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venerdì 30 settembre 2016

Ultimo giorno utile.

Il viver si misura 
Dall'opre e non dai giorni. 
(Metastasio, Ezio, a.III, sc.I)

Ho atteso proprio l'ultimo giorno di settembre per riaffacciarmi in questo ambiente, indecisa fino alla fine se riprendere il discorso interrotto ai primi di agosto o abbandonare definitivamente il progetto di "Io e Pepe (e libri e altro)". 
Non so perché, ho deciso di continuare, superando il momento di incertezza e confidando in una rinnovata motivazione. 
Quindi il blog riapre: con quale spirito? Di cosa parleremo nei prossimi giorni? Ci saranno novità? Magari una rubrica di interviste? Ancora qualche scrittore di passaggio che voglia regalarci un racconto inedito? Avrò più voglia di parlare di quello che mi piace o di quello che non mi piace? 
E ancora: cosa ho fatto, cosa ho letto durante l'estate? E adesso, cosa sto leggendo? Bene, aspettatemi, sto tornando. 

Autoscatto

domenica 24 luglio 2016

La Genny (e una caduta malriuscita)



Photo da kijiji.it

Dalla cantina di zio Armando era emersa una bicicletta che in scala ridotta riproduceva una bici da corsa, di quelle con la canna. 
Era chiaramente una bicicletta da uomo e sarebbe diventata di Mauro, mio fratello, più piccolo di me di un anno. 
La chiamammo Velocina, forse anche perché i freni non andavano molto bene, e spesso e volentieri Mauro si schiantava contro qualche muretto.
Era una specie di ricompensa per consolarlo della delusione, perché io invece la bici l’avevo avuta nuova, e la mia era una Graziella.
O meglio, era un modello tipo Graziella.
Ed era di un improbabile fucsia, tanto per passare inosservata. 
Io che la bici la volevo sì, ma una Graziella come quella di Simona, bianca ed elegante.
E invece mi toccò una Genny, o come diavolo si chiamava. Rosa shocking. 
Ma sempre meglio della Velocina rossa e mezza arrugginita di Mauro. 

Intanto avevano costruito un palazzo nuovo vicino al nostro, ci andavamo a giocare quando ancora era un cantiere, raccoglievamo gli scarti delle piastrelle che servivano per rivestire i bagni, erano piccole come tasselli di mosaico e alcuni colori erano rari. 
Ce le scambiavamo, facevamo finta che fossero soldi.

Costruirono il garage sotterraneo, vi si accedeva da una rampa a scivolo.
Mauro si spiaccicava sul fondo della parete di fronte, io riuscivo a curvare e a fermarmi nel largo spiazzo che sarebbe servito per le macchine in sosta. 
Era un esercizio che facevamo da prima che costruissero quella palazzina, lanciarci in discesa, dove trovavamo una discesa. 
Quella per entrare con le macchine nel nostro cortile ad esempio, anche quella finiva in curva ed era sterrata. 
Esercizio pericoloso, ma eccitante, si prendeva velocità e dovevi essere bravo a curvare senza cadere sul brecciolino. 
Caddi, un giorno. E caddi male. 
Caddi piegando all’indentro il polso, pensando di pararmi, chissà perché non con il palmo della mano. Caddi e il polso me lo slogai. Già, me lo slogai e basta. 
Mentre a Simona una volta avevano messo il gesso e tutti ci scrivevano il nome con il pennarello e lei era diventata importante. 
Io no, nemmeno quello mi era riuscito, rompermi un braccio. 
Mi hanno messo una doccia, con la fascia. Senza gesso.
Nessuno poteva scriverci il nome o disegnare un fiore. 
©ElenaExLibrisTamborrino 

Soundtrack: Gli Alunni del Sole, "E mi manchi tanto"

NB: il racconto "La Genny (e una caduta malriuscita)" è già apparso su Svolgimento, che ringrazio per l'ospitalità. 

martedì 5 gennaio 2016

Al via #LeggoNobel, progetto di lettura


Il progetto di lettura #LeggoNobel nasce come occasione per scoprire, o riscoprire in qualche caso, alcuni scrittori che hanno segnato la storia della Letteratura mondiale. L’idea ha avuto origine da una conversazione con Valentina Accardi del blog La Biblioteca di Babele: spesso noi lettori siamo presi dalle novità in libreria, ma succede di sentire l’esigenza di leggere ogni tanto un bel classico, un libro di un autore che insieme ad altri è entrato nell’Olimpo degli immortali, magari premiati con il Nobel per la Letteratura. E così, da intervallare alla lettura di libri appena usciti, abbiamo pensato che potesse essere interessante proporre la lettura collettiva -e le possibili discussioni conseguenti- di autori insigniti con il prestigioso premio, che l’Accademia di Svezia ogni anno assegna agli scrittori che si sono particolarmente distinti per la loro opera, tanto da poter lasciare un segno nel tempo.
Logo by Sergio Tamborrino
Dall’elenco dei vincitori abbiamo eliminato gli scrittori di poesia, saggistica e teatro e ci dedicheremo quindi ai grandi romanzieri: per accompagnare la lettura collettiva con chi vorrà seguirci, è stata creata una pagina Facebook, a cui verrà correlato volta per volta l’evento per ciascun libro scelto, che useremo per scambiarci opinioni e per condividere immagini suggerite dalla lettura e citazioni che più ci toccano.
Per ogni autore sceglieremo il testo più rappresentativo, o il più facile da reperire, oppure ancora l’opera meno conosciuta, nel caso in cui di quell’autore fosse stato letto quasi tutto. Il criterio di scelta varierà, a seconda delle esigenze. Anche i tempi di lettura saranno fissati in modo variabile: nel caso di libri più lunghi e complessi saranno decise delle tappe, ma in generale segnaleremo solo la data di inizio della lettura e quella di fine; nell’intervallo di tempo fissato, i partecipanti potranno tenere il ritmo a loro può congeniale, purché rispettino la regola aurea di tutti i gruppi di lettura, cioè niente anticipazioni sulla trama.
Chi aderirà al progetto non è assolutamente obbligato a leggere tutti i libri proposti da noi: potrà invece scegliere cosa seguire in base alle proprie preferenze. Per dar modo di procurarsi per tempo il libro scelto, l’annuncio dell’inizio della lettura verrà preannunciato con largo anticipo.
Non seguiremo l’ordine cronologico di attribuzione del premio, anche se cominceremo con il romanziere premiato per primo: Rudyard Kipling, cui il Nobel per la Letteratura è stato attribuito nel 1907 e del quale leggeremo dal prossimo lunedì 11 gennaio "Il libro della giungla", una raccolta di racconti che ha per protagonista Mowgli, il cucciolo d'uomo abbandonato nella giungla indiana e allevato da un branco di lupi.
Da oggi #Leggo Nobel ha anche un account Twitter (@LeggoNobel), con cui sarà possibile interagire.
Per ulteriori informazioni scrivere un messaggio privato alla pagina Facebook #LeggoNobel o contattare:
- LeggoNobel@gmail.com
La Biblioteca di Babele di Valentina Accardi vale.accardi@gmail.com
-  Io e Pepe (e libri e altro) di Elena Tamborrino exlibrisexlibris2012@gmail.com

Immagine Sergio Tamborrino



giovedì 3 dicembre 2015

La forza del fungo


Lo so, sono prepotente.
Ma se non lo fossi, non vincerei la forza della Natura, o meglio la forza della Natura, che poi è anche la mia forza, sarebbe il mio primo nemico.
Photo HelenTambo on Instagram
Perché dobbiamo intenderci: io sono forte, ma anche il terreno da cui esco è forte, forse più forte di me.
Ed entrambi siamo figli della Natura, la stessa forza è stata distribuita a me e a lui, solo che da questo periodo fino a primavera quasi, tra noi sarà un braccio di ferro estenuante.
Da cui io, come si vede, esco vittorioso.
Certo, a volte mi viene facile: sottobosco soffice, foglie e muschio, odore forte di umido misto a terra e resina e verde. Sì, perché anche i colori hanno un odore e sono un odore.
Altre volte, come stavolta che sono spuntato sotto un albero di ulivo, devo esplodere in alto per uscire e la crosta della terra è dura e arida e secca, in una parola: faticosa.
Ma che ve ne pare di questo mio cappello che, liberato dal velo di protezione, si è arcuato a raccogliere i raggi del sole, come una grande ciotola? Sì, perché i raggi del sole sono anche liquidi ed io li posso contenere.
Sotto, mille e mille –si fa per dire, non so contare- sottilissime lamelle, anche loro fragili all’apparenza.
Invece no: tenero, profumato e irresistibile, ce l’ho fatta anche stavolta.
Prepotente, si diceva. Ma se non fosse così?
Non voglio pensare alla possibilità di essere raccolto, non so nemmeno se sono buono da mangiare, a dire il vero, su questa faccenda non sono molto informato e preferisco non approfondire.
Ma ho visto che chi passa da queste parti, si avvicina con cautela, mi osserva girandomi intorno, si china fino quasi a sfiorare con la guancia il terreno, dice che sono bello e poi lentamente si allontana, come se il rumore e il movimento intorno potessero disturbarmi.
Ecco, io vivrei sempre così. Almeno finché dura, fatemi stare così.

sabato 29 agosto 2015

Ultima lettura: "Era di maggio" di Antonio Manzini


Era di maggio

Autore: Manzini Antonio
Dati: 2015, 381 p., brossura
Editore: Sellerio (collana La memoria)

«Sono rughe quelle che vedo lì intorno?»
«No. Sono pieghe. Le rughe non hanno fatto in tempo»

Rocco Schiavone è tornato prima di quanto si potesse sperare. In questo stesso anno Antonio Manzini ci regala un’altra indagine del vicequestore più scontroso d’Italia, viziando così i lettori che si sono affezionati a Schiavone e a tutti i personaggi che lo circondano (i soliti agenti Deruta, D’Intino e Italo Ferron, l’ispettrice Caterina Rispoli e l’anatomopatologo Fumagalli, il giudice Baldi e il questore Costa).
Photo HelenTambo on Instagram
Questa nuova indagine in realtà prende le mosse da quella precedente ("Non è stagione"), della quale è naturale prosecuzione, mentre si innesta la nuova inchiesta che riguarda la morte di Adele, uccisa al posto di Schiavone presso il quale si era rifugiata dopo alcune incomprensioni con il suo compagno, Seba, amico fraterno dello stesso Rocco.
Schiavone ha dei nemici, persone che gliel’hanno giurata: sarà suo compito quello di risolvere queste questioni che sforano nel personale, cercando di tenere sotto controllo l’ansia di vendetta di Seba e degli amici che Rocco ha lasciato a Roma.
Come sempre la narrazione procede fluida, con un perfetto sistema di incastri degno del miglior poliziesco. I personaggi si evolvono, la rete personale di Rocco si sviluppa. Centrale nella caratterizzazione del protagonista è il suo modo di relazionarsi con le donne: prima di tutto Marina, la moglie morta con la quale Rocco mantiene un rapporto costante, fatto di immagini evanescenti e dialoghi silenziosi. Ma Marina è stanca, vorrebbe andare per la sua strada e lasciare che Rocco prenda la sua, ché ormai è tempo. E poi c’è Anna, con la quale l’uomo non riesce a stabilire una relazione, schiacciato tra le esigenze pressanti della donna e la sua insofferenza verso qualsiasi forma di stabilità sentimentale, ché spazio per l’amore nella vita di Rocco non c’è più (salvo inattesi sviluppi che lascio alla curiosità dei lettori).
Ho letto queste 381 pagine velocemente, la trama coinvolge e tiene alta la soglia dell’attenzione: l’Autore è sempre più strategicamente padrone di tempi serrati e azioni decise e puntuali, il tutto reso nel suo stile asciutto e privo di fronzoli a cui ha abituato i suoi lettori.
Adesso non ci resta che aspettare il ritorno di Rocco Schiavone, confidando nella vena ispiratrice di Antonio Manzini.


venerdì 21 agosto 2015

Sul comodino: "L'intestino felice" di Giulia Enders


L’intestino felice

Autore: Enders Giulia
Traduttore: Bertante Paola
Illustrazioni di: Enders Jill
Dati: 2015, 251 p., brossura
Editore: Sonzogno

Che imbarazzo, l’intestino!

Giulia Enders è una giovane dottoranda di ricerca in Biologia medica presso l’Istituto di Microbiologia e Igiene ospedaliera a Francoforte sul Reno. Sembra molto più giovane dei suoi 25 anni ed è sorprendente scoprire quali traguardi formativi ha già raggiunto alla sua età. Ai suoi successi negli studi si aggiunge oggi la straordinaria affermazione letteraria che sta ottenendo grazie al suo saggio sulla salute dell’intestino, tra i best seller in Germania nel 2014, “L’intestino felice”.
Photo Elena Tamborrino
Già il titolo è accattivante, almeno per me che da sempre sono convinta che il buon funzionamento del nostro apparato digestivo sia garanzia di buonumore o almeno serenità. D’altronde lo dicevano anche gli antichi medici della Scuola salernitana: defecatio matutina bona est quam medicina e tutte quelle che si succedono nella giornata non hanno lo stesso valore.
Insomma, sedersi (correttamente – e l’Autrice ci spiega come-) in ‘trono’ appena svegli è un gran bel modo di iniziare la giornata, liberi dalle scorie e ‘sicuri da ogni turbamento’.
Enders, con questo saggio divulgativo che si legge piacevolmente perché è anche molto divertente, infrange finalmente un tabù quasi sacro: parlare di cacca si può, sapere cosa succede nel nostro organismo quando mangiamo, conoscere il viaggio che il cibo affronta lungo i chilometri dell’apparato digerente e gli incontri che fa (organi, enzimi, batteri), imparare a riconoscere i segnali del nostro benessere o del nostro malessere, a partire da ciò che troviamo depositato sul fondo della tazza (dobbiamo guardarla, la nostra cacca!).
L’Autrice ci porta a scoprire che l’intestino, organo da sempre oggetto di imbarazzi e di reticenze, “ha fascino da vendere”, ha una sua sensibilità ed è responsabile di una serie di processi di cui l’evacuazione è solo l’atto finale: il buon funzionamento del canale intestinale è indispensabile per avere una buona, se non ottima, qualità della vita.
Non è un caso, d’altra parte, che chi soffre di stipsi (o viceversa di frequenti fenomeni diarroici) è spesso una persona nervosa, irritabile.
Per imparare a controllare il buon funzionamento del nostro intestino, fare in modo che lui sia felice e -con lui- che lo siamo anche noi, è necessario possedere alcune informazioni di base che riguardano la sua morfologia, i vantaggi di un certo tipo di alimentazione che privilegi ad esempio l’assunzione di cibi integrali, i problemi derivanti da intolleranze, allergie e incompatibilità con alcune sostanze come il lattosio, fruttosio e il glutine, i comportamenti del nostro apparato digerente legati al sistema nervoso che regola il funzionamento dell’intestino, come interagiscono tra loro cervello e intestino, il mondo dei microbi in cui l’essere umano si considera come un ecosistema.
Alcune pagine in particolare meritano una lettura attenta: Una piccola lettura sulle feci, che è un vero e proprio memorandum sull’aspetto del prodotto dell’evacuazione (componenti, colore, consistenza), accompagnato dalle illustrazioni di Jill, la sorella di Giulia. Qui l’Autrice si toglie il peso di trattare l’argomento più spinoso e imbarazzante di tutto il trattato e lo fa in modo divertente e allo stesso tempo scientifico (ad esempio, lo sapevate che esiste una scala delle feci che classifica sette tipologie di consistenza, che indicano in modo preciso la velocità o la lentezza con cui il nostro intestino trasporta gli scarti del nostro metabolismo?).
Un altro capitolo interessante, tra quelli iniziali, tratta il tema della comunicazione tra sfintere interno, “rappresentante del nostro mondo interno inconsapevole” di cui è importante il benessere, e lo sfintere esterno, che è un “collaboratore fidato della nostra coscienza”: questi due muscoli di contenzione devono intendersi tra di loro e insieme devono trovare un accordo con il cervello. La collaborazione tra questi elementi consente di non farci fare brutte figure quando non vorremmo mai, ad esempio mandando un “campione di prova”, ovvero una puzzetta, nel bel mezzo di una conversazione nel salotto di zia Berta (pp.22-25): sarà lo sfintere esterno a comunicare a quello interno che non è il momento giusto per far uscire nulla, bisogna pazientare. Poi succede anche che siano altre parti del nostro corpo a produrre rumori che possono sembrare ciò che non sono, mettendoci ugualmente in imbarazzo, doppiamente in imbarazzo anzi, perché dovremmo cercare di scusarci o giustificarci per qualcosa che è diverso da ciò che sembra: che fatica!
Al momento questo libro è sul mio comodino, lo finirò nei prossimi giorni. Ma confesso un entusiasmo per il modo brioso di questa brillante studiosa che mi fa promuovere il suo saggio prima ancora di averne conclusa la lettura, che –sono certa- ha ancora molto da svelarmi.
Raccomando “L’intestino felice”: se impariamo a guardarci dentro -e non solo rispetto alla nostra parte emotiva- possiamo garantirci una buona salute e anche una buona dose di allegria quotidiana.
Come cantava Roberto Benigni ne "L'inno del corpo sciolto":
C'han detto vili
brutti e schifosi
ma son soltanto degli stitici gelosi
ma il corpo è lieto
lo sguardo è puro
noi siamo quelli che han cacato di sicuro.

venerdì 14 agosto 2015

Ultima lettura: "Chi manda le onde" di Fabio Genovesi


Chi manda le onde

Autore: Genovesi Fabio
Dati: 2015, 391 p., brossura; ePub 589,2 KB
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)

Le onde arrivano piano e si spalmano sulla sabbia,
e prima di tornare indietro lasciano qualcosa,
lasciano sulla riva i loro regali.

Questa recensione sarà tutta sgangherata, già lo so. Perché è grande l’entusiasmo che pagina dopo pagina mi ha preso per questa narrazione fresca, in cui si alternano commedia e tragedia, grottesco e tenerezza, surrealismo e poesia, quindi il rischio è che quello stesso trasporto che mi ha accompagnato durante la lettura, mi faccia procedere in modo confuso, nella foga di dire tutto quello che ho pensato della storia, dei personaggi, dell’ambientazione, dello stile, del linguaggio, delle somiglianze, rischiando magari di dimenticare qualcosa.
Photo HelenTambo on Instagram
Cercherò di procedere con ordine, partendo dai protagonisti, tra i quali è difficile individuare quello che spicca sugli altri, poiché ciascuno a suo modo ha una specializzazione nella storia, che lo fa diventare necessario. Bisognerà quindi considerare la rete sociale che li lega.
Serena (la mamma bellissima e disinteressata di quella sua stessa bellezza che la rende irresistibile), Luna e Luca, sono un nucleo familiare atipico: manca il papà (ma questo non è indispensabile) e le circostanze in cui i figli sono stati concepiti danno alla loro vita e a quella di Serena un’aura quasi magica. Gli stessi ragazzi sono magici: Luna è albina e di questo suo essere speciale fa quasi un vantaggio che la mette al di sopra dell’omogeneità dei suoi coetanei, considerando anche che si tratta di una bambina di bella intelligenza, curiosa e vivace ; Luca è bellissimo come sua madre e come lei è favoloso, tutto ciò che tocca si tramuta in dono, in ricchezza (non materiale), in eccezione.
Sandro è un quarantenne che si arrangia come può per sopravvivere, prototipo dello sfigato: musicista non eccelso (ma dà lezioni di chitarra ad allievi che immancabilmente si dimostrano in tempi brevi ben più dotati di lui), catechista all’occorrenza, supplente di inglese quando capita (ad esempio nella classe di Luca, che lo incanterà come anni prima aveva fatto Serena, quando frequentavano lo stesso liceo e lei non se lo filava manco da lontano). Soprattutto Sandro è amico di Marino e di Rambo, due soggetti che superano qualunque fantasia di lettore e che mi hanno fatto pensare a certi personaggi e ad alcune situazioni incontrati nei romanzi di Niccolò Ammaniti (soprattutto i primi), alla cui lezione secondo me Genovesi in qualche modo ha fatto riferimento, per alcuni aspetti delle vicende narrate e nel disegnare la natura dei protagonisti.
Zot è un bambino che viene da Chernobyl: va a scuola con Luna e in quanto -come lei- ‘diverso’ (lei perché albina, lui perché straniero e povero) è vittima di atti di bullismo tanto sciocchi quanto crudeli; tuttavia non perde mai la sua calma e la sua piccola saggezza, di cui dispensa pillole in un italiano desueto, arcaico e ricercato, che ha imparato chissà come e da chi, visto che trascorre il suo tempo con Ferro, un ex bagnino in pensione a cui la figlia lo ha consegnato dopo averlo chiesto in affido, per poi sparire, e il cui eloquio è particolarmente ‘colorito’. In breve tempo Zot e Ferro entreranno a far parte, anche se marginalmente, della famiglia di Serena, che è una famiglia che accoglie e che si accoglie.
La storia si svolge a Forte dei Marmi: il mare è elemento indispensabile nella vita di Serena e dei suoi figli (Luna va ogni giorno in cerca dei regali che le onde lasciano sulla battigia; Luca è un appassionato di surf; tutti insieme, ogni martedì -dopo la scuola, come un rito al quale si aggiungerà anche Zot-vanno sulla spiaggia e si stendono sulla sabbia, mangiando la pizza) e avrà un ruolo determinante nello svolgersi delle vicende.
Le storie dei vari protagonisti si dipanano parallelamente e ogni tanto si incrociano, ma il nucleo portante di tutto il romanzo è l’onda anomala che travolge la vita di Serena: da questo punto in avanti, il personaggio di questa giovane donna indomita e battagliera, determinata e forte, ti entra nel sangue e nei pensieri, tanto da non riuscire più a staccarti dalla sua storia e dalle persone che la circondano e che partecipano ciascuno a suo modo al suo cambiamento, alle sue emozioni e al suo dolore, intimo e pudico, ma allo stesso tempo pieno di rabbia incontenibile (“A cosa serve conoscere il destino e le cose che ti vengono incontro, se poi quelle brutte non le puoi scansare e quelle belle, anche se le abbracci forte, scivolano via nel vortice del passato?”).
Lo stile di Fabio Genovesi è fluido, spigliato: durante la lettura si alternano momenti di ilarità pura (soprattutto per i dialoghi, divertenti, surreali, conditi di una toscanità irresistibile) e di forte commozione; il passaggio tra stati d’animo così contrastanti avviene in modo naturale, perché è proprio così, “si piange e si ride, credo, come sempre nella vita”, come ha scritto lo stesso Genovesi in una conversazione via Twitter, nei giorni in cui leggevo il suo romanzo.
 

Il fatto che proprio mentre terminavo la lettura di “Chi manda le onde” mi trovassi in Versilia, mi ha fatto pensare con forza a Luna che cammina sul bagnasciuga in cerca dei regali che il mare ogni giorno manda a chi sa apprezzarli (cioè a lei), alle onde su cui Luca vola, sfidando la forza di gravità e le leggi dell’equilibrio, a Serena che davanti a quel mare è nata e che non può pensare di essere tradita proprio dall’elemento che più ama, dopo i suoi figli.
Ho letto questo libro centellinandone le pagine per allontanare quanto più possibile il momento in cui me ne sarei distaccata, combattuta allo stesso tempo perché volevo leggere ancora e ancora, per sapere cosa mi avrebbero riservato le pagine strada facendo. Non contenta, dopo averlo letto in ebook, l’ho acquistato anche cartaceo, perché mi piace che questo libro sia parte fisica della mia biblioteca personale. Ancora non soddisfatta, l’ho consigliato e regalato.
Adesso credo che Fabio Genovesi abbia delle grandi responsabilità verso i suoi lettori.

giovedì 6 agosto 2015

Ultima lettura: "Sembrava una felicità" di Jenny Offill


Sembrava una felicità

Autore: Offill Jenny
Traduttore: Novajra Francesca
Dati: 2015, 162 p., brossura; ePub 403,1 KB
Editore: NN Editore (collana La stagione)

Perché hai rovinato la mia cosa preferita?

“I buddisti dicono che si può conquistare la saggezza con la comprensione delle tre caratteristiche: la prima è l’assenza del sé, la seconda è l’impermanenza delle cose, la terza è la natura insoddisfacente dell’esperienza comune.”
Photo HelenTambo on Instagram
In queste righe forse c’è tutta l’essenza di “Sembrava una felicità”, romanzo di Jenny Offill per la neonata casa editrice NN. Un romanzo che racconta una storia comune, quella di un’infelicità repressa, che cerca continuamente una via d’uscita senza trovarla veramente, perché la vita è fatta così, più di insuccessi che di veri successi. Nei sentimenti questo è ancora più evidente e la protagonista, che all’inizio e alla fine parla in prima persona -ma nella gran parte della narrazione in terza persona è “la Moglie”-, lo delinea chiaramente in un flusso di coscienza interrotto solo da citazioni che vanno da Rilke a Dickinson, da Singer a Orazio, da Coleridge a Martin Lutero, da Kant a Darwin e molti altri ancora, tra prosa e poesia, filosofia e psicologia e scienza e economia domestica, come se tra gli autori del passato si potessero trovare le risposte.
Intanto non c’è nulla che resti davvero per sempre o almeno nella maniera perfetta che, per convenzione sociale nel caso del matrimonio, ci si aspetta; e siamo destinati a essere insoddisfatti anche quando pensiamo di agire per il nostro bene, legandoci a un’altra persona.
Questa quindi è la storia di una Moglie che divide faticosamente le sue giornate tra una Figlia piccola e un Marito; non ha forse una spiccata propensione verso la famiglia, tuttavia questa a un certo punto della sua vita è diventata centrale, in un ‘teatro dei sentimenti’ che resteranno feriti dalle incertezze, dagli incidenti, dai dubbi e dalle delusioni.
Il racconto è una vivace analisi, a tratti anche ironica, dei sentimenti che la protagonista prova nei confronti del Marito, della Ragazza con la quale lui la tradisce, dell’idea stessa dell’adulterio, in senso assoluto.
Particolarmente interessante è la nota del traduttore, in appendice: in poche pagine Francesca Navajra spiega -meglio di come potrebbe farlo chiunque- lo stile della Offill, che nella traduzione ha cercato di rispettare, nell’apparente immediatezza dei pensieri che fluiscono in libertà tra detto e non detto. La Navajra definisce questo romanzo uno ‘zibaldone di pensieri’, in cui è stato laborioso rendere la frugalità della forma originale.
Intenso e frammentario, questo romanzo è un colpo alla coscienza di coppia, mette malinconia ma invita alla riflessione in ogni pagina, in ogni immagine che la protagonista offre allo sguardo del lettore, che tende così a riconoscere situazioni e a interrogarsi sul proprio vissuto.
Alla fine della lettura, quello che pensi è che il matrimonio sia un contratto sociale che nulla ha a che fare con la natura umana, nonostante le parole del rabbino: “Tre cose hanno il sapore del mondo che verrà: il sabato, il sole e l’amore coniugale.”

giovedì 30 luglio 2015

Ultima lettura: "Se fossi fuoco, arderei Firenze" di Vanni Santoni


Se fossi fuoco, arderei Firenze

Autore: Santoni Vanni
Dati: 2011, 148 p., brossura
Editore: Laterza (collana Contromano)

Signorina perché sceglie di rimanere a Firenze?
Per il lampredotto, no?

Il lampredotto è un tipo di trippa, tradizionale cibo di strada per i fiorentini. Probabilmente è un buon motivo per restare tutta la vita a Firenze, anche se qualche volta vorresti scapparne; ma io non sono certamente la persona più qualificata per dirlo, visto che nemmeno il lampredotto mi ha trattenuto a Firenze e certamente non sono mai stata in fuga da una città che ho dovuto lasciare per forza. 
E il lampredotto è protagonista di alcune tra le pagine più interessanti di questo libro, intanto perché è presentata la mappa dei trippai più rinomati della città, almeno secondo quanto l’Autore fa dire a Ashlar, intenta a spiegarci che dietro la trippa c’è un mondo e quel mondo è per veri iniziati, è il mondo della ciccia nel pane e nel brodo, è calore e profumo, è nervetti e stomaci stracotti, altro che “che schifo, il lampredotto”, come dice Doris. E poi proprio per come ne parla, che sembra quasi di star lì a fare la fila per quella che pare essere una delizia profumata, anche per chi non l’ha mai assaggiata e pensa che lo non farà mai (ad esempio, io).
Oltre poi alla mappa dei trippai, Santoni presenta da una parte il repertorio dei locali notturni più famosi e dall’altra i luoghi di ritrovo più nascosti, quelli riservati ad un certo tipo di umanità, quella alternativa, quella tossica, quella sommersa.
Photo HelenTambo on Instagram

La Firenze che racconta Santoni è una città che si segue a fatica se non la conosci, anche perché la cartina alle prime pagine, con la legenda che indica i luoghi citati nel libro, si legge con un po’ di difficoltà, se non sai orientarti di tuo.
Di contro questo libro di Vanni Santoni, fondatore del Progetto SIC- Scrittura Industriale Collettiva, si legge con estrema facilità non appena entri nella spirale dei personaggi che, divisi in tre parti che rappresentano quasi una parabola ascendente (Scintille- Fiamme- Braci), si rincorrono tra le pagine, si passano il turno nel racconto, si incrociano e si incontrano.
E così, quasi in una struttura circolare che si attorciglia su se stessa come una molla, la narrazione si apre con l’arrivo in città di uno studente universitario fuori sede, maldestro nel suo approccio con la realtà nuova e la varia umanità che urta, per poi passare ad altri personaggi legati l’uno all’altro, per caso o volontariamente, che presentano ciascuno una tranche de vie: la chiusura del cerchio si ha con il ritorno, nella memoria di Maddalena, l’ultima dei protagonisti di queste brevi sequenze narrative -che sono anche scorci paesaggistici, descrittivi ed evocativi-, al suo incontro con il giovane studente dell’inizio, a Piazzale Michelangelo.
Lo definirei un romanzo generazionale: ad uno che è stato giovane a Firenze negli anni Ottanta (sempre io!) fa effetto vedere citati il TenaxRadio Centofiori, ma Santoni in quegli anni era un bambino (è nato nel 1978) e gli viene meglio raccontare la Firenze che conosce di più e non per sentito dire, quella più vicina ai quarantenni di oggi, quella cioè contempla anche i gambrini, cioè i ragazzi che passano il tempo davanti all’ex cinema Gambrinus, da qualche anno trasformato in Hard Rock Cafè, con buona pace dei fiorentini che lo consideravano un salotto a due passi da Piazza della Repubblica.
Insomma, se avete voglia di scoprire una Firenze inedita, ormai multietnica, assolutamente non turistica eppure descritta meglio di una guida turistica, attraverso la varia umanità che la popola, leggete questo libro che non so se definire romanzo o serie di racconti incollati l’uno all’altro senza soluzione di continuità.

venerdì 24 luglio 2015

Ultima lettura: "Il cuoco e i suoi re" di Edgarda Ferri


Il cuoco e i suoi re

Autore: Ferri Edgarda
Dati: 2013, 144 p., rilegato
Editore: Skira (collana NarrativaSkira)

“Ragazzo mio, mon garçon, è arrivata l’ora.
Non pensare più a tua madre, a me, alle tue sorelle.
la nostra sorte è stata la miseria, e così morirrmo.
Vai per la tua strada.”

Il cuoco è Antonin Carême e i re sono quelli alle cui corti fu chiamato per prestare il suo servizio in un periodo dei più vivaci della storia europea, tra la Rivoluzione francese e la Restaurazione, attraversando l’età napoleonica.
E non furono solo i re (il futuro Giorgio IV d’Inghilterra e lo Zar di Russia) a usufruire della sua arte in cucina, ma anche influenti politici come
Talleyrand, generali potenti come Napoleone, importanti banchieri come Rothschild, nobili di diverso rango e in generale l’alta società francese.
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Nato in una famiglia poverissima dei sobborghi parigini, il piccolo Marie Antoine (chiamato così in onore della regina morta sul patibolo durante la Rivoluzione francese e costretto dagli eventi a cambiare il suo nome in Antonin) viene abbandonato dal padre, impossibilitato a sfamare anche lui, che faceva parte di una nidiata di figli che a stento sopravvivevano all’indigenza. Sembra che quella di abbandonare i figli maschi intorno ai dieci anni di età fosse una pratica diffusa e affatto scandalosa: era l’unico modo per tentare di salvarli, mettendoli sulla strada e sperando che la loro intelligenza e le loro capacità potessero garantirgli un qualche futuro. Si trattava di bambini svelti, avvezzi al sacrificio, che in una Parigi già famosa per l’alta pasticceria non sognavano di succhiare una mela caramellata, ma di poter addentare un succulento “cosciotto di montone allo spiedo, una fetta di pane spalmata di lardo, una zuppa di verdura macchiata di ‘larghi’ occhi di grasso, un bel pezzo di sanguinaccio di maiale rosso costellato di pistacchio verde”; erano bambini abituati alla fatica fin da piccoli, in famiglia, costretti poi a trovarsi un padrone presso il quale imparare un mestiere.
E Antonin un mestiere lo impara: prima addetto al taglio delle carni, poi responsabile della brace presso un girarrosto, infine assunto in una famosa pasticceria, forse la più importante di Parigi. Là diventa bravissimo, impara a leggere e scrivere, studia trattati scientifici (soprattutto di medicina e di chimica) e di architettura, per riprodurre con la pasta di zucchero sontuose costruzioni che vanno ad arricchire la pasticceria raffinatissima che inventa.
Non solo dolci nella carriera di Carême: inventore della cucina moderna, che andò a sostituire quella rinascimentale, speziata e grassa -tanto da far ammalare i signori di gotta-, importata a Parigi da Maria De’ Medici, il cuoco sperimenta che la semplificazione della cucina non significa impoverimento, ma valorizzazione degli ingredienti, che devono essere sempre di prima scelta. Carême sgrassa la carne nei brodi, alleggerisce i potages, ne fa dadi da viaggio, affinché i suoi clienti portino sempre con sé la cucina del loro cuoco personale, proteggendo lo stomaco e il fegato. Vivere durante l’Illuminismo consente al giovane cuoco di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze sempre più aperte alle novità e sempre più supportate dallo studio, dalla ricerca e dalla sperimentazione, perché la cucina, ci insegna Antonin, è soprattutto equilibrio e alchimia.
Edgarda Ferri ci accompagna lungo il racconto della vita di questo bambino di strada che diventa il più grande cuoco della sua epoca, anzi arriva a superare la sua stessa epoca grazie alla sua fama, e lo fa tenendo sullo sfondo i più importanti eventi storici a partire dall’Ancien Régime e fino alla parabola dell’impero napoleonico. Le descrizioni che l’Autrice fa delle tavole imbandite e delle cucine in fermento sono talmente accurate che al lettore può sembrare di sentire lo sfrigolio del grasso che brucia sulla brace, il profumo di zucchero e vaniglia che si scioglie nell’aria pregna del calore dei forni, la consistenza delle preziose vellutate di verdura tra lingua e palato fin giù nella gola; può sembrare ancora di vedere i colori (tutti rigorosamente naturali e frutto anch’essi di sperimentazioni infinite alla ricerca del miglior risultato) delle glasse che ricoprono le ardite architetture dolciarie che riproducono palazzi e monumenti.
Un libro istruttivo che è anche di grande intrattenimento: molto consigliato anche per avere una visione della Storia (con la esse maiuscola) meno scolastica e più calata nella storia (con la minuscola) delle persone comuni.

giovedì 16 luglio 2015

Ultima lettura: "Uccidi il Padre" di Sandrone Dazieri


Uccidi il Padre

Autore: Dazieri Sandrone
Dati: 2014, 564 p., rilegato
Editore: Mondadori (collana Omnibus)

Dante allungò la mano buona. «Dante.»
Lei la strinse. «Colomba»
«CC.»
«Fottiti.»
Lui rise. «Ti faccio un caffè buono.»

Sandrone Dazieri, ex cuoco, scrittore e sceneggiatore, è noto soprattutto per i romanzi della serie del Gorilla e del suo socio, detto appunto Socio. Non ne so nulla perché non ho mai letto Dazieri prima di questa sua ultima fatica, ma lo conosco di fama e so che prima o poi incontrerò Gorilla e il suo alter ego.
Intanto mi sono lasciata attrarre da questo titolo, “Uccidi il Padre”, da questa copertina e dalla sinossi che ho letto in rete. E così ho conosciuto Colomba Caselli, una poliziotta in congedo dopo un incidente, richiamata dal suo diretto superiore per una consulenza su un omicidio e un rapimento, che richiamano alla memoria fatti oscuri ormai consegnati al passato.
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Da quel passato riemerge Dante Torre, chiamato a collaborare con la giovane poliziotta: Dante è un quarantenne esperto di rapimenti e abusi sui minori, a suo tempo vittima di un lunghissimo sequestro per opera di un uomo misterioso chiamato il Padre. Il caso su cui Colomba e Dante si troveranno ad indagare, fuori dall’inchiesta ufficiale e seguendo itinerari non ortodossi, riguarda la macabra uccisione di una donna e il rapimento di suo figlio Luca: dei due crimini in un primo tempo viene sospettato il marito della donna morta, ma ben presto Colomba e Dante si renderanno conto che il vero colpevole non può essere che il Padre, di nuovo tornato all’azione dopo anni di oblio.
I luoghi in cui l’azione si svolge sono principalmente Roma, sede del commissariato da cui la poliziotta dipende e dove, in un parco periferico, sono avvenuti il rapimento e l’omicidio, e Cremona, dove i due protagonisti verranno portati dalle indagini e dove si trova il luogo in cui per undici lunghi anni Dante è stato prigioniero del Padre.
Veniamo ai personaggi: Colomba è una brava poliziotta, una delle migliori in circolazione, dotata di buon intuito e di grande coraggio, che uniti allo spirito di iniziativa rischiano di metterla più di una volta in serio pericolo. È giovane, energica e bella, e ricorda molto –anche fisicamente- alcune poliziotte che ho già incontrato in passato, ad esempio Grazia di “Almost blue” di Carlo Lucarelli o l’investigatrice Giorgia Cantini di “Quo vadis, baby?” di Grazia Verasani, ma ha anche molto della forza fisica di Lisbeth Salander, l’eccentrica ricercatrice protagonista della trilogia “Millennium”, creata dal mai troppo rimpianto Stieg Larsson. In tutte queste giovani donne ho trovato coraggio, determinazione, sprezzo del pericolo, potenza fisica nonostante il corpo minuto e capacità di resistere in situazioni estreme: tutte doti che appartengono anche a Colomba.
Dante Torre, il bambino creduto morto da tutti e per tanti anni, mentre invece era chiuso in un silos in balia del Padre e ora diventato esperto di persone scomparse, è un cocktail di genialità e fobie: alto, magrissimo, dinoccolato, vegetariano, maniaco del caffè di cui è vero intenditore, tanto da non concepire altro modo per degustarlo se non dopo accurate miscele di chicchi selezionati tra le varietà più pregiate, di ciascuna delle quali conosce perfettamente le proprietà organolettiche e gli effetti. Claustrofobico e gran fumatore, riconosce in Colomba la possibilità di una relazione o, quanto meno, di un’alleanza.
Il Padre, uomo misterioso che per anni ha portato avanti un progetto ‘scientifico’ che prevedeva la detenzione di bambini e lo studio del loro comportamento in situazione di costrizione fisica e di soggezione emotiva e le cui finalità restano oscure fino alla fine del romanzo, è inafferrabile, anche se sembra straordinariamente vicino, visto che per buona parte del romanzo si pensa che sia identificabile.
La grandezza di questo thriller sta proprio nell’indirizzare volutamente il lettore verso ragionamenti che poi sono smentiti sul filo di lana della fine e non un momento prima. E si va in crescendo, con un inizio cruento ma che non dà subito il gas, per cui la vicenda si avvia in sordina, tanto da non appassionare immediatamente. Si va in climax, la tensione diventa sempre più forte, anche se è solo dopo la metà che le peripezie dei protagonisti diventano irrinunciabili e si finisce con il cercare ogni momento libero per andare avanti nella lettura e vedere come si evolvono i fatti, sempre più imprevedibili.
Avevo bisogno di un thriller adrenalinico, che mi desse un po’ di scossa, dopo un lungo periodo di letture tranquille e riflessive: questo è il più consigliabile che mi sia capitato negli ultimi anni.
Intanto recupero la serie di romanzi del Gorilla…

venerdì 10 luglio 2015

Ultima lettura: "Bestiario" di Julio Cortázar


Bestiario

Autore: Cortázar Julio
Traduzione: Nicoletti Rossini M e Martinetto V.
Dati: 1974 e 1996, ed. originale 1951
Editore: Einaudi (collana ET)

Stavamo bene,
e a poco a poco cominciavamo a non pensare.
Si può vivere senza pensare.

C’è stato un periodo della mia vita in cui, con molto impegno, mi sono dedicata alla letteratura sudamericana e quindi in maniera intensa ho letto Amado, Garcia Márquez, Allende, come se tutto fosse una rivelazione, i mondi sospesi e un po’ magici, misteriosi, lo stile fantastico, i vivi che convivono con i morti mai davvero morti, i paesaggi allucinati e afosi di umidità appiccicaticcia, zucchero di canna e melassa densa, latte di cocco e polpa soda nella carne delle donne, decise, forti e irremovibili. Questo succedeva molti anni fa e probabilmente anche perché in quel momento quegli autori andavano molto di moda (sarebbero arrivati anche Coelho e Sepúlveda, senza toccarmi però).
Pensavo, nella mia somma ignoranza, che fosse tutto lì, che potesse bastare per avere la padronanza di quel mondo lontano non solo nel tempo e nello spazio. Non conoscevo gli autori che sto leggendo adesso, Cortázar e Borges, e altri che leggerò.
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Sono passata ad altro, agli statunitensi, a Minot, Carver, Leavitt… anche lì grande indigestione e poi lo stop fino ai giorni attuali, a Fante, McCarthy e Wallace e a quelli che verranno, magari in un futuro non troppo lontano.
Questo per dire che spesso siamo vittime di infatuazioni che ci fanno fare il pieno di un certo stile, di un certo modo di vedere e raccontare la realtà, tanto da non farci poi vedere altro. Fortuna che il tempo è signore e che offre la possibilità di ritorni di fiamma e nuove scoperte.
Così adesso ho conosciuto Julio Cortázar, su indicazione di un gruppo di lettura attivo su Facebook, che mi sta conducendo verso strade di lettura che non avevo mai sospettato di poter un giorno percorrere.
“Bestiario” è una raccolta di otto racconti, pubblicati per la prima volta nel 1951 (in Italia arriverà solo nel 1974 nella collana Nuovi coralli di Einaudi), di bellezza diseguale: si può affermare, credo, che ciascuno di essi può suggerire sensazioni diverse a ciascun lettore che sarà particolarmente reattivo verso un racconto più che verso un altro, fino a contemplare la possibilità che alcuni possano non piacere per niente. Ciò che accomuna tutte le storie è il particolare intorno al quale si condensa tutto un racconto e sarà quel particolare a fare la differenza, a colpire o a lasciare indifferente il lettore, capace di una sua personale classifica di gradimento.
Personalmente ad esempio ho trovato particolarmente belli i racconti “Casa occupata”, “Lettera a una signorina a Parigi” e “Circe”, tutti accomunati dal sentimento del disagio, della paura di vivere e della precarietà dell’esistenza. Nel primo racconto, un fratello –voce narrante- e una sorella consumano solitudine e comuni consuetudini in una casa che progressivamente, stanza dopo stanza, è invasa da creature misteriose che si appropriano degli spazi vitali, fino a costringerli ad abbandonarli e quindi alla resa. L’ho vista come un’attualissima (lo avrebbe mai potuto immaginare l’Autore quando scriveva, sessanta anni fa?) metafora dell’esistenza umana, sempre più compressa e costretta dalle violazioni e dalle prepotenze esterne che arrivano a impadronirsi di spazi e pensieri, contro le resistenze passive (come dire: non abbiate paura, reagite alle invasioni, altrimenti dovrete abbandonare il campo al nemico).
Di “Lettera a una signorina a Parigi” mi hanno appassionato i coniglietti che l’autore di questa lunga lettera ad Andrée (della quale per un certo periodo occupa l’appartamento finché questa si trova a Parigi) vomita periodicamente e, da un certo momento in poi, più frequentemente. Ma cosa significa che ‘vomita coniglietti’? Significa che improvvisamente, nel bel mezzo di una qualunque attività, di tanto in tanto un coniglietto gli sale su per la gola e, aiutato da due dita che opportunamente egli si infila in bocca, spunta all’esterno e “sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo”. Non è facile convivere con questo problema, ma l’uomo ritiene che non sia “una buona ragione per vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere”; così basta seminare del trifoglio in un vaso sul balcone e lasciare che i coniglietti crescano felici, per quanto nel momento in cui gli episodi si intensificano, per di più in concomitanza con un trasloco, presenti innegabili difficoltà. È evidente che anche qui il senso va oltre, è un’onda surrealista che travalica l’immaginazione, l’allegoria di un disagio complesso che può trovare sollievo solo in modo drastico e definitivo, l’unico dato realistico di questa storia, la morte.
Anche “Circe” mi ha conquistato: vi ho rintracciato alcune atmosfere che già avevo trovato in “La casa degli spiriti” di Isabel Allende (romanzo che ovviamente arriva molto dopo il “Bestiario” di Cortázar, trenta anni dopo per la precisione), nelle pagine iniziali dedicate alla morte per avvelenamento della bellissima Rosa del Valle, fidanzata del protagonista Esteban Trueba. Nulla accomuna le due storie, ma sarà forse l’aria appestata che si respira, nonostante Delia, la protagonista di “Circe”, sia sempre impegnata nella preparazione di profumati pasticcini che a volte hanno il retrogusto salato delle lacrime, a suggerire le medesime sensazioni di oppressione di quelle prime scene descritte dalla Allende.
Adesso dovrei dire se secondo me questo libro va letto, se lo consiglio, ecc ecc. Quelle cose che fanno i bookblogger seri. Ecco sì, credo che sia un libro da leggere. Non mi viene da dirlo meglio. A questo aggiungo che, come già è successo e succederà, il confronto con altri lettori è uno stimolo importante per potersi avvicinare ad autori che magari non avevamo mai preso in considerazione. Per questo personalmente devo ringraziare Maria Di Biase e il gruppo Scratchbook.

venerdì 3 luglio 2015

Ultima lettura: (alcune) Scritture animali (Giulio Mozzi, Giuseppe Genna, Vanni Santoni)


Della collana Zoo di :duepunti edizioni ho già detto qui, in occasione della Fiera della piccola e media editoria PiùLibriPiùLiberi2014 di Roma del dicembre scorso. È arrivato il momento di scrivere degli autori che ho incontrato tra le pagine ecologiche di questa giovane e coraggiosa casa editrice palermitana.

La stanza degli animali

Autore: Mozzi Giulio
Dati: 2010, 62 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

Non ce ne facciamo niente di tutto questo.
Non era meglio dimenticare?

Banalizzo, se cerco di raccontare cosa c’è in “La stanza degli animali” di Giulio Mozzi.
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Una trama fatta di pochi ingredienti: una casa che si chiude e si mette in vendita, la morte violenta di una madre per mano di un padre ora in carcere, il tutto quando ormai la vita sembra essere accomodata in una tranquilla vecchiaia, fatta di consuetudini. In mezzo, i ricordi di un figlio, che si disfano come gli animali conservati sotto formalina della strana collezione paterna, intrisa di odore di morte e disinfettante. E questo odore mortifero per anni, sempre più intensamente, ha avvolto la vita degli abitanti della casa, divenendo tutt’uno con i muri, la mobilia, i gesti, le parole.
elementi essenziali e un po’ macabri, Giulio Mozzi fa un piccolo gioiello. Un recitativo apre a un prosimetro in cui si alternano sequenze di versi liberi a brevi componimenti strutturati più rigidamente sul piano metrico e retorico, a brani narrativi di puro racconto, con una gestione dello spazio grafico originale, con interruzioni di righe e a capo repentini.
Giulio Mozzi non scrive solo parole: dà immagine alle parole che quindi non si susseguono in serie di grafemi, ma fanno vedere altro, oltre.
Suggestivo, questo libretto.

Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari

Autore: Genna Giuseppe
Dati: 2010, 61 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

I Cammelli Polari si direbbero angeli,
se lo fossero.

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I Cammelli Polari: qualcuno li ha visti, ma non lo dice. Sembrano pattinare sul ghiaccio del Polo, eppure ondeggiano come anche i cammelli del deserto, ché tanto è lo stesso, si muore di sete anche al Polo, dove l’acqua è ghiaccio. Però sono più eleganti dei loro simili che si possono osservare tra le steppe dell’Anatolia. Sanno parlare, anzi per la precisione sussurrano, quindi ci vogliono orecchie che possano sentirli e che soprattutto vogliano sentirli. Appaiono e scompaiono, possono anche essere ubiqui, insomma lapalissianamente si potrebbero dire angeli, se fossero angeli. Se nessuno ne ha mai parlato finora è perché non ha voluto farlo e questo è grave, dai Cammelli Polari si possono trarre un po’ di insegnamenti, o almeno la possibilità di soffermarsi su ciò che noi umani siamo, senza saperlo. Perché loro lo sanno bene invece, ci osservano da sempre. E non pensiate che siano fantasie, queste: ne ha parlato prima di tutti Duarte Lopes nel suo trattato “Relazione del regno di Congo”, come puntualmente riporta Giuseppe Genna in una nota esplicativa, a proposito della disposizione con la quale si devono ascoltare le parole non pronunciate ma appena sussurrate dai Cammelli Polari.
E cosa sussurrano i Cammelli Polari agli ‘uomini privi di potere ovvero no’? Da loro sappiamo del ‘petroso rovinare del tempo’, in cui la lingua fa sì che lo spazio si tramuti in cronologia. E quello stesso tempo per loro non ha importanza, loro non ci pensano, soprattutto non pensano a quando finirà, come invece facciamo noi umani. Nessuna tempesta li infastidisce, loro sono fatti dello spazio che c’è tra un’idea e l’altra, non sono materia corruttibile come noi, pur non essendo eterni. Quindi il tempo esiste anche per loro e trascorre anche per loro. Ma l’indifferenza con la quale passano e osservano senza provare moti particolari dell’animo, li rende distaccati dalle miserie che invece caratterizzano la vita nostra, di noi umani imprigionati in un carcere in cui volutamente ci siamo infilati e da cui guardiamo la realtà attraverso lenti affumicate che molto nascondano alla nostra vista.
Ricco di teorie affascinanti, questo libretto.

Tutti i ragni

Autore: Santoni Vanni
Dati: 2012, 62 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

La tela nobilita il ragno.

Questa è la storia di un bambino, poi ragazzino, poi giovane uomo, poi adulto alle prese con la sua passione/fobia per i ragni.
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In realtà i ragni, tutti i ragni della vita della voce narrante, sembrano quasi un pretesto per raccontarsi; infatti la narrazione si snoda attraverso il ricordo degli incontri più o meno fortuiti, ovvero più o meno cercati, con le specie più diverse di aracnidi, ma è anche la ricostruzione di ciò che una certa generazione, quella nata più o meno alle soglie degli anni Ottanta dello scorso secolo (fa un po’ effetto dirlo così, eh?), è stata. Quindi sono i ragazzini che ancora giocavano all’aperto, con gli amici che conoscevano sul luogo di vacanza -amicizie destinate a durare lo spazio di una stagione ma non per questo meno importanti di quelle in città, con i compagni di scuola-, sono i ragazzini dei Transformers e dell’Amiga, delle Micromachines e delle Hot Wheels, dei cartoni animati giapponesi, degli Iron Maiden e di Bon Jovi versus Francesco Salvi di "C'è da spostare una macchina"  e il Jovanotti di  "Ciao mamma". Sono gli adolescenti di King of Dragons e di Doom, i videogiochi dove andarsi a cercare i ragni anche virtuali, pur consapevoli della propria aracnofobia (anzi, proprio per quello, spesso infatti cerchiamo ciò che temiamo).
Sono i giovani universitari che scoprono i fumetti giapponesi (dopo i cartoni animati dell’infanzia), sono i giovani che viaggiano dove devono viaggiare.
I ragni in tutto questo ci sono sempre.
Questo libretto mi ha fatto sorridere e mi ha dato tenerezza.