mozzi è un virtuoso del participio. Mi piace, anche se non lo emulerei mai, non adusa a preziosismi sintattici.
Per tornare ai contenuti: leggete “Sono l’ultimo a scendere”, salite sui treni con Giulio Mozzi, sperando di non incontrare l’uomo dal culo enorme, cercate di sedervi ai posti che avrete prenotato e che troverete spesso occupati, ascoltate le sue telefonate e i discorsi che lui fa con laggente. Non sono surreali, sono iperrealistici. Il sorriso non vi abbandonerà un momento.

«Vada in libreria», dico. «Se lei è un poeta emiliano vada a Bologna, a Modena, in una libreria Feltrinelli. Guardi lo scaffale di poesia, veda che case editrici ci sono».
«Lei dice?», sussurra la voce, ora più incerta.
«Dico, dico», dico. «Lei va spesso in libreria?»
«No», sussurra la voce.
«Lei legge molto?», dico.
«No», sussurra la voce. «Io scrivo, non leggo».
«Quindi lei non legge gli altri poeti italiani», dico.
«In che senso?», sussurra la voce.
«Lei ha letto Zanzotto?», dico.
«No», sussurra la voce.
«E Caproni?», dico.
«No», sussurra la voce.
«E Giudici, Luzi, D’Elia, Riccardi, Dal Bianco, Rondoni, Albinati, li ha letti?», dico.
«Mai sentiti nominare», sussurra la voce.
«Bene», dico. E poi sto zitto.
Sta zitto anche lui.
«Lei dice che dovrei leggerli?», sussurra la voce.
«No», dico. «Dico che se lei non si degna di leggere, non vedo perché qualcuno dovrebbe leggere lei».


[1] G. Rohlfs, Grammatica storia dell’italiano e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino 1969, vol III, §725
[2] K. Jaberg-J.Jud, Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, ediz. italiana a c di G. Sanga, Unicopli, Milano 1987 (ediz originale Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 1928-1940)
[3] L. Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, UTET, Torino 1989, XI, §367

domenica 10 agosto 2014

Ultima lettura: "Dove comincia la notte" di Alessio Viola


Dove comincia la notte

Autore: Viola Alessio
Dati: 2013, 338 p., rilegato
Editore: Rizzoli (collana La scala noir)

È l’ambiente che fa la malavita

Ho finito questo romanzo nella notte, precisamente dove finiva la mia notte.
Impossibile staccarmene finché non avessi saputo che fine avrebbe fatto il sovrintendente Roberto De Angelis, poliziotto di lungo corso, di esperienza, bravo a tal punto da muoversi al limite della legalità, anzi spesso superando il limite della legalità, pur di portare a casa il risultato e molto somigliando in questo al vicequestore Rocco Schiavone di Antonio Manzini (qui e qui)e al commissario Bordelli di Marco Vichi (qui).
Pochi ingredienti fanno di questo romanzo, che si basa su vicende realmente accadute negli anni Novanta a Bari, opportunamente adattate alla finzione narrativa, un noir indimenticabile: la fotografia di quella realtà malavitosa e abbrutita è realistica, quasi cronachistica. C’è Bari, c’è la lotta per il predominio in città della nuova malavita organizzata, c’è un poliziotto che indaga con mezzi non precisamente ortodossi, c’è una strana amicizia tra persone che non potrebbero essere più lontane e diverse, c’è un amore senza speranza che forse non è nemmeno amore, c’è il degrado di un mondo oscuro.
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Soprattutto c’è la città. A Bari mi lega un affetto speciale, che mi fa riconoscere luoghi e odori e scorci e sguardi e sapori: sensazioni che si rinnovano ogni volta che ci capito, anche solo di passaggio, e che ritrovo quando leggo un romanzo che ne parla, senza volerne fare un ritratto stereotipato e idilliaco da cartolina, come anche in "Prima che tu mi tradisca"di Antonella Lattanzi e in molti pezzi che Rita Lopez pubblica nel suo blog.
In questo romanzo di Alessio Viola, Bari sa essere brutta, sporca e cattiva, ma anche bellissima, struggente, malinconica. La descrizione dei luoghi, dal quartiere Libertà dove vive il protagonista, a Poggiofelice, residence periferico, roccaforte del clan all’interno del quale opera lo spacciatore –poi killer spietato- Giacinto Trentadue, da Barivecchia al quartiere Murat, contribuisce a tracciare una geografia che è soprattutto dell’anima. Oltre il luogo c’è la storia, una di quelle che ti prende in crescendo, ti avvolge nelle sue spire fino a toglierti il fiato, portandoti alle ultimissime pagine e concludendosi in modo del tutto inaspettato: tutto ciò che temi che sia scontato, il limite oltre il quale il poliziotto De Angelis si spinge, si risolve in modo sorprendente. Quello che si chiede a uno scrittore è proprio questo: la capacità di acchiapparti fino all’ultima parola, di accompagnarti in un viaggio, ovunque e altrove, che sia immersivo, dove puoi camminare al fianco dei protagonisti, vederli, sentirli.
La prosa di Viola, editorialista del “Corriere del Mezzogiorno” con un passato di operaio, insegnante e rugbista, è asciutta e veloce. I dialoghi sono serrati, emerge prepotente il dialetto (se lo conosci ne senti l’intonazione, la cadenza, se non lo conosci non ci sono comunque problemi a comprenderlo), i modi di dire, le espressioni idiomatiche che fanno tutt’uno con le espressioni del volto di chi le pronuncia, e tu lettore le vedi, tu vedi tutto.




 Faccio solo un piccolo appunto su quella che immagino sia una mera svista in sede di editing: a p. 284 leggo “Le strade erano come stratificazioni minerali, una dopo l’altra gli ricordavano le cose che aveva studiato al liceo”, mentre due pagine dopo trovo “Ma al momento di scegliere la scuola superiore si era fatto convincere dagli amici a preferire un istituto per ragionieri” (p. 286). Insomma, non si capisce che scuola De Angelis abbia frequentato ai tempi, ma appunto ciò non toglie sostanza e significato alle stesse pagine, disorienta il lettore ma non più di tanto.


domenica 3 agosto 2014

Ultima lettura: "Come un respiro interrotto" di Fabio Stassi


Come un respiro interrotto

Autore: Stassi Fabio
Dati: 2014, 305 p., brossura
Editore: Sellerio (collana Il contesto)

Basta, hai detto con un soffio,
poi mi hai guardato come se avessi avuto dell’altro da aggiungere,
molto altro, ma erano parole che non potevano essere dette,
o non c’era più tempo per dirle,
parole più indigeste e corrosive di qualsiasi cibo.
Pensai che di stonato, in te, c’era solo il silenzio.

Intuisci subito, dalle prime pagine di questo romanzo di Fabio Stassi, che Sole è una figura che cattura chiunque si trovi ad avere a che fare con lei, lettori inclusi.
Sarà per come si muove, sarà per la sua fisicità eterea, fragile e allo stesso tempo vigorosa e presente, protagonista suo malgrado, pudica ma solo per retaggio familiare, riservata fino a volersi confondere con il paesaggio e tuttavia imprescindibile da esso. O sarà che le parti in cui è lei a parlare in prima persona nel libro, sono le più chiare, quelle che contengono una storia, quella della sua famiglia, sia pur ricostruibile per frammenti. Nelle parole degli altri invece c’è solo lei, Sole, e il suo modo di mettersi in relazione con gli uomini che le attraversano la vita, uomini-Pigmalione che sembrano lasciare traccia in lei o forse ne subiscono il fascino e perdono nel confronto.
Photo Elena Tamborrino
Detto questo, dando cioè merito a Stassi per aver creato una figura femminile sfuggente e nel contempo penetrante, in realtà il libro che ti aspetti di leggere dopo aver dato un’occhiata alla sinossi nel risvolto di copertina non c’è: sembrerebbe la storia di una sparizione misteriosa, di una donna altrettanto misteriosa che dietro di sé ha lasciato solo dei quaderni, degli spartiti e un numero di telefono, donna che poi ricompare al funerale di un amico, Nino. Ma Sole al funerale di Nino la troviamo davvero solo alla fine del libro. Più che una storia questo è un affastellarsi di ricordi, narrati da più voci -compresa una fuori campo-, senza un criterio chiaro di cambio di turno, in cui è difficilissimo identificare coordinate temporali (quelle spaziali sono date da Roma, dalla Sicilia e dal Sudamerica, da dove partono le origini di Nonna Lupe -la nonna di Sole-, che risuonano nella sua lingua mista) e protagonisti (ogni tanto compare un nome nuovo e forse ci si aspetta che il lettore capisca chi si sta parlando –e di chi-, in base a cosa però a me è sfuggito, ogni tanto uno prende la parola per qualche pagina e più volte io mi sono persa nell’intrico dei personaggi).
Durante la lettura, faticosa, ho avuto più volte la tentazione di lasciare, ma poi ho deciso di andare avanti per capire perché quest’ultimo lavoro di Stassi piace a tanti, considerati i giudizi lusinghieri che da più voci lo hanno raggiunto. Tuttavia, fino all’ultimo mi ha stancato la frammentarietà del testo, il continuo cambiare focalizzazione e voce narrante.
Un periodo lungo (13 pagine 105-118, senza respiro) mi ha fatto avvertire anche un affanno sintattico, che ho riscontrato in altri punti della narrazione: forse il fatto di non riuscire a farmi prendere dall'emozione globale, mi ha fatto concentrare sui difetti, al limite della pedanteria ("a cui stanno per mettere all'asta tutte le sue cose" non contiene un pleonasmo?).
A proposito di respiri, che sono il fil rouge lessicale a partire dal titolo e fino alla fine, ricorre costantemente la sensazione legata al ritmo del respirare, semaforo della vita: il respiro si interrompe, si contrae, si trattiene, è intermittente, è lungo, allo stesso modo del fiato che a sua volta è spezzato, trattenuto, sospeso, è un soffio caldo, è un filo.
A questo libro ho assegnato solo due stelle su Goodreads: avevo aspettative altissime, probabilmente per l'entusiasmo che lo circonda, tuttavia la mia delusione non deve scoraggiare altri lettori, specie quelli che già hanno conosciuto Fabio Stassi attraverso le pagine del suo “L’ultimo ballo di Charlot” (Sellerio, 2012) e degli altri suoi precedenti libri. Attribuisco questa mia insoddisfazione al fatto che probabilmente questa storia non è in sintonia con i miei gusti, le mie corde, che evidentemente vibrano per altre vicende meno introspettive.

NB. Ci tengo a sottolineare la colonna sonora che attraversa la lettura. Di seguito, alcuni dei brani che accompagnano i ricordi di Sole:
 
"Vuelvo al Sur" di Astor Piazzolla qui nell’interpretazione di Caetano Veloso