sabato 31 dicembre 2016

"Rituali" di Daniele Bergesio

 
Photo Daniele Bergesio

Aveva un suo rituale, che ripeteva deciso ogni 31 dicembre. Si alzava con comodo, diciamo intorno alle otto e mezza nove, abbandonando al suo destino la sveglia in un’altra stanza. Si trascinava in bagno per una doccia tiepida, alla temperatura necessaria per rientrare definitivamente in sé senza restarne troppo scioccato. Colazione con pane e miele, caffè e una spremuta: pompelmo, piccola concessione all’ultimo giorno dell’anno. 
Aveva un suo rituale, ogni 31 dicembre. Con la pancia piena e i nervi saldi, occhiali da sole inforcati con imbarazzo, in mattinata affrontava il supermercato. Acquistava sempre le stesse cose: un pacco di tortellini, un barattolo di sugo pronto, due spiedini, patate novelle di quelle surgelate e un panettone senza canditi e senza marca. Se l’umore lo sosteneva, un passaggio nella corsia degli alcolici fruttava una bottiglia di prosecchino; altrimenti, semplice aranciata. Per pranzo, solo un toast – ma preparato con tutti i crismi: pane, formaggio, prosciutto cotto, altro formaggio, pane; doratura leggera, croccante fuori e morbido dentro. 
Aveva un suo rituale, ogni 31 dicembre pomeriggio. Dopo pranzo spegneva il cellulare – non smartphone, accidenti, ma un vecchio 3310 di cui faticava a trovare ancora batterie di ricambio – e la televisione che gli aveva tenuto compagnia mentre mangiava, abbassava le tapparelle a mezz’asta, chiudeva a chiave la porta di casa, metteva la catenella, staccava persino i contatti del citofono. Si sedeva in poltrona, e alla luce di una piantana dalla lampadina giallognola rileggeva Pinocchio da cima a fondo, commuovendosi per Melampo e facendo il tifo per Lucignolo - chissà perché gli stava così simpatico.
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre: giunta ora di cena accendeva il forno e metteva la pentola sul fornello, salando prima l’acqua – tanto sono sciocchezze, bolle nello stesso tempo! – e versandosi un bicchiere. Infornava spiedini e patate, buttava i suoi ottanta grammi di pasta mettendo il timer (sì, non si fa, la pasta va assaggiata e bla bla bla: viene buona comunque, davvero) e la scolava sull’attenti al perentorio DRIN che detestava, ma quel segnatempo lo comandava a bacchetta da ventidue anni: come poteva anche solo immaginare di sostituirlo? Aggiungeva il ragù, niente formaggio, e impiegava giusto il tempo per finire il piatto che il secondo in forno era bell’e pronto: in tanti anni di ripetizione del rito, ormai aveva una tempistica della masticazione che verrebbe da definire “ad orologeria”. Completava la cena, tagliava una fetta di panettone osservando le bollicine che correvano su per il calice del prosecchino e sì, la sua magica serata di Capodanno si concludeva così: con la tavola da sparecchiare e l’ultimo capitolo di Pinocchio da finire sotto le coperte. 
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre, e non c’erano botti o conti alla rovescia che lo facessero desistere dal metterlo in pratica meticolosamente: non bastava una stupida convenzione a convincerlo che valesse la pena accodarsi alla massa. E poi per cosa, per accogliere altri 365 giorni uguali a quelli appena trascorsi? Tutta quella gente lì fuori non capiva la bellezza di una routine consolidata, vissuta nella propria tana a propria misura – un appartamento simile a un guanto, una giacca, un cuscino modellato secondo le proprie curve del collo. 
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre. 
Finché quel 31 dicembre, alle 19.13, giusto quando stava riempiendo d’acqua la pentola, una nuova vicina bussò guardinga alla sua porta per una tazza di sale. “Mi perdoni”, disse mentre lui la osservava nervoso dallo spioncino, “non lo farei mai, ma altrimenti i tortellini mi vengono insipidi”. Sul maglione, un gigantesco Pinocchio sembrava osservarlo con altrettanto fastidio. Quel 31 dicembre, alle 19.13, tolse la catenella e, con cautela, aprì. 

©Daniele Bergesio

Soundtrack: Simon & Garfunkel, "I am a rock"

giovedì 29 dicembre 2016

2016: le letture di ExLibris

[…] Tuttavia, tuttavia, non riesco a togliermi dalla testa l’idea 
che la compagnia dei nostri autori preferiti ci renda più frequentabili a noi stessi, 
 più capaci di salvaguardare la nostra libertà di essere, 
di tenere a bada il nostro desiderio di avere 
e di consolarci della nostra solitudine 
(Daniel Pennac, “Una lezione d’ignoranza”, astoria/assaggi) 

Scorro come ogni fine d’anno l’elenco dei libri letti e cerco di fare un bilancio dei grandi entusiasmi e di qualche delusione di cui ho preferito non parlare qui per una precisa scelta, determinata dalla constatazione che esistono scrittori molto suscettibili che non sempre accettano di buon grado la critica negativa, certamente argomentata e circostanziata, ma pur sempre garbatamente negativa, per cui lascio volentieri il compito della stroncatura inappellabile ad altri che hanno più pelo sullo stomaco di me (e ce ne sono): il mio non è un blog buonista, è un blog dove ho deciso da un po’ di tempo di scrivere solo di quello che mi è piaciuto e al massimo fare brevissimi accenni a qualcosa non all’altezza delle mie aspettative. 
D’altra parte molti sono i libri letti di cui non ho avuto modo di scrivere, un po’ per mancanza di tempo e anche di voglia; Io e Pepe (e libri e altro) ha conosciuto un’estate svogliata, in cui ho meditato seriamente di chiudere baracca e burattini, per poi riprendere con rinvigorito entusiasmo in autunno, quando si avvicinava il quarto compleanno del blog. 
Così la rassegna è presto fatta: 
• il 2016 è stato l’anno di Piergiorgio Pulixi, Kent Haruf, ai quali ho dedicato specifici post, e Marcel Proust, del quale ho letto i primi tre monumentali volumi della Recherche, grazie ad un gruppo di lettura organizzato da Klára Slivovice, costola di quello degli Scratchreaders; 
• è stato l’anno di #LeggoNobel, progetto ideato e portato avanti con Valentina Accardi di “La biblioteca di Babele”, grazie al quale abbiamo già letto otto Nobel (Rudyard Kipling, Alice Munro, Elias Canetti, Albert Camus, Yasunari Kawabata, William Faulkner, Imre Kertész, Selma Lagerlöf), registrando un buon seguito nel gruppo di lettura su Facebook; 
• è stato ancora l’anno di libri letti con TwLetteratura, in particolare “Maus” di Art Spiegelman, “Caro Michele” di Natalia Ginzburg, “Storie di cronopios e di famas” di Julio Cortázar, “Il cammino della Comunità” di Adriano Olivetti, “La tregua” di Primo Levi, mentre è ancora in corso la lettura di “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello
• è stato l’anno in cui ho scoperto casualmente Eleonora Albanese e il suo “Per te. Con tutto l’amore che non mi hai detto”, un delizioso libro autopubblicato con ilmiolibro, che meriterebbe attenzione da parte di qualche editore che abbia buon fiuto per i talenti veri. Si tratta della storia di Carina e del suo cuore diviso tra Compagno, suo amore tranquillo e irrinunciabile, e l'amico di sempre, Rospo, che dopo un bacio diventa Principe. Una storia d'amore comune e atipica allo stesso tempo, raccontata con garbo e delicatezza, tra sorrisi e riflessioni, come ho avuto modo di scrivere nella mia breve recensione su Goodreads; 
• è stato l’anno dei libri ripresi (“Che tu sia per me il coltello” di David Grossman), ritrovati (“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati), riletti (i già citati Ginzburg, Levi e Pirandello), abbandonati (“Autodafé” di Canetti e “Rayuela” di Julio Cortazár, quest’ultimo solo perché lo stesso autore dice che arrivati al cap. 56, non è necessario leggere il resto del libro); 
• è stato l’anno delle grandi case editrici e di piccole realtà molto stimolanti come Aliberti compagnia editoriale, Fernandel, Caracò, Astoria, solo per fare qualche nome; 
• il 2016 è stato l'anno in cui io e Pepe siamo andati in trasferta: abbiamo letto "La vita che si ama. Storie di felicità" di Roberto Vecchioni, inaugurando con lostruzzoascuola.it (settore scuola del sito Einaudi) una collaborazione che spero duri a lungo;
• è stato l’anno dei miei ospiti, scrittori di passaggio che mi hanno regalato i loro brevi racconti inediti. Li trovate tutti qui e restate connessi, ché il 31 ne arriva un altro (sorpresa di fine anno!).
Photo Elena Tamborrino
 Il 2016 è stato anche l’anno di uno dei libri a mio parere meno compresi che siano mai stati pubblicati e che però io ho trovato stupefacente. Si tratta di “La femmina nuda” di Elena Stancanelli, edito da La nave di Teseo, bistrattato dalla giuria del Premio Strega, criticato ferocemente dal pubblico, amato tuttavia da qualcuno che è riuscito ad andare oltre l’apparenza di una scrittura scarna, essenziale, disperata ed esplicita. 
Letto in un fiato, mi ha colpito l'analisi introspettiva di un dolore totalizzante, capace di far perdere lucidità e dignità. Scritto bene, scivola veloce. E ho compreso il motivo per cui Francesco Piccolo lo ha candidato allo Strega: un comune senso del narrare la quotidianità più intima, in un momento particolare della vita. Piccolo lo ha fatto ne "La separazione del maschio", la Stancanelli con la storia di Anna e della sua disperazione compulsiva. 
Raramente mi è capitato di leggere pareri così contrastanti su un libro: chi lo condanna e chi lo esalta, non esiste una via di mezzo. A me è piaciuto tanto, altri lo hanno trovato bruttissimo e non so darmene una spiegazione, non posso pensare che sia per le scene di sesso esplicito, perché secondo me erano necessarie e se uno ha un minimo di esperienza di letteratura erotica, capisce perfettamente che questo libro non rientra in quel genere, anzi. Non bastano le descrizioni minuziose di un organo riproduttivo o di atti di autoerotismo per ridurre un libro solo a quello. Qui invece, ciò che è importante è tutto l'intorno a quelle descrizioni: una disperazione così cupa e profonda che si alimenta attraverso i moderni mezzi di comunicazione, fino a diventare quasi patologia. Questo è importante, Anna e i suoi pensieri sono importanti, il suo corpo che si annulla fino a essere inconsistente. 
Capisco che a mia madre, signora di altra generazione, non sia piaciuto, al di là le scene di sesso che da sole erano già sufficienti per farle storcere il naso: lei non può comprendere le nuove dinamiche comunicative, i discorsi di profili virtuali violati, di cellulari compulsivamente spiati (e relativi sistemi per), manie persecutorie immaginate, amori disperanti. Certo le scene di sesso sono forti, non c'è che dire. Ma io sono stata colpita da altro. E altro vorrei che vedessero i lettori di questo libro, la cui immagine di copertina non a caso ho scelto per questo post di bilancio di fine anno. 
Non mi resta che consigliarvi di spulciare il mio elenco di letture per trovare ispirazione, auguravi buone letture e a me un 2017 a tutto blog, che significa soprattutto nuove letture. 
Photo Elena Tamborrino

sabato 24 dicembre 2016

Letture di questo Natale

“Vedete, devo dire che c’è una tradizione a Mårbacka, 
che quando si va a dormire la Vigilia di Natale 
si ha il permesso di avvicinare un tavolino al letto, 
metterci sopra una candela e poi leggere finché si vuole. 
Questa è la più grande di tutte le gioie di Natale. 
Non c’è niente di più bello che starsene lì sdraiati con un bel libro avuto in regalo, 
un libro nuovo che non si è ancora mai visto e che nessun altro in casa conosce, 
e sapere che si può leggere pagina dopo pagina finché si riesce a stare svegli. 
Ma cosa si fa la notte di Natale, se non si sono ricevuti libri?” 

Il passo che avete appena letto è tratto da “Il libro di Natale” di Selma Lagerlöf, uno dei libri che mi ha accompagnato in questo dicembre. Quest’anno il caso, un po’ guidato grazie anche alla complicità delle mie amiche Valentina Accardi, Erika Pucci e Maddalena Santacroce, ha voluto che con i progetti #LeggoNobel#CarolTw, la preparazione al Natale avvenisse sotto l’insegna dei grandi classici: non solo il libro del Nobel per la Letteratura del 1909 sopra citato, ma anche il classico più classico di tutti, cioè “Canto di Natale” di Charles Dickens, ai quali ho aggiunto “Biglietti di Natale” di Hans Christian Andersen, una raccolta di tredici racconti, tra cui le celebri “Scarpette rosse” e “La piccola fiammiferaia”, in una pregevole edizione Mattioli 1885. Immergersi nell’atmosfera del Natale con lo stato d’animo il meglio predisposto possibile era il mio obiettivo di quest’anno e credo di esserci riuscita, anche se non tutti i libri letti hanno soddisfatto le aspettative, probabilmente perché non esclusivamente centrati sul Natale. 
Ad esempio del volumetto di Andersen più che i racconti ho trovato particolarmente gustosa l’introduzione dei curatori, Livio Crescenzi e Silvia Zamagni, in cui si descrive il rapporto di cordialità che legò lo scrittore danese a Charles Dickens negli anni in cui Andersen frequentava l’Inghilterra, dove intratteneva rapporti non sempre sereni con l’editoria inglese, nonostante l’accoglienza trionfale che il pubblico riservava puntualmente alle sue opere. Dello scrittore si descrive il carattere infantile e presuntuoso, e l’attrazione che provava verso l’affascinante Dickens, testimoniata dalle lettere che gli destinava. 
Allo stesso modo è interessante il contributo che chiude il volume, “Ai piccoli lettori” di Charles Boner, scrittore di viaggio inglese che tradusse gran parte delle opere di Andersen: vi si racconta delle circostanze in cui nacquero alcuni dei racconti della raccolta, alcuni aneddoti biografici su Andersen e sulla sua grande capacità di inventare storie a partire da qualunque cosa e di avere uno straordinario talento nel raccontarle a voce. 
“Il libro di Natale” di Selma Lagerlöf è la scelta che Valentina Accardi ed io abbiamo fatto per #LeggoNobel: al Natale spesso, nell’immaginario collettivo, si associano paesaggi nordici e sono quelli in cui la scrittrice svedese fa calare i suoi lettori, piccoli e grandi. Le nostalgie dell’infanzia passata, le storie narrate dagli adulti, le leggende e le fiabe contribuiscono a rendere l’atmosfera natalizia carica di attese e desideri e favoriscono la riflessione sui valori della gentilezza e della generosità. 
Non mancano alcuni aspetti inquietanti, tanto per non smentire la convinzione che anche dietro le storie più innocenti si celano piccole crudeltà, che la bontà degli eroi positivi sconfigge sempre. 
“Canto di Natale” è stata la lettura che con TwLetteratura abbiamo commentato su Twitter e Betwyll, con un’ottima risposta da parte degli utenti che hanno accolto con grande favore la proposta di questo grande classico immortale, letto e riletto, riscritto al cinema e variamente interpretato. 
Ho riletto l’edizione speciale del Corriere della Sera, uscita nel 2002 nella collana “I grandi romanzi” e ho apprezzato la presentazione che ne fa Alessio Altichieri, parlando di libro “miracoloso” secondo la definizione che già fu del critico inglese Charles Percy Snow. Dickens è l’uomo che ha inventato il Natale, che ha reso magica e un po’ misteriosa l’essenza della festa, concentrata negli affetti familiari e nel calore delle case, anche quelle più povere, perché dove c’è amore regna l’armonia e basta stringersi un po’ per sentirsi migliori. 


Il libro di Natale 
Autore: Selma Lagerlöf 
Traduz: Maria Cristina Lombardi 
Dati: 2014, 128 p., brossura; 
Editore: Iperborea; 
Prezzo: € 12,50 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle 
Biglietti di Natale 
Autore: Hans Christian Andersen 
Traduz: Livio Crescenzi e Silvia Zamagni 
Dati: 2016, 153 p., brossura; 
Editore: Mattioli 1885; 
Prezzo: € 8,90 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle 
Canto di Natale 
Autore: Charles Dickens 
Traduz: Maria Luisa Fehr 
Dati: 2002, 139 p., rilegato; 
Editore: RCS Editori, ediz speciale per il Corriere della Sera, collana I grandi romanzi; 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle 
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venerdì 16 dicembre 2016

"Per troppa luce" di Livio Romano

«Ti prometto che non bruceremo tutto per troppa luce, 
che questo fuoco non arderà come un falò di sterpi» 
e la cosa, invece di farla ridere come avrebbe dovuto, 
le fa salir su un altro grumo di pianto, 
ne è seccata, si libera dalla morsa, 
affonda la testa nella pelliccia interna dell’eskimo 
che Antonio tiene aperto. 

Livio Romano è uno scardinatore, un sovversivo della lingua: cercare di “spiegarne” la scrittura è difficile, perché è un po’ come voler prendere l’acqua in mano, non è possibile, non ci sta. 
Livio Romano è uno che lo leggi e ti risucchia in un vortice di parole legate spesso per asindeto, senza congiunzioni e a volte anche senza virgole, ché occupano spazio e quando i pensieri vanno rapidi, le parole devono seguirli senza inciampi, veloci come bere un bicchiere d’acqua quando fuori fa caldo e ti senti la bocca secca. Lo fa in alcuni passi di questo romanzo sorprendente, se non si conosce la scrittura di Romano, invece perfettamente in linea con uno stile personalissimo e inconfondibile, che a tratti fa pensare alla scrittura di Gaetano Cappelli –penso in particolare a “Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” e a “Volare basso” (entrambi titoli Marsilio)-, ma che acquista la sua individualità nel momento in cui la narrazione è calata nel contesto salentino, dove l’Autore ha ambientato anche altri suoi romanzi, come “Mistandivò”, edito da Einaudi, “Porto di mare” (Sironi), “Niente da ridere” (Marsilio) e “Il mare perché corre”, anche questo edito da Fernandel. Se insomma un tratto dobbiamo trovare in comune con lo scrittore lucano, questo va ricercato sicuramente nel tono dissacratore e umoristico, fino al sarcasmo, di alcune pagine. 
Dove, quindi, Livio Romano riversa questa verve singolare, in che contesto, a quali personaggi regala un profilo, che storia racconta? 
La trama, in breve: Antonio Congedo e Simona Marris, lui ispettore del lavoro e lei avvocata, si incontrano e danno inizio a una relazione che, tra alti e bassi, li vede anche coinvolti nella battaglia civile contro il progetto per la realizzazione di un parco tematico nella regione salentina dell’Arneo. Il parco -la ricostruzione di un’antica città messapica, interamente finanziata con fondi pubblici- è idea ingegnosa di un docente universitario, il Prof. Caraccio, del proprietario di una web tv, Vittorio Nardelli, di un medico dell’ASL, il dott. Amari, i quali hanno ingaggiato l’architetto portoghese Francis Arrangiau per la sua realizzazione. 
L’esecuzione del progetto, devastante per il territorio ma redditizia assai per il terzetto truffaldino, prevede come primo intervento l’abbattimento di una masseria in cui alloggiano centinaia di lavoratori agricoli immigrati, sfruttati dai “caporali” nelle campagne limitrofe. Da qui si muove l’attività di Simona che diventerà, probabilmente suo malgrado, protagonista della lotta contro l’ingiustizia nei confronti del territorio e degli immigrati e che troverà in Antonio un alleato prezioso. Quanto prezioso, si vedrà alla fine della storia, che ha un risvolto giallo. 
Su questa struttura narrativa, sale un carosello di personaggi irresistibili, alcuni dei quali grotteschi fino alla caricatura. Spiccano tra tutti le figure di Simona e Antonio, protagonisti di una storia d’amore potente e tormentata dalle profonde diversità caratteriali dei due -lei passionale, iperattiva, vulcanica, sexy, lui più posato e riflessivo, eppure complementari (nel dormire, “masso di sonno e carne pesanti lui, elastica seppia aderente lei, filiforme eppure vigorosa”)-. Sorpresi da fatale attrazione reciproca, partita da un’iniziale antipatia, si prendono e si lasciano, concedendosi -negli intervalli- improbabili relazioni sessuali che alimentano gelosie e rimpianti: tra loro, anche nei momenti di distacco, resistono stima e amore. 
Più difficile è parlare degli altri personaggi che animano questa commedia tragicomica, dove troviamo insieme temi sociali e vizi privati, dinamiche familiari complesse e sistemi affaristici disdicevoli: molto caratterizzati, richiedono di essere accolti dal lettore e ascoltati, compresi. 
I temi affrontati sono di stretta attualità, tanto da far apparire Romano quasi preveggente: la fine della scrittura del romanzo risale al 2013, quando ancora non si poteva immaginare la svolta mediatica che avrebbe visto solo quest’anno la nostra regione in primo piano, per le iniziative imprenditoriali che probabilmente trasformeranno parte della costa adriatica in un grande villaggio turistico di lusso, “’na cosa che la gente deve rimanere di stucco”, come dice il dottor Amari al Nardelli, descrivendogli il progetto del parco messapico. 
Troviamo ancora il tema dell’immigrazione e dello sfruttamento degli irregolari africani da parte dei piccoli imprenditori terrieri in tutto il meridione, sappiamo bene –perché ce lo racconta la cronaca- in quali condizioni e spesso con quali conseguenze. 
Sullo sfondo, la profonda riflessione sul futuro di questa terra, dai giovani trentenni “che o se ne vanno a Copenaghen oppure restano qua”, ad accontentarsi di ciò che trovano da fare e soprattutto a casa con i genitori, fino alla convinzione che il turismo sia la sola risorsa possibile, da sfruttare senza criterio, pensando solo all’immediato guadagno economico. 
Leggere questo romanzo è stato come salire sulla giostra, nota come "calcinculo", i seggiolini volanti che tra l'altro sono in copertina. E non poteva esserci immagine più calzante per una narrazione mozzafiato, sia per la storia in cui si intrecciano amore, sesso, corruzione, territorio, sia per lo stile ironico e dissacrante, sia per la lingua, che Romano piega a suo piacimento, mescolando preziosismi lessicali a dialetto e gergo, con risultati ibridi decisamente originali. 
 
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Per troppa luce 
Autore: Livio Romano 
Dati: 2016, 269 p., brossura; 
Editore: Fernandel; 
 Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

giovedì 8 dicembre 2016

"Salento" di Lucio Causo

 
Photo Mauro Minutello

Si era nel pieno dell’estate e l’assenza di impegni scolastici ci lasciava completamente liberi del nostro tempo. Ed ora era la caccia delle lucertole lungo i muri a secco delle campagne, ora la puntata fino al mare di Mancaversa per un bagno collettivo, ora qualche altro passatempo: ogni volta qualcosa veniva fuori. Quella sera, mentre il bar della piazza spegneva la sua vecchia insegna, decidemmo che l’indomani saremmo andati verso la strada ferrata per Gallipoli
Lo stormire degli ulivi era per noi la musica più dolce, quella musica che ci aveva accompagnati fin dalla nascita, per i giorni, i mesi e gli anni della nostra vita. Risentirla lungo la ferrovia era ancora più dolce, aveva un che di magico, era come il suono che accompagnava il nostro sogno di partenze, di viaggi verso l’ignoto, un ignoto che per noi però aveva sempre un cielo: quel nostro, azzurrissimo cielo del Salento, steso su quello stormire soave, atavico di fronde d’ulivi. 
Il sole saliva e si faceva sempre più caldo, e più calde faceva le sbarre delle rotaie dei binari, la cui superficie luccicava secondo il nostro saltellare sulle traversine. Poi mettevamo l’orecchio aderente alla calda rotaia, si cercava di captare il rumore del treno che si avvicinava. Chi per primo l’avvertiva esplodeva in un grido vittorioso e allora cominciava per tutti l’attesa del nero mostro fumante, attesa tanto più colma d’ansia e quasi di paura quanto meno si riusciva a prevedere da dove sarebbe apparso. E poi eccolo! E allora tutti giù per la scarpata brecciosa per vedere il treno passare veloce fischiando. Poi si sciamava pei vasti uliveti e si gridavano i nostri nomi che duravano a lungo nell’aria, procurandoci una strana paura, di essere esposti chissà a quale oscura punizione. 
Spesso si camminava così fino al tramonto, quando si sostava presso lo stagno e s’osservavano i verdi ranocchi saltare dai galleggianti sterpi limacciosi sugli umidi sassi a riva e viceversa, e noi li stuzzicavamo per sentirne il roco gracidio. Dallo stradone giungeva il rullare dei carri, i traini, che rientravano al paese e allora anche noi tornavamo verso le basse case bianche del paese che il crepuscolo già avvolgeva del suo tenero blu opaco. 
D’inverno si stava più rinchiusi in casa, ma ugualmente s’usciva il pomeriggio, con le labbra livide, le mani intirizzite, paralizzate quasi dal freddo, che non si riusciva neanche ad avviare la trottolina di legno. Per la campagna, squallida, spoglia, dai neri alberi senza vita, non si andava più, se non per raggiungere una casupola abbandonata, caseddhu, dove ci si raccoglieva quando fuori pioveva.
Allora, dopo avere acceso un focherello scoppiettante, si raccontavano storie di santi e di banditi, di buffoni e d’eroi. Quando l’ombra calava si tornava alle case, come gli uccelli al nido. 

Febbraio portava i primi avvisi della primavera. S’aprivano sugli alberi le prime gemme, la campagna intorno al paese si chiazzava via via di pallidi rosa. 
In aprile, poi, l’aria fattasi più dolce galleggiava su onde di limpido verde nei campi di grano e noi riprendevamo a sedere, la sera, sui gradini della chiesa, fino a che l’Angelus non spargeva i suoi rintocchi d’argento sulle basse case bianche del paese.
©Lucio Causo

Soundtrack: Ben E. King, "Stand by me"

sabato 3 dicembre 2016

"Fidati di me, fratello (una storia vera)" di Alessio Viola

Un consiglio di famiglia è sempre una cosa importante. 
Per questo motivo si tiene a tavola, 
non ci sono posti migliori, 
soprattutto la domenica all’ora di pranzo. 

Vitino Sciannameo prende le redini della propria famiglia dopo che il padre è stato ucciso per uno sgarro consumato ai danni della Camorra. Il clan barese, a cui Sciannameo padre era affiliato, nella persona del boss Nicola Degiosa offre aiuto e protezione a Vitino, che non può pensare alla vendetta (ché la malavita segue un codice in cui l’errore si paga sempre, al di là degli schieramenti e delle rivalità) ma che può ereditare un ruolo all’interno dell’organizzazione. 
E Vitino è bravissimo: uomo di poche parole, si fa carico di un compito che non si aspettava di dover onorare così giovane, comprende che la fermezza e il cinismo saranno sue compagne di vita, che l’onore ha un prezzo e che i soldi muovono tutto. Vent’anni dopo il funerale del padre, Vitino e la famiglia si ritrovano nella stessa chiesa, per un altro funerale. 
È così che parte il lungo flashback che ricostruisce l’escalation feroce di Vitino, che non esita a utilizzare Franchino, il fratello minore che vive ammirandolo sconfinatamente, come “assaggiatore” della droga che acquista e rivende dopo aver organizzato una specie di supermarket della roba, in un quartiere nuovo di periferia, il Sant’Elia, dove è possibile trovare ampi spazi di manovra, sempre con il beneplacito dei vertici dell’organizzazione malavitosa, capeggiata da Degiosa. Nel frattempo anche dal quartiere Libertà, dove vive nel centro di Bari, Vitino si è mosso e nei pressi della stazione, ai margini tra il quartiere Murat, con i suoi negozi scintillanti, e il quartiere Libertà, crocevia della microcriminalità, allestisce una casa di appuntamenti di lusso, dove piazza le sorelle gemelle come tenutarie. Sembra impossibile che in uno spazio così circoscritto possano convivere zone socialmente tanto distanti: il distretto murattiano, salotto della città, centro del commercio e della cultura, e il quartiere Libertà, storicamente degradato, dove l’illegalità dilaga e la vita per i giovani è una scommessa. 
Potrebbe accontentarsi, Vitino, e restare all’ombra del boss, al suo servizio, e invece prova ad allargarsi, tenta la scalata “imprenditoriale”, con Franchino che gli garantisce la qualità dell’eroina acquistata: a lui basta assaggiarla appena, osservarne il colore, annusarla per capire da dove viene e con che cosa è tagliata. E poi spararsela in vena, ché non c’è prova più provata dello sballo, anche se i rischi ci sono, ma tanto li corre solo lui, il più debole, il più esposto. 
Il romanzo ha un andamento sdoppiato, da una parte il successo di Vitino, sempre più sicuro, sempre più ricco, dall’altra il degrado di Franchino: “Fu un anno intenso, quello dei due fratelli. Il grande si era impegnato a costruire l’impresa, il piccolo a demolire la propria esistenza” (p. 51). Le storie di Vitino e Franchino corrono e si incrociano, perché i due fratelli sono necessari l’uno all’altro, anche se per motivi diversi. 
Fulcro e sfondo delle vicende c’è la famiglia, spesso descritta a tavola, luogo previlegiato in cui consolidare affetti e affari: panzerotti e brasciole sono simboli della tradizione gastronomica barese e non possono mancare nella cucina di mamma Floriana, vedova ancora giovane, piacente e in grado di farsi ascoltare dai figli, nonostante l’autorità del primogenito la tenga in una posizione subordinata in cui può dare pareri, ma alla fine è lui che comanda e che alla famiglia dà “lavoro”. 
I personaggi che Alessio Viola mette in scena sono forti tutti, anche quelli minori, i comprimari che sono necessari per rendere un ambiente, un’atmosfera, uno stile di vita e che sono spalla dei personaggi principali, tra cui bisogna annoverare la città, Bari, così prepotentemente presente, viva, maledetta e meravigliosa insieme, col suo carattere, i suoi odori e i suoi sapori, che te li senti sciogliere in bocca come un crudo di mare appena pescato. 
E proprio il cibo e le descrizioni delle preparazioni gastronomiche tipiche della cultura barese e salentina, sono particolarmente accattivanti; trasudano cultura locale, passione verso la tradizione, attenzione verso il particolare (a cui non è estranea una piccola sbavatura a cui concediamo venia, ma che magari si potrà correggere in una ristampa –i particolari in calce a questo post, nel fuori onda-).
La seconda di copertina saluta il ritorno al noir di Alessio Viola, collocando idealmente la storia di Vitino e Franchino a metà tra Breaking Bad (serie televisiva il cui protagonista, sottopagato insegnante di chimica, malato terminale di cancro, decide di sfruttare le sue competenze di chimico per produrre metamfetamina insieme a un suo ex studente, già inserito in un giro malavitoso) e la tragedia greca, da cui prende il pathos e il senso del dramma familiare. E non si può che riconoscere la correttezza di questa definizione: Alessio Viola attinge, mutatis mutandis, a fatti di cronaca vera, ai quali aggiunge la sua straordinaria capacità di mimesi. E la cronaca, la vita vera, può essere crudele di per sé, basta solo saperla raccontare. 
Ha echi verghiani, questa storia dannata che racconta una scalata sociale, un successo economico, un cambiamento, che si ritorcono contro i protagonisti, colpevoli di aver osato troppo in un mondo che non concede spazi all’imprudenza e alla presunzione. 

Fuori onda: 
«Alessio… vedi che le municeddhe non sono lumache di mare...» 
«Ho scritto di mare? Lo so bene che sono di terra...» 
«Yes, di mare si dice nel menù leccese… e ho avuto un piccolo sobbalzo. Mi pareva strano.» 
«Ommadò»
(piccolo dialogo in chat: a true story anche questa) 

 
 
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Fidati di me, fratello (una storia vera) 
Autore: Alessio Viola 
Dati: 2016, 155 p., brossura; 
Editore: Aliberti compagnia editoriale (collana The Outlaws); 
Prezzo: € 15,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle