martedì 30 dicembre 2014

Un anno di letture: bilanci e impressioni


Alla fine di questo 2014 intenso di incontri e letture, faccio il mio solito bilancio, concedendomi un’appendice di osservazioni su alcuni libri che ho letto ma non recensito nel blog per svariate ragioni, non ultima spesso la mancanza di tempo. Di altri, perchè mi sono piaciuti davvero tanto, torno a parlare.
Intanto un po’ di numeri: 81 libri letti (dieci in più dello scorso anno), di cui 29 in e-book. Non che l’e-book non mi piaccia, ma è una scelta che faccio spesso per questioni puramente economiche (denaro e spazio), seconda rispetto al cartaceo: ho la preoccupante tendenza al piacere del possesso dell’oggetto libro, non vedo altre spiegazioni, data invece l’evidente praticità del portarsi in borsa un’intera libreria archiviata nell’e-reader.
L'autore che ho più letto è Marco Vichi (6 romanzi), seguito da Andrea Camilleri (5). L’editore più rappresentato nella mia libreria del 2014 (ma sempre, credo di poter dire con una certa sicurezza, anche scorrendo le liste dei libri letti negli anni passati) è Sellerio (16), seguito da Einaudi (10), Guanda (9) e Feltrinelli (7). Insieme a questi e ad altri editori grossi come Adelphi, Rizzoli, Bompiani e Mondadori mi piace aver letto anche libri editi in realtà più di nicchia, ma che prepotentemente si stanno facendo notare nel panorama editoriale italiano: quindi nel mio elenco troviamo titoli editi da Il notes magico, da Fazi, da Minimum Fax, da e/o e da altre case editrici piccole e coraggiose come Ponte alle Grazie, Laurana, EDT.
Ho abbandonato al loro destino solo due titoli, incapace di proseguire una lettura a volte irritante e a volte noiosa, confusa e inconcludente: ogni libro è una sfida, se non mi piace immediatamente, cerco di capire perché, magari riuscendo a superare quel momento di impasse in cui ci si chiede se continuare o meno e spesso riuscendo a ricredermi di un giudizio impulsivo.  Quando proprio non ce l’ho fatta a proseguire in quella che mi sembrava una tortura, forte anche del mai troppo citato articolo 3 del decalogo di Pennac (il diritto di non finire un libro), ho tentato anche di spiegare il mio abbandono ad altri, cercando sempre di argomentare al meglio le mie opinioni: è una pratica buona e giusta, perché quando spendi del denaro in un libro, hai il diritto di esternare le tue opinioni in merito, qualunque esse siano. Il problema è che puoi incorrere nell’ira funesta di qualche autore e dei suoi partigiani sui social network, il che è alquanto seccante. Come se non ci fosse la minima possibilità qualche volta di esercitare un po’ di autocritica e di mettersi dalla parte del lettore (pagante), che ha i suoi gusti rispettabili.

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Di tutto quello che ho letto quest’anno (15.465 pagine), mi soffermo su qualche titolo:

L’amore bugiardo di Gillian Flynn: pubblicato nel 2012, in Italia da Rizzoli l’anno successivo, l’ho scoperto casualmente grazie a un suggerimento social del giornalista Giuseppe Di Piazza. 462 divorate in brevissimo tempo, una storia coinvolgente, dai forti risvolti psicologici che offrono motivi di riflessione su come siamo, come decidiamo di essere e come ci vedono le persone che abbiamo più vicine: non mi soffermo sulla trama, di cui ho già detto e che è largamente nota in virtù del film appena uscito anche in Italia. Un peccato per chi pensa che basti il film: a mio parere, per quanto ben realizzato, vale sempre la pena leggere il romanzo da cui è tratto, si può avere una visione più organica e profonda della vicenda narrata, oltre che godere dello stile della Flynn, imperdibile. Di lei mi aspetta un altro titolo, “Nei luoghi oscuri” del 2009.
La miscela segreta di casa Olivares di Giuseppina Torregrossa: edito quest’anno da Mondadori, è l’affascinante storia di Genziana, figlia di Roberto Olivares, titolare di una nota torrefazione di Palermo (nota non solo nella finzione, in cui assume il nome di Olivares appunto, ma perché facilmente riconoscibile anche nella realtà, per chi conosce la città e Discesa dei Giudici). Genziana, che è solo una ragazza, si ritrova durante la seconda guerra mondiale, in una Palermo martoriata dalle bombe, a prendere le redini dell’attività rimasta senza guida. La miscela perfetta, frutto di esperimenti e tentativi, segreto custodito gelosamente dal padre Roberto, sarà la sintesi perfetta della vita della giovane donna, che nella sua torrefazione vedrà passare le sue passioni e la storia della sua città.
Stoner di John Williams, uno dei colpi messi a punto da Fazi nel 2012. Il libro è stato scritto nel 1965 e, come il suo autore, è rimasto sconosciuto in Italia finché non è stato scoperto da questo editore specializzato soprattutto in narrativa straniera. La fortuna di “Stoner” per alcuni è inspiegabile: quello che so per esperienza diretta -e che ho potuto costatare anche indirettamente, avendone molto consigliata la lettura, prestandolo e regalandolo- è che questo romanzo, pur raccontando la storia di un uomo comune che si fa da sé, con la sola forza della sua volontà, fa dell’eccezionalità di una vita qualunque la sua ossimorica cifra caratteristica. A William Stoner, cui molto assomiglia il suo creatore, ci si affeziona, si partecipa con sofferenza e passione alle sue vicende personali, di studio e lavorative, nonché di amore. Stoner è un personaggio che entra dentro e per un bel pezzo accompagna il lettore, difficile da farsi scalzare da altre storie e da altri protagonisti. Non so dire come sia nato il fenomeno Stoner, ma so per certo che a ragione è un fenomeno. Mi è piaciuto così tanto che questo l'ho recensito e ancora ne parlo.
La famiglia Tortilla di Marco Malvaldi, edizioni EDT: un e-book veloce, a metà strada tra la guida turistica che non vuole essere e il racconto di viaggio di una giovane coppia con figlioletto al seguito (i veri Marco,  Samantha e il piccolo Leonardo). Un percorso turistico-gastronomico che si dipana per le strade di Barcellona, città che Malvaldi conosce bene, alla scoperta di locali, cibi e strategie per viaggiare con un bimbo che è ancora troppo piccolo per mangiare la paella catalana (da non confondere con quella di Valencia, da cui proviene senza ombra di dubbio la ricetta originale) o l’ esqueixada de bacalà (un’insalata di baccalà). Malvaldi mi diverte sempre, qui si misura con le tradizioni gastronomiche di un paese, svelando competenza e passione per il cibo da vero buongustaio, sempre con il suo irresistibile tono spiritoso ed è stato un’autentica scoperta.
L’amica geniale di Elena Ferrante, edizioni e/o. Di Elena Ferrante si dice tanto, si dice troppo: dietro questo pseudonimo si nasconde non si sa chi, forse uno scrittore uomo. Non mi interessa tanto questa questione, anzi, non devo pensarci molto perché un po’ mi infastidisce, non credo abbia senso nascondersi dietro un nome fittizio, celare la propria identità mi sembra un’azione insincera che viola il patto tra scrittore e lettore (tu scrittore non sai chi sono io lettore, ma io lettore voglio sapere chi mi sta raccontando, affascinando, appassionando, illudendo, irritando, infastidendo…). Ho conosciuto Elena Ferrante grazie al suo “L’amore molesto” e poi “I giorni dell’abbandono”, storie intense e indimenticabili (lo so, sono a corto di aggettivi, ma questi rappresentano al meglio ciò che penso); per un po’ di anni sono rimasta inspiegabilmente indifferente alle sue uscite editoriali, fino all’esplosione della quadrilogia del “L’amica geniale”, la storia di un’amicizia speciale tra due ragazzine, poi donne, nella Napoli degli anni Cinquanta. Mi è piaciuto moltissimo questo primo volume, ho anche gli altri e presto li leggerò. la scrittura di Ferrante è coinvolgente, i personaggi sembra di vederli.  
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Pornoromantica (che il correttore automatico vorrebbe convertire in ‘protoromantica’) di Carolina Cutolo: un e-book del 2014 della Fandango Libri che mi ha fatto ridere alle lacrime. A una giovane sociologa, Caterina Cicutto, viene commissionata la scrittura di un corso di sesso e amore per corrispondenza, un ciclo di dispense “farcite di luoghi comuni new age e spolverate da astrazioni speziate scarsamente compatibili” con la realtà dei singoli lettori.  Dette dispense affrontano tutti gli aspetti della vita sessuale teorizzata sulla base della vita vera di Caterina e poi messa in pratica dai lettori attraverso una serie di ‘esercizi’ (per vedere se le cose vanno come devono andare, cioè come si dice nella teoria appunto). Il sesso viene qui raccontato senza alcuna remora di tipo lessicale e sostanziale,  tutte le pratiche tra erotismo e pornografia (che non è mai tale dove ci sia una sana voglia) vengono descritte minuziosamente per preparare il corsista (e soprattutto la corsista) ad un sano e pieno godimento dell’altro: se vi aspettate un manuale sul sesso però, scordatevelo. Abbandonatevi invece all’idea di capire qualcosa di più dell’esperienza globale, facendovi un bel po’ di risate.





venerdì 26 dicembre 2014

SapereSapori: Regalo di Natale



Le pittule, ce suntu me sai dire?
Nu picca de farina a mmenzu all'oiu.
Ma lu Natale nu se po' sentire se mancane le pittule, lu meiu!

Osservava l’impasto appiattito sul fondo della coppa. Si sarebbe dovuto alzare quasi fino all’orlo, pieno di bollicine, risultato della fermentazione della pasta.
Qualcosa era andato storto, non era possibile un disastro del genere, erano le otto e mezza di sera, impossibile rimediare in alcun modo; non ci sarebbe stato il tempo per fare un nuovo impasto con il lievito di birra liofilizzato, che per emergenza teneva sempre in casa “non sia mai il lievito madre dovesse morire di stenti nel frigo”.
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Si doveva far nascere Gesù Bambino nel presepe, i tempi erano da sempre sincronizzati alla perfezione, nulla era lasciato al caso, le tradizioni sono tradizioni. Poi si sarebbe messa ai fornelli, felice che i ragazzi le girassero intorno con aria disinvolta e furtivamente si servissero dal vassoio, per poi nascondere in bocca le palline roventi di pasta lievitata fritta, diventando rossi e soffiandosi dentro…

Fin da bambina aveva guardato  attentamente la madre mentre sbatteva energicamente l’impasto molle, seguendo tutte le fasi della preparazione delle pettole (al paese di mamma, in mezzo alla Puglia preciso, ché invece in Salento sono pittule con la e che chiude in i e la o che diventa u) e assistendo alla magia di quella massa di farina, acqua e lievito che si sarebbe gonfiata e trasformata in palline dorate, nell’olio bollente.
Era la cena della Vigilia, come se ne poteva fare a meno? Bisognava che imparasse a farle: una volta che avesse avuto la sua casa adulta, avrebbe dovuto friggerle per suo marito e i suoi bambini, bisognava proprio che stesse attenta alla consistenza dell’impasto, alla forza che sua madre metteva nella lavorazione, il composto doveva incorporare aria e gonfiare alla perfezione mentre lievitava.

E adesso? Sembrava che l’impasto fatto la mattina prestissimo con il lievito di madre, unica deroga al procedimento consueto di sua madre che invece utilizzava il panetto di lievito di birra comprato al supermercato, non si fosse mosso da come lo aveva messo sul fondo della coppa, si era solo allargato sulla superficie piatta.
L’essere una buona massaia, oltre che una donna impegnata e realizzata nel lavoro fuori casa, prevedeva levatacce nei giorni festivi, che consentissero di farsi trovare all’opera in cucina al risveglio del resto della famiglia: la ricerca della perfezione quasi, la prova che se si vuole si può e lei voleva e poteva, non c’erano scuse, non c’erano per nessuna Donna, lei ne era la dimostrazione vivente.

Era un presagio, un segno.

Era l’inizio del crollo, era tutto ciò che fino a quel momento non avrebbe voluto, era quello che non era previsto nella sua vita di signora Perfettini, era l’inizio delle recriminazioni che di lì a poco, in quella lunga notte di Vigilia, ci sarebbero state.
Era il principio di una presa di coscienza, era la consapevolezza che nulla si costruisce senza che anche gli altri lo vogliano davvero, e gli altri non avrebbero voluto tutta quella montatura, quell’insieme di riti che a lei sembravano irrinunciabili altrimenti non era Natale, tanto per dirne una e per tacere del resto.
Era quello che sarebbe successo, la fine di tutto.
Era la decisione di rinunciare finalmente ai vincoli che da sola si era imposta, le abitudini che la rendevano riconoscibile a se stessa e agli altri.
Era il rendersi conto che la riproduzione di modelli amati da ragazzini non corrisponde al vero, che spesso imitare la vita dei propri genitori, quando considerata migliore della nostra, non dà quasi mai l’effetto sperato, inseguito.
Era l’accorgersi che era tutto farlocco, era tutto finto, era una galera di consuetudini istituite che ora esigevano di essere sciolte.
Era la rivolta dell’impasto delle pittule.
Era la liberazione.

Era stato un presagio, un segno.

domenica 14 dicembre 2014

#PiùLibriPiùLiberi2014: il mio bottino alla Fiera di Roma

Dopo aver sfoggiato nei principali social network i miei acquisti a Più Libri Più Liberi, sotto forma di fotografia, mi sembra giusto spendere due parole per passare in rassegna quello che ho portato a casa.
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In passato ero stata solo una volta alla Fiera della piccola e media editoria, che annualmente si tiene ai primi di dicembre al Palazzo dei Congressi dell’EUR a Roma ed era stata una visita alquanto frettolosa, anche se proficua dal punto di vista degli acquisti.

C’è che in un posto del genere hai modo di scoprire autori e editori che non hanno una distribuzione capillare, specie nei megastore di libri, dove trovi il bestseller del momento, ma l’autore di nicchia devi chiedere al commesso dove sta nascosto e il più delle volte lo devi ordinare. Quindi per i lettori particolarmente esigenti, sempre alla ricerca del libro speciale, Più Libri Più Liberi è una specie di Paese delle Meraviglie: ti costringe a tour de force davvero stancanti, ma si torna a casa con un pieno di storie, incontri, colori, volti, sorrisi e parole che può farti da scorta almeno fino all’appuntamento culto con il Salone del Libro di Torino.

Come la mia amica Simona Scravaglieri del blog [...] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti [...] , illustrerò i libri che ho acquistato seguendo il criterio della casa editrice, perché principalmente gli editori sono al centro di questo evento, che per cinque giorni all’anno fa da calamita irresistibile per gli amanti della lettura.

edizioni e/o: è stato il primo stand visitato, dove sono andata a colpo sicuro per acquistare i romanzi di Piergiorgio Pulixi. Il protagonista di molte storie di Pulixi, giovane scrittore uscito dal collettivo di scrittura Sabot di Massimo Carlotto, è Biagio Mazzeo, un ispettore di polizia sui generis, che ho imparato a conoscere attraverso i brevi racconti pubblicati su Svolgimento (qui un esempio). Da queste brevi letture alla curiosità di saperne di più il passo è stato breve.
“Una brutta storia” (2012) e “La notte delle pantere” (2014) sono le due storie che vedono al centro le (dis)avventure di questo poliziotto corrotto, che coordina una squadra di uomini che si muovono ai limiti della legge: spero di poterne parlare più diffusamente al più presto. L’ultima fatica di Pulixi,“L’appuntamento” (2014), almeno ad una veloce occhiata, sembra uscire dai percorsi già battuti dall’autore: le pagine sono fitte di dialoghi, dalla quarta di copertina capisco che siamo di fronte ad un noir psicologico di sicuro impatto emotivo, data la tematica (perversione umana, ossessione per il controllo della vita altrui, pericolo per la privacy nell’era dei mondi virtuali). Sarà una lettura intrigante, ne sono sicura.

:duepuntiedizioni: dieci anni di attività per questa giovane e dinamica casa editrice palermitana, i cui fondatori si definiscono "editori di contenuti", animata dalla voglia di accendere il desiderio di lettura. Da loro ho comprato tre piccoli volumi della collana zoo: “Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari” di Giuseppe Genna (2010), “Tutti i ragni” di Vanni Santoni (2012) e “La stanza degli animali” di Giulio Mozzi (2010). Le copertine di questi libretti sono stampati su Ecomaximus Elephant Dung Paper, carta 100% riciclata e fatta a mano da escrementi di elefante (come si legge all’interno del volume e come mi è stato spiegato allo stand E-20 ): ora, se è vero che dal letame nascono i fior, come cantava Fabrizio De Andrè, mi aspetto che queste copertine racchiudano fior di libri. Ve lo farò sapere.

edizionispartaco: qui ci sono arrivata grazie a Simona e Irene Daino (AKA Nereia) di Librangoloacuto, che già conoscevano questa casa editrice dallo scorso anno. Entrambe hanno letto “The white family” di Maggie Gee e quest’anno hanno acquistato gli altri due volumi della trilogia di questa scrittrice inglese che, confesso, non avevo mai sentito nominare pur essendo lei niente meno che Officer of the Most Excellent Order of the British Empire (OBE). Mi sono fidata dei commenti entusiastici delle mie amiche bloggers, anche in questo caso spero presto di farvi sapere le mie impressioni.
 

exorma: qui mi sono fatta conquistare da un titolo di Massimo Roscia, “La strage dei congiuntivi” (2014), un romanzo contro la non-lingua (si può dire “efficientare”, “promozionare”, “situazionare”? Proprio no!) che sarà oggetto di una delle #letturecondivise che faremo su Twitter con Simona e Irene (e chiunque vorrà seguirci, ovviamente). Pensiamo di lanciare l’hashtag #SeIoSarei (che poi è la scritta sul tesserino con la quale l’Autore si è presentato in Fiera) con l’inizio del nuovo anno, quindi aspettateci.

Gorilla Sapiens: carini e giovani, questi editori! Di Carlo Sperduti ho comprato “Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi” (sì, perché, se non si fosse capito, “basta una srafe sbataglia per scioreglie l’intanchesimno e tornare alla vita di giutti i torni” –dalla quarta di copertina-). Si tratta di una breve raccolta di racconti scritti tra il 2010 e il 2013, anno di pubblicazione del volume, riuniti senza un particolare criterio: alcuni testi sono legati a situazioni e progetti particolari, altri “sono venuti fuori senza che nessuno me lo avesse chiesto”, come dice l’Autore. Ovviamente l’acquisto, impulsivo, è stato determinato dal fascino che spesso i titoli esercitano sulla mia curiosità…

Avagliano Editore: qui mi ha trascinato Simona. “Salva un libro dal macero” campeggiava sopra una scatola da dove si poteva pescare alla ricerca di titoli ormai fuori catalogo, destinati alla distruzione: “Biografia di un delitto” di Giuseppe Bottura (2007) l’ho salvato perché mi piacciono i gialli e questo addirittura è ‘insolito’, come si legge nella quarta di copertina, quindi mi aspetto una buona lettura. Il secondo titolo acquistato, anche questo per soli 2 euro, è “La guerra sotto gli occhi” di Manuela Dviri (2003), scrittrice e giornalista della quale ho imparato ad apprezzare le cronache dal conflitto tra Israele e Palestina, dalle pagine di Vanity Fair Italia, con cui collabora.  

edizioni creativa e DISSENSI EDIZIONI: metto insieme questi due editori, ospitati in uno stand dove ho trovato molti titoli dedicati alla scuola. Qui ho acquistato “La scuola bocciata” di Tommaso Travaglino (DISSENSI, 2014) ‘viaggio nel lucido delirio della scuola italiana’ e “La scuola ingiusta” di Simonetta Fontana (edizioni creative, 2014): le politiche scolastiche degli ultimi anni -e di quest’anno in particolare- impongono una riflessione che vada al di là dei proclami governativi e ministeriali, quindi spero che anche questi due volumi, insieme ad altri che sto leggendo, mi aiutino a capire dove sta andando il nostro sistema educativo.

martedì 9 dicembre 2014

Ultima lettura: "La signora Rosetta ovvero la felicità provvisoria" di Tiziana Sferruggia


La signora Rosetta ovvero la felicità provvisoria

Autore: Sferruggia Tiziana
Dati: 2014, 145 p., brossura
Editore: Atmosphere Libri (collana Opera prima)

Ci sono persone che muoiono senza aver conosciuto l’amore.

Alcuni libri arrivano a noi grazie al passaparola. Se poi aggiungiamo una copertina coloratissima e molto accattivante, un titolo che attira e una buona immaginazione che ci fa andare oltre, si spiega come ci si possa tuffare a capofitto tra le pagine di un libro senza saperne nulla, senza sbirciare il risvolto e la quarta di copertina, senza essere preparati a ciò che troveremo.
Photo Elena Tamborrino

Prima di avere il libro tra le mani, prima di sfogliarlo e leggerlo, immaginavo che Rosetta, la protagonista, fosse una rubiconda e burrosa signora di mezza età: sarà stato il diminutivo vezzeggiativo, l’accostamento alla delicatezza del fiore della rosa. Ero evidentemente fuori strada, perché Rosetta Drago in Mollica è tutto tranne che rubiconda e burrosa: è invece eterea, candida, bionda, esile. Per di più frigida e infelice senza saperlo, perché la sua infelicità se l’è scientificamente costruita, pensando che fosse invece la felicità (per quanto provvisoria).
Ma veniamo alla storia: Margherita, Violetta e Rosetta sono le figlie del signor Drago, fioraio in un quartiere popolare, dove le ragazze –alte e altere, snelle e bionde, severe e irraggiungibili-  crescono, coltivando il sogno dell’ascesa sociale da raggiungere grazie al matrimonio. La morte del padre costringe le ragazze al ridimensionamento delle loro ambizioni, ma dopo un primo momento di smarrimento Rosetta prende le redini della famiglia, confortata anche dai consigli del parroco don Vito: si mette a lavorare come sarta e provvede agli studi delle sorelle, che ben presto si sistemano con due impiegati di banca, abbandonando il quartiere proletario in cui sono cresciute.
Dopo pochi anni a Rosetta, ormai quasi rassegnata a restare zitella, si presenta l’occasione di un buon matrimonio e così anche lei comincia la sua vita borghese fatta di traguardi: dopo il matrimonio arriva la casa -con i tappeti preziosi, le lampade Tiffany, i cristalli Swarovski-, e poi la maternità, con due figli che lei cresce all’ombra di nomi altisonanti, ridondanti, che avrebbero dovuto accrescerne il prestigio sociale.
Tutto sembra calcolato nella vita di Rosetta, che non si concede nulla e nulla concede al marito e ai figli: nessuna debolezza, nessuna incrinatura, nessuna sbavatura, affinché l’esistenza borghese della famiglia Mollica non sembri perfetta, ma assolutamente lo sia.
Purtroppo però c’è l’imponderabile dell’umana natura, l’imprevisto che arriva a mischiare le carte sul tavolo, la folata di vento che scompiglia e sconvolge la perfetta messa in piega di Rosetta: non tutto si può tenere sotto controllo e amaramente se ne deve rendere conto la nostra protagonista, che sembra quasi accartocciarsi, mentre si consuma la discesa della sua parabola. Il contrappasso avrà il sapore della beffa, unita al danno.
La signora Rosetta è al centro di tutta la storia, tutti gli altri personaggi impallidiscono al suo confronto; nonostante il fisico esile, il petto scarno, la figurina quasi incorporea, Rosetta giganteggia con la forza del suo carattere, al quale l’Autrice dà peso e voce con straordinaria efficacia. Il tono è alternativamente ironico e compassionevole, dissacrante degli status symbol che sembrano tanto importanti per la sua protagonista e divertito dagli esiti delle vicende che la stessa Rosetta mette involontariamente in moto.
Tiziana Sferruggia, al suo esordio narrativo, scrive in modo lieve  e passa leggera sulla vita stinta e tragica di una parvenu destinata a rifare il percorso al contrario; ci accompagna tra le stanze dove scintillano i cristalli di Rosetta e dove splende il damasco dei suoi divani, per portarci infine dove l’odore di cavolfiore bollito risale la tromba delle scale del condominio popolare in cui la donna, ormai sfiorita ma sempre orgogliosa ed elegante, forse sente per la prima volta il sapore della vita.

giovedì 6 novembre 2014

Sul comodino: "Diceria dell'untore" di Gesualdo Bufalino


Diceria dell’untore

Autore: Bufalino Gesualdo
Dati: 2009, 213 p., brossura (prima ediz.originale 1981)
Editore: Sellerio (collana La rosa dei venti)



Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia,
del fuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigiama com’erano,
 a scendere in giardino per piangere finalmente da soli,
con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina:
chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate,
mentre le coglie e disorienta
l’indorarsi fulmineo del mondo,
al di là del muro di cinta?

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Leggo un’edizione speciale di “Diceria dell’untore”, inserita nella collana I grandi romanzi italiani, edita da RCS Libri per il Corriere della Sera nel 2003. Qui però fornisco i dati dell’edizione Sellerio uscita per il quarantennale della casa editrice, che per prima ha pubblicato il romanzo nel 1981, grazie alla felice intuizione di Leonardo Sciascia e di Elvira Sellerio appunto. Mi sembra giusto così, nonostante poi negli anni “Diceria dell’untore” sia stato pubblicato in molte altre edizioni, anche da altri editori; mi sembra giusto rendere il merito di una scoperta letteraria a un editore che all’epoca ha scommesso su un romanzo che aveva una storia riluttante, segreta e travagliata e che forse non sarebbe mai uscito dal cassetto del suo autore che lo aveva custodito per anni, dal 1950 quando lo aveva iniziato a scrivere intorno ai trent’anni, per riprenderlo venti anni dopo e pubblicarlo infine nel 1981.
Non bastasse la vicenda faticosa della sua uscita, o forse proprio per questo motivo, questo romanzo aspettava da oltre dieci anni che lo leggessi, ne avevo soggezione. Acquistato proprio in occasione della pubblicazione nella collana sopra citata, consapevole che fosse un libro ‘da leggere’, ero affascinata e insieme intimorita dal molto, troppo rumore che aveva accompagnato la sua pubblicazione (cosa che in genere invece mi fa respingere i libri di cui si parla troppo -e spesso a sproposito-, nel timore che si tratti di operazioni troppo spinte sul piano commerciale e poco artistiche: fisime da lettrice disordinata).
La fama tardiva e fulminea del suo autore, la cui morte violenta e improvvisa nel 1996 ne ha interrotto la frenetica carriera al culmine, i discorsi intorno allo stile prezioso e ricercato di Bufalino, i premi riconosciuti non solo a “Diceria dell’untore” (Campiello, 1981) ma anche ad opere successive (“Menzogne della notte”, Premio Strega 1988, quando ancora parlare di premi letterari in Italia aveva un vero senso), il mistero di una vita riservata e ripiegata nel culto delle Lettere, non hanno fatto altro che accrescere il mio timore reverenziale ad accostarmi a cotanto scrittore.
Ma insomma, per farla breve, prima o poi il momento arriva, si cerca l’occasione magari, anche coinvolgendo altri lettori nel confronto: ho trovato quel momento nell’ambito di un gruppo di lettura che periodicamente si riunisce in case private, discute del libro scelto nell’incontro precedente e conclude la serata con una cena in tema (momento ricreativo e conviviale che rappresenta un ulteriore stimolo).
Quindi ora sono completamente immersa nel racconto sospeso della reclusione in un sanatorio, tra recite e amori e attese, esclusione dalla buona salute e inclusione nella dimensione irreale dell’essere stati e il non essere quasi più, ormai ombre precarie della vita. Quello che al momento mi colpisce della vicenda non è tanto il ‘cosa’ (la trama è semplice, si tratta del racconto dell’amore tra un giovane reduce di guerra e Marta, che si incontrano nel 1946 nel sanatorio della Rocca, presso Palermo: le storie personali dei due giovani e il destino che li attende, fanno dipanare la vicenda in un crescendo di emozioni intense), ma il ‘come’: lo stile di Bufalino si alterna senza strappi tra pura lirica ed ironia sferzante, nel racconto dei fatti e nel tratteggio dei personaggi.
Avevo ragione ad essere intimorita: la parola di Gesualdo Bufalino è ricamo pulito ed essenziale, ma preziosamente disegnato, impossibile da rifare con lo stesso effetto. Penso a quanti scrittori hanno provato a giocare con le parole, volendo fare i ricercati e ottenendo invece risultati assai incerti (qui un esempio). E penso che la famosa musicalità della parola (che chimera, che illusione!) sia quanto di più difficile da riprodurre, soprattutto nei suoi effetti sul lettore, che deve riuscire a staccare, anche solo per un attimo, i meri significati dai loro significanti e godere di questi ultimi come se fossero acqua nel deserto.
Finirò di leggere questo romanzo nei prossimi giorni: lo sto centellinando, come se non ne volessi vedere la fine.

domenica 26 ottobre 2014

Ultima lettura: "Lamento di Portnoy" di Philip Roth


Lamento di Portnoy

Autore: Roth P. (traduzione di Roberto C. Sonaglia)
Dati: 2005 (edizione originale Portnoy’s Complaint, 1967), p. 234, brossura
Editore: Einaudi (collana Scrittori)

Dottore, forse gli altri sognano le cose... a me capitano tutte.
Ho una vita senza contenuti latenti.
Le cose da sogno succedono!

Ma veramente penso di poter scrivere la recensione di “Lamento di Portnoy”?
Veramente penso di poter parlare (io!) di uno dei romanzi più belli che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, un monumento al complesso di Edipo -ma che dico?- un monumento e basta, un dramma terribile intriso di frustrazione e sensi di colpa atavici, di sesso e ossessioni, il tutto impastato di sarcasmo e ironia (e autoironia) graffiante, irresistibile, fantasiosa, dissacrante, al limite della comicità pura (tempi perfetti!), capace nel contempo di ispirare veri sentimenti di pietà e partecipazione verso il povero protagonista, Alex Portnoy?
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Veramente penso (io, io!) di poter parlare di uno scrittore che non si sa per quale motivo non si vede attribuito il Nobel per la Letteratura, dopo aver collezionato molti prestigiosi premi (Pulitzer Prize compreso, per “Pastorale americana”) e la cui opera omnia è stata pubblicata definitivamente dalla Library of America?
Certo che no. Non posso proprio, non saprei da che parte cominciare.
Mi limiterò a dire che il mio incontro con i romanzi di Philip Roth è stato contraddittorio: sulla scorta del film “La macchia umana” (2003) di Robert Benton con Anthony Hopkins e Nicole Kidman, avevo deciso di leggere il romanzo omonimo, senza però riuscire a finirlo. Poiché però le sollecitazioni verso Roth da parte di suoi adoranti estimatori erano continue, ci ho riprovato con “Il teatro di Sabbath”, un’autentica rivelazione, un romanzo che considero un discrimine tra un prima e un dopo della mia vita di lettrice.
A “Lamento di Portnoy” sono arrivata senza fretta, dopo averlo acquistato molti anni fa a seguito di una conversazione telefonica con Massimo Cervelli e Roberto Gentile, ai tempi conduttori della trasmissione radiofonica “Gli spostati” (Radio2, dal 2006 al 2010), che ne decantavano la superiorità rispetto ad altri titoli di Roth, secondo il loro parere, considerandolo lettura irrinunciabile. Tuttavia ero indecisa, combattuta tra il timore di una delusione come mi sembrava fosse stato con “La macchia umana” e il desiderio di entusiasmarmi ancora come con “Il teatro di Sabbath”: alla fine l’occasione è arrivata con #letturecondivise, l’hashtag lanciato su Twitter che ogni tanto mi fa incontrare con Simona ScravaglieriValentina Accardi, oltre che con altri lettori che si accodano volentieri.
A loro e a #letturecondivise sarò grata per avermi fatto recuperare da uno scaffale un po’ nascosto questo romanzo indimenticabile. E ci riproverò con “La macchia umana”.

martedì 21 ottobre 2014

#TwPinocchio e i suoi piccoli (?) lettori


Come andò che Mastro ciliegia, falegname,
trovò un pezzo di legno,
che piangeva e rideva come un bambino.


Photo Elena Tamborrino
Ci siamo, di nuovo sui blocchi di partenza per una nuova rilettura (e riscrittura) promossa da TwLetteratura: Collodi e “Le avventure di Pinocchio” sbarcano su Twitter e ci resteranno per poco più di un paio di mesi, dal 10 novembre 2014 al 20 gennaio 2015 (per tutte le informazioni su calendario e modalità di partecipazione andate qui).
Ancora un progetto per le scuole e non solo, dopo lo straordinario successo di #TwSposi, che lo scorso anno scolastico ha coinvolto una ventina di scuole e 2.391 account Twitter (che significano 38.130 tweet originali e 100.500 fra tweet e retweet): quest’anno la comunità è più forte, più preparata a reggere l’onda d’urto che una simile iniziativa può produrre (se tanto mi dà tanto…) e già dal lancio ufficiale del progetto il 4 ottobre scorso a Firenze nell’ambito del Festival delle Generazioni, davanti al pubblico della sezione “Il Futuro è già ieri”, a cura di Marco Stancati, si è capito che ci sono le premesse per quella che sarà un’esperienza importante, senza dubbio.
I motivi per cui si può già pensare che la rilettura de “Le avventure di Pinocchio” sarà una riscoperta per i più giovani (che ne conoscono la storia quasi esclusivamente dalla riscrittura disneyana), ma forse anche di più per tanti adulti (che ne hanno forse un ricordo sbiadito, meritevole di una rinfrescata) vanno ricercati nella funzione anche simbolica di molti contenuti del romanzo, già evidenziati quasi quaranta anni fa da Edoardo Bennato (“Burattino senza fili”, 1977), che propose una rilettura della storia di Collodi in chiave metaforica. Corruzione, potere, condizione femminile, cultura, educazione e coscienza erano allora temi attuali e lo sono ancora di più oggi. I livelli di lettura sono molti, coinvolgeranno lettori di varie fasce di età, che saranno probabilmente suggestionate da stimoli diversi; il metodo, ormai consolidato in molteplici situazioni (qui le trovate tutte riassunte ), accomunerà tutte le esperienze.
Come mi pongo io rispetto a questa nuova avventura? Frequentatrice assidua dei progetti promossi da Paolo Costa, Edoardo Montenegro e Pierluigi Vaccaneo (per me da #TwSposi ad oggi ci sono stati #Lussu, #2019SI, #CattivaMemoria, #TwiFavola), sono entusiasta di riaccostarmi a Pinocchio da adulta, sia pure alla guida di un gruppo di quindicenni (l’account ufficale con cui parteciperanno al progetto è @1CATCezzi). La twitteratura è ormai prassi sistematica nelle classi in cui insegno, un Istituto Tecnico Economico, quindi sono anche curiosa di sperimentare l’approccio degli adolescenti con il ‘burattino senza fili’. Ma quest’anno per me la twitteratura non è solo #TwPinocchio: confortata dalla partecipazione dei miei alunni più grandi a #TwSposi (che ho raccontato qui) , quest’anno ho deciso di proporre il metodo, adattandolo alle letture che stiamo scegliendo insieme per l’iniziativa che va sotto il nome di #unlibroalmese (gli account ufficiali delle classi che partecipano a questo progetto sono @5AFM_ITES@5ARTCezzi). Per il commento de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia, attualmente in corso su Twitter come #SciasciaGDC, è stato impossibile procedere ad una calendarizzazione, dal momento che il racconto dello scrittore di Racalmuto non è suddiviso in capitoli ma è di lungo respiro e questo ha reso difficile il coinvolgimento della comunità di TwLetteratura: poichè leggeremo otto libri durante l’intero anno scolastico (in realtà saranno di più, perché le classi con le quali sto realizzando il progetto sono due quinte, classi terminali alle quali mi preme far conoscere i grandi scrittori della letteratura contemporanea), speriamo di riuscire a incuriosire altri utenti che avranno voglia di dare il loro contributo alla nostra iniziativa.
Intanto, viva #TwPinocchio e tutti i portatori sani di twitteratura!

giovedì 25 settembre 2014

Ultima lettura: "I Ciclonauti" di Piero Sansò


I Ciclonauti

Autore: Sansò Piero
Dati: 2014, 135 p., brossura
Editore: I Sognatori Factory Editoriale (collana I castelli invisibili)

La sera mi spaventa, a volte.


Questa storia finisce male, anzi malissimo. Con tre morti secchi, a nemmeno tre pagine dall’inizio. Tre morti secchi che sono anche i protagonisti di questa fiaba surreale, tra fantasy e mistero, che è un viaggio onirico ai confini del tempo e dello spazio, da percorrere rigorosamente in bicicletta. A partire dalla morte del glottologo Prof. Cornelius, del geologo Prof. Paoli, e di Piero Panizza, eccentrico grafico pubblicitario, in un lungo flash back si ricostruisce la vicenda che ha portato alle morti cruente dei tre “Ciclisti di Hofmann”.
Photo Elena Tamborrino
E chi sono i “Ciclisti di Hofmann”, o Ciclonauti? Sono (anzi, erano) una setta segreta di ciclisti, la cui struttura organizzativa e gli scopi erano sconosciuti (altrimenti che setta segreta sarebbe stata?), di cui si sospettava uno stretto legame con la presenza nel Salento di dolmen e menhir, costruzioni megalitiche che si erano autodistrutte misteriosamente e all’improvviso nel giro di una notte, la stessa della morte dei tre Ciclonauti.
Tutta la storia ruota intorno alla scoperta sensazionale fatta dai due studiosi Cornelius e Paoli: i dolmen e i menhir sono centri che assorbono energia e la rilasciano a chi li tocca, non sempre con conseguenze positive, per usare un eufemismo. A Panizza, detto anche e non a caso P. Pan, il compito di indagare sul come e sul perché. Le ricerche del grafico si snoderanno tra passaggi trasfigurati e inspiegabili, lungo le linee della Grande Griglia (una mappa dell’Europa in cui sono evidenziati i luoghi dove si sono verificati fatti soprannaturali) e attraverso gli Accessi (le illuminazioni lisergiche): in questo viaggio le coordinate spazio-temporali sono destinate a saltare, le leggi della natura a essere sovvertite, le esperienze allucinatorie a fare da perno intorno al quale P. Pan, in sella al suo destriero di ferro, ruota incontrando personaggi improbabili che popolano sogni invivibili. Gli spostamenti sono repentini, non solo da uno spazio all’altro, da un’epoca all’altra, ma anche da una dimensione a un’altra, quella onirica da cui si entra e si esce senza soluzione di continuità.
Photo Elena Tamborrino
In questa continua allucinazione, che in parte mi ha ricordato il sogno di Alice nel Paese delle Meraviglie per le situazioni e i dialoghi surreali, il lettore si trova coinvolto suo malgrado: perché anche se oppone resistenza e vuole capire e prende appunti e fa avanti e indietro tra le pagine, l’unico modo per gustare l’esperienza è lasciarsi trascinare dalla prosa di Piero Sansò, dalle sue visioni, dalle sue invenzioni, senza chiedersi nulla. Ciò che più sorprende di questa trovata narrativa (non so definirla diversamente) è che se da una parte è ispirata dalla più sfrenata fantasia, dall’altra è ancorata fortemente alla terra, fisicamente, come solo le due ruote di una bicicletta e i ciclisti appassionati possono essere: trovare la sintesi perfetta tra realtà e sogno è la chiave di volta della scrittura di Sansò.
L’ho appena finito... sto ancora pedalando... ma verso dove? E venendo da dove? Lo spazio (forse) è circolare... E il tempo pure, fatto di cicli, ore, attimini e tocchi. 

NB: per scelta editoriale, questo libro lo trovate alle presentazioni oppure qui.


venerdì 5 settembre 2014

Sul comodino: "Tentativi di botanica degli affetti" di Beatrice Masini


Tentativi di botanica degli affetti

Autore: Masini Beatrice
Dati: 2013, p. 324, brossura; ePub con DRM 2,9 MB
Editore: Bompiani (collana Narratori italiani)

È così che nasce la poesia? vorrebbe chiedergli Bianca, incuriosita.
Una catena di pensieri, e poi improvvise o premeditate
ecco sgorgare le parole perfette,
quelle che li riempiono, i pensieri, come una mano riempie il guanto,
e premono il cuore e le dita per essere scritte così?

Procedo con molta lentezza: rispetto ai miei soliti ritmi di lettura, “Tentativi di botanica degli affetti” di Beatrice Masini, giornalista, traduttrice, editor, autrice di storie, ha stravolto le mie abitudini. Non è solo perché in questo periodo ho meno tempo per leggere, ma è anche che questo romanzo non si beve d'un fiato. Però ti avvolge: questo credo sia il verbo più adatto per indicare il grado e l’intensità del coinvolgimento che la storia narrata da Masini offre al lettore. Inutile poi dire che mi ha attratto molto il titolo: la botanica degli affetti è la scienza inesatta cara alla protagonista, impegnata a classificare sistematicamente le inclinazioni e i sentimenti altrui.
Photo HelenTambo on Instagram

La vicenda è ambientata ai primi anni dell’Ottocento, nel Regno Lombardo-Veneto, dove la famiglia di don Titta, poeta poco allineato con il regime austriaco, accoglie Bianca, giovane acquarellista, assunta con l’incarico di dipingere il repertorio delle specie botaniche presenti nel parco e nei dintorni della villa di famiglia a Brusuglio. Bianca entra quindi a far parte della famiglia, numerosa e composta non solo da don Titta, sua moglie donna Julie e i loro cinque bambini (o sono sei?), ma anche della madre del poeta, donna Clara, dall’amico Tommaso, anche lui poeta, da Innes, l’istitutore dei bambini e da una miriade di altri personaggi che a vario titolo popolano la grande villa immersa nella brughiera. Tra questi, spiccano Minna e Pia, due servette ancora quasi bambine, dal passato oscuro: delle due, quella che ha una vita densa di segreti è sicuramente la seconda, Pia. Dal poco che Bianca riesce a intuire, il modo in cui Pia viene considerata e trattata in famiglia è ben diverso da quello riservato al resto del personale di servizio: questo è conseguenza del mistero nascosto nelle origini della ragazzina, tolta dal convento di Santa Caterina, dove c’era la ruota a cui si affidavano le sorti dei neonati indesiderati.  Bianca si mette in testa di capire di che si tratta.
Al di là della storia, che andando avanti presumo si farà sempre più interessante, mano a mano che la protagonista procederà con la sua inchiesta e il mistero intorno a Pia si andrà, immagino, sciogliendo (o complicando), è altro che affascina di questo romanzo, già finalista del Premio Campiello 2013. Che Beatrice Masini sia una traduttrice e una editor, forse prima che autrice, si percepisce dalla grande cura che ha per le parole: senza ricorrere a superflui orpelli lessicali, utilizzando una lingua preziosa, ma mai leziosa, e senza andare alla ricerca esasperata di arcaismi inutili, Beatrice Masini scrive in una prosa elegante, contenuta, fortemente evocativa, che non indulge a lirismi. Quando capita un libro così curato, da dove l’amore per la nuda parola si respira pagina dopo pagina, la lettura diventa impegnativa, tendi a vedere le scene, i personaggi, le situazioni e i luoghi con una particolare e intensa attenzione ai dettagli, così come credo voglia l’Autrice per i suoi lettori.
Ho da poco superato la metà del libro, che si divide in due parti più o meno simmetriche e una terza più breve che fa da epilogo, e non credo che lo terminerò molto velocemente; lo sto quasi centellinando, nonostante tratti di un mistero (e quasi per definizione i misteri intrigano e non si fanno mollare facilmente finché non si arriva al finale). Probabilmente avverto un po’ di fatica per la mancanza di suddivisione in capitoli: il racconto si svolge continuo, ogni volta è difficile decidere dove interrompere la lettura, per riprenderla in seguito. Si tratta senza dubbio di una scelta stilistica, mirata a ottenere quale effetto però mi sfugge.
Intanto vi piaccia sapere che questo romanzo merita una lettura, sta a voi decidere il momento giusto: io consiglio di riservare a “Tentativi di botanica degli affetti” qualche domenica uggiosa di quelle che verranno in autunno, più che la stagione estiva che ormai volge al termine. Non è certo, questo, un libro da sotto l’ombrellone.



sabato 23 agosto 2014

Ultima lettura: "La metà di niente" di Catherine Dunne


La metà di niente

Autore: Catherine Dunne
Dati: 2006, 304 p., brossura, 16 ed., ePub con DRM 371,9 KB
Editore: Guanda (collana Narratori della Fenice)

In principio c’è una famiglia.
Non è niente di eccezionale, è una famiglia normalissima,
proprio come la vostra e la mia

Pubblicato in Italia la prima volta da Guanda nel 1998, negli anni questo romanzo è stato più volte proposto all’attenzione del pubblico, anche dalle edizioni TEA, fino alla versione digitale del 2011 e ancora fino al 2014, in edizione economica ancora una volta TEA. Segno che si tratta di un romanzo di successo, che nel tempo ha incontrato i favori di un pubblico, immagino prevalentemente femminile dato il tema, che si è identificato con una storia tanto comune (e per questo sempre attuale) quanto amara. Il dolore della protagonista Rose, casalinga dalla vita metodica e regolare, devota a un marito che da un giorno all’altro la pianta in asso per scappare con un’amica di famiglia, si trasforma in riscatto, in possibilità di affermazione anche sociale.
La fatica di Rose, costretta a reinventarsi e scoprire in sé risorse insospettabili, diventa rivincita ed è inversamente proporzionale alla disfatta di suo marito Ben: quanto lei all’inizio della vicenda è piccola, dimessa, sopraffatta dagli avvenimenti che la colgono del tutto inaspettatamente mentre lei è al colmo della sua vita ordinaria, per poi emergere da quell’esistenza anonima in tutta la sua forza che la fa giganteggiare, tanto lui –all’inizio arrogante e tronfio nella sua nuova esistenza introdotta dal più banale “Rose, dobbiamo parlare”- diventa misero e insignificante nel corso della storia.
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Quello che piace nella storia di Rose e dei suoi tre figli, credo che sia proprio l’idea di speranza e di rivincita: se è vero che dal letame nascono i fior, la vicenda narrata dalla Dunne è esemplare, perché offre la prospettiva del riscatto e del miglioramento, quello che ti fa pensare che se la tua vita è banale e noiosa -ma tutto sommato accettabile soprattutto perché non hai mai pensato che potesse essere diversa- un evento disastroso può essere l’input per il cambiamento.
La storia si svolge a Dublino, il teatro principale è la casa che Rose e Ben hanno diviso con i loro figli Damien, Brian e Lisa, fino a lunedì 3 aprile 1995. Un prologo illustra la vita di questa famiglia anonima, in cui si va avanti per forza di inerzia, come accade a molte altre famiglie sparse nel mondo (per cui l’Irlanda o altrove non fa differenza). Le quattro parti in cui si articola il racconto racchiudono un periodo che va da quella data all’epilogo di sabato 6 aprile 1996, un anno esatto dopo l’abbandono di Ben. Si tratta di una specie di diario, in cui nelle prime due parti si intervallano lunghi flashback, anche questi datati dal giugno 1972 (il primo incontro e l’amore tra i due) al 31 marzo 1995 (la vigilia della catastrofe familiare), che ricostruiscono la quotidianità di Rose, annullata totalmente appresso alle ambizioni del marito e allo stesso tempo impegnata a dimostrare a lui e a se stessa la piena efficienza nell’affrontare le esigenze familiari, casalinghe, e lavorative di lui.
Nel diario, in terza persona, sono scrupolosamente annotati tutti i cambiamenti, gli avvenimenti, i problemi e le soluzioni: trovano spazio i figli, compresi tra i diciassette e i tre anni -il che significa un ventaglio di situazioni disparate-, le amiche di sempre e una suocera solidale. Ma soprattutto trova spazio la consapevolezza che Rose acquista di sé, la coscienza dell’essere stata fino a quel momento non la metà di una coppia, ma la metà di niente, e quindi la determinazione con cui affronta la sua nuova vita, potendo contare su una nuova se stessa.
Una bella iniezione di fiducia nel futuro per tutte le donne che pensano che la vita sia tutta qua e che magari da vent’anni, come è stato per Rose, “hanno un ratto in fondo alla gola”.

sabato 16 agosto 2014

Sul comodino: "Sono l'ultimo a scendere e altre storie credibili" di Giulio Mozzi


Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili)

Autore: Mozzi Giulio
Dati: 2013, ePub con DRM 1,2 MB
Editore: Laurana Editore

«Non posso rispondere», dico.
«Come, prego?», dice Sonia.
«Non posso rispondere», ripeto. «Non mi aspettavo che la domanda fosse questa.»
«La vita pone spesso domande inaspettate», dice Sonia.
«Sono d’accordo», dico. «Potrei ripartire dalla domanda precedente?»
«Nella vita non si torna mai indietro», dice Sonia.
«Ho capito», dico. «Ma questo è un questionario».
«I questionari fanno parte della vita», dice Sonia,
 «e pertanto sono soggetti alle stesse leggi che determinano la vita.»

Mettiamola così: c’è un omino (in realtà non so se è un omino) che vive a Padova, non ha la patente e si muove esclusivamente a piedi o con i mezzi pubblici. Precisamente quasi ogni giorno prende il treno per andare a Milano, dove lavora, o comunque per andare ovunque il suo lavoro lo porti. Nella vita per l’appunto fa un lavoro non facile da spiegare, anzi non facile da capire. Cioè, non è che fa l’autista di tram, che di sicuro guida i tram, o il capotreno, che io non so bene cosa faccia ma è un problema solo mio, perché sicuramente ha delle mansioni ben precise, che però io non conosco (lo dice la parola stessa ‘capotreno’: non può che fare cose precise). Infatti, fa il consulente esterno per una casa editrice, il lettore di professione, e fa anche lo scrittore.
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Sarà forse per questo che gli capitano incontri bizzarri, intendo dire che la sua capacità di osservazione e di narrazione di ciò che quotidianamente gli accade, fa assumere alla sua vita -e a quella delle persone che incrocia- un’aura di stravaganza che fa sembrare surreale anche ciò che è ordinario. Quindi sembra che capitino a lui in particolare degli incontri bizzarri; invece forse ne facciamo tutti, solo che normalmente noi comuni mortali -non dotati di grandi capacità di riflessione e probabilmente con scarsa attitudine a cogliere il comico nell’ordinario- ci arrabbiamo, invece di sorridere stralunati.
Diligentemente l’omino, che risponde al nome di Giulio Mozzi, ha annotato per anni ciò che gli succedeva, prevalentemente in treno o a casa mentre lavorava, gli incontri e i dialoghi, e per un po’ ha fatto viaggiare in rete questi piccoli racconti; continuo a pensarlo così, l’omino, una specie di Marcovaldo dei nostri giorni, anche se non fa il magazziniere, ma del personaggio di Calvino mantiene lo stesso sguardo ingenuo e stupito, anche se qui è quasi una forma di cinismo a essere travestita da ingenuità, come si evince soprattutto dai dialoghi, con il risultato di una comicità apparentemente involontaria.
Anche gli episodi più comuni, trasferiti su carta e riportati nei più banali particolari, nelle parole dei dialoghi scrupolosamente riportate, fanno pensare a te, lettore, che la gente è pazza. Non Giulio Mozzi, la gente. Anzi, laggente.
Seriamente: dopo aver viaggiato per il web in forma di diario tenuto tra il
2003 e il 2008, una selezione di questi racconti è stata successivamente raccolta e pubblicata nel 2009 da Mondadori. Questa che sto leggendo è l'edizione di Laurana Editore del 2013 (nuova edizione con dieci capitoli inediti e con un rendiconto dell'accoglienza critica in appendice), dopo che la giacenza dell’edizione Mondadori del 2009, dal 1° giugno 2012 è stata mandata al macero, una volta tolta dal catalogo. Da qui, l'interessamento di Laurana e la ripubblicazione, solo in edizione digitale. In realtà il libro edito da Mondadori si trova ancora su IBS nella sezione outlet con il 50% di sconto (ma non era andata al macero?). Oggi è acquistabile solo su BookRepublic anche da qui.
Sono brevi scorci di vita, in cui prevalgono le descrizioni minuziose delle persone che li attraversano (volti, abbigliamento, atteggiamenti) e i dialoghi fatti di ostinate reiterazioni di difetti di comunicazione, dovuti a incomprensione: le persone si parlano ma non si comprendono, perché vanno oltre le parole, emettono intenzioni più che enunciati e se dall’altra parte c’è chi, come il nostro omino Giulio Mozzi, si limita a decodificare il messaggio e a rispondere adeguatamente, si generano gli equivoci più assurdi che si concludono sempre con la rinuncia da parte di quello che si sente incompreso, mentre in realtà non si è spiegato. Abbandoni di campo che alla fine fanno riflettere proprio su questo, su quanto sia difficile dirsi le cose più semplici, troppo abituati a complicare anche il pane.
Sul piano dello stile, ho notato un piccolo vezzo morfosintattico, almeno io lo considero una pratica vezzosa: l’accordo del participio passato con l’oggetto in sintagmi ricorrenti del tipo “ho detta una cosa”, “ho cercata la compagnia”. Come sostiene Gerhard Rohlfs[1], in origine, secondo il modello DOMUS CONSTRUCTAM HABEO (ho costruito una casa/ho una casa costruita), il participio si accordava con il relativo oggetto, così anche nell’italiano antico (come attestato nel Novellino «a rifiutata la nobile cittade», in Dante e in Boccaccio) e successivamente in scrittori moderni che si sono mantenuti in parte fedeli a questa regola. La carta 1145 dell’AIS[2] “hai venduto le uova” mostra la prevalenza di venduto nella Toscana meridionale e vendute a Pisa e nella provincia di Firenze.
Con il passare del tempo però il participio si è come fossilizzato e, perdendosi la coscienza del significato originario, l’accordo del participio non fu più strettamente osservato, come rileva anche Luca Serianni[3], che riporta esempi da Pirandello, Deledda, Carlo Levi, Tomasi di Lampedusa e afferma che se anche “l’uso più tradizionale sembra essere stato quello di accordare il participio con il complemento oggetto”, la tendenza attuale è quella di lasciare inalterato il participio, sia pure con attestazioni diffuse di casi di accordo (eccezioni che confermano la norma derivata dall’uso).
Mozzi è un virtuoso del participio. Mi piace, anche se non lo emulerei mai, non adusa a preziosismi sintattici.
Per tornare ai contenuti: leggete “Sono l’ultimo a scendere”, salite sui treni con Giulio Mozzi, sperando di non incontrare l’uomo dal culo enorme, cercate di sedervi ai posti che avrete prenotato e che troverete spesso occupati, ascoltate le sue telefonate e i discorsi che lui fa con laggente. Non sono surreali, sono iperrealistici. Il sorriso non vi abbandonerà un momento.

«Vada in libreria», dico. «Se lei è un poeta emiliano vada a Bologna, a Modena, in una libreria Feltrinelli. Guardi lo scaffale di poesia, veda che case editrici ci sono».
«Lei dice?», sussurra la voce, ora più incerta.
«Dico, dico», dico. «Lei va spesso in libreria?»
«No», sussurra la voce.
«Lei legge molto?», dico.
«No», sussurra la voce. «Io scrivo, non leggo».
«Quindi lei non legge gli altri poeti italiani», dico.
«In che senso?», sussurra la voce.
«Lei ha letto Zanzotto?», dico.
«No», sussurra la voce.
«E Caproni?», dico.
«No», sussurra la voce.
«E Giudici, Luzi, D’Elia, Riccardi, Dal Bianco, Rondoni, Albinati, li ha letti?», dico.
«Mai sentiti nominare», sussurra la voce.
«Bene», dico. E poi sto zitto.
Sta zitto anche lui.
«Lei dice che dovrei leggerli?», sussurra la voce.
«No», dico. «Dico che se lei non si degna di leggere, non vedo perché qualcuno dovrebbe leggere lei».


[1] G. Rohlfs, Grammatica storia dell’italiano e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino 1969, vol III, §725
[2] K. Jaberg-J.Jud, Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, ediz. italiana a c di G. Sanga, Unicopli, Milano 1987 (ediz originale Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 1928-1940)
[3] L. Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, UTET, Torino 1989, XI, §367