venerdì 28 aprile 2017

"Nascosti davanti a tutti" di Fabrizio Manzetti

Non avrebbe mai pensato che avere dei figli 
avesse potuto significare imparare più di quanto fosse necessario insegnare, 
e da lui e Michele aveva imparato a non cercare la pace, 
ma crearla con piume, foglie e mani. 

È un bell’esordio questo di Fabrizio Manzetti, scrittore emergente che ci regala sedici bozzetti di vita quotidiana, sedici squarci, vedute su esistenze ordinarie colte in momenti a loro modo speciali, unici.
Nella vita di tutti i giorni le azioni si ripetono, incanalandosi in routine che sembrano distrarre dalle esigenze interiori più nascoste e che presentano, a un certo punto, uno scarto dall'ordinario che conclude piccole storie di microcosmi umani. Eppure siamo tutti davanti a tutti, uguali a tanti, in storie comuni in cui riconoscersi è facile. 
Manzetti esplora i temi più vari dell’esistenza umana, narrando di un incontro fortuito su un treno di pendolari, che si vuol credere combinato dal destino e forse lo è, oppure di un amore che non muore, nonostante tutto, perché non si riesce a far andar via l’altro quando in fondo un equilibrio c’è. Oppure ancora di un gatto che diventa il lasciapassare per una nuova vita, l’unico motivo per ricominciare altrove; e poi del dolore silenzioso di Rieger, colto tipografo successivamente correttore di bozze e scopritore di talenti letterari, poi “invisibile” che vive nel mondo parallelo dei barboni, per caso o per scelta “tutti uguali davanti alla miseria”. 
In “Nascosti davanti a tutti” c’è il dolore muto che non emerge dai gesti quotidiani, ma esplode in un ultimo inaspettato ed eclatante gesto, perché a certe ingiustizie della vita, come è sopravvivere a un figlio, non si fa mai l’abitudine. E senza pensare alle sofferenze più tremende che possono attraversarci la vita, basterà volgere lo sguardo verso la ragazzina che decide di smettere con le lezioni di musica, perché un crack dentro ha spaccato tutto. 
Tra i tanti temi che l’A. indaga, c’è quello della riscoperta dei legami familiari, anche dove si pensa che siano scontati: un genitore anziano e solo, la gestione di un rapporto filiale a distanza che si distrae dalle necessità autentiche che un anziano può avere, prima tra tutte l’amore dei figli, più che l’assistenza nelle piccole pratiche quotidiane curate da una badante; sarà l’imprevisto a rendere la giusta dimensione a tutto e a fare recuperare il battito del cuore che si sintonizza tra una figlia e un padre sofferente, nel racconto “Mi batte il cuore di mio padre” che chiude la raccolta. 
In mezzo, ancora, i ritorni senza gloria a paesi abbandonati nel tempo dei sogni a venire, e i tradimenti lunghi anni, dove alla fine vince la realtà scelta per comodità e per mancanza di coraggio, e ancora quadretti familiari incapsulati in stanche routine –due pensionati, sposati da oltre cinquant’anni, stessa casa da sempre, vita immobile- salvo tardive recriminazioni («Mi hai sempre detto “andrà tutto bene, vedrai”. E dove siamo andati? Rispondimi!» dice lei a lui). 
Sono belli i racconti di Fabrizio Manzetti: vividi, sentiti, raccontati in una prosa piana, senza inutili virtuosismi, eppure con cenni di vera poesia, nelle descrizioni dei gesti e dei sentimenti. In queste sedici immagini ordinarie ci si specchia e ci si consola, riconoscendo il tratto delicato con cui l’Autore si è accostato alla vita qualunque di chiunque di noi. La raccolta partecipa al Premio Augusta: fino al 18 maggio è possibile votarla qui , quindi leggetela e cliccate!


Photo Elena Tamborrino




Nascosti davanti a tutti 
Autore: Fabrizio Manzetti 
Dati: 2016, 118 p., brossura 
Editore: Augh! (collana Frecce) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline

martedì 18 aprile 2017

"Orfani bianchi" di Antonio Manzini

Lame di luce tagliavano le tende di broccato, 
i quadri antichi alle pareti, i tappeti orientali a terra. 
Ebbe timore di camminarci sopra, di sporcarli. 
Si sentiva fuori luogo, un brufolo sulla schiena di Dio. 

Sarà che siamo tutti uguali, ma c’è qualcuno che è più uguale degli altri e qualcun altro che è sempre e comunque tagliato fuori, un’escrescenza fastidiosa, un inciampo nella società. Eppure, nella solitudine e nella povertà, queste persone cercano la forza per andare avanti, accettano lavori spesso umilianti, in attesa del riscatto, sperando di riprendersi la vita, anche se non sarà sfavillante come quella dei più fortunati, dei ricchi. 
A Mirta, giovane moldava trasferita a Roma a pulire prima androni e scale dei condomini e poi a fare da badante in una famiglia che di lei e di quelli come lei ha solo disprezzo, basta un lavoro dignitoso e sicuro che le consenta di mettere da parte un gruzzoletto e andarsi a riprendere Ilie, il suo bambino rimasto al paese con la nonna anziana. Un incidente tragico costringerà la donna a sistemare Ilie in un Internat, un orfanotrofio in Moldavia, in attesa che qualcosa cambi e con la speranza tenuta fervidamente accesa che il ricongiungimento con il figlio possa non tardare. 
Ilie non è orfano, no: ha la sua mamma lontana che manda i soldi e i giocattoli e i libri, e un padre che è sparito nel nulla quando lui è nato, ma deve stare lo stesso nell’orfanotrofio puzzolente di cavolo e disinfettante, insieme agli orfani veri, lui orfano “bianco”, uno di quelli che hanno i genitori troppo poveri per tenerli con sé. 
Messo da parte per ora Rocco Schiavone, Antonio Manzini ci regala un altro personaggio straordinario, Mirta Mitea, forte e disperata, determinata e coraggiosa, una mater dolorosa che ostinatamente è disposta a sopportare una quotidianità umiliante, avendo l’obiettivo di una rinascita possibile. Mirta crede nell’amicizia, nell’amore e nel lavoro e si scontra continuamente con un mondo che invece è cattivo e incomprensibile. 
Manzini racconta una storia molto triste, probabilmente non dissimile da tante altre vissute quotidianamente da donne che dall'est europeo arrivano in Italia in cerca di un lavoro che conceda loro una svolta: una storia di solitudine e di fatica, il cui epilogo arriva improvviso a colpire come un pugno allo stomaco. 
Alla voce della protagonista si contrappone il silenzio del figlio adolescente, rimasto in Moldavia: i silenzi degli adolescenti spesso dicono più delle parole, quello di Ilie sarà un silenzio che squarcerà il cielo instabile e precario, eppure denso di aspettative, di Mirta. 
Anche lontano dal personaggio che gli ha dato il successo, Manzini fornisce una bella prova narrativa che lo svincola dal vicequestore Schiavone, che quasi vive di vita propria. La prosa di Manzini la conosciamo: scorrevole e piana, stringata e ricca di dialoghi, descrittiva come una sceneggiatura che sia prossima a una messa in scena, prende il lettore e non lo abbandona finché le vicende narrate non si sciolgono, in qualunque modo. 

 
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Orfani bianchi 
Autore: Antonio Manzini 
Dati: 2016, 240 p., rilegato 
Editore: Chiarelettere (collana Narrazioni) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 14 aprile 2017

"La vita sconosciuta" di Crocifisso Dentello

Una delle lezioni spaventose che si sperimentano dopo un lutto
è che il dolore non è sempre un grumo nero 
che il tempo riesce a diluire. 

Quel dolore, quel grumo nero, dice Crocifisso Dentello nel suo “La vita sconosciuta”, “può restare intatto e semmai lievitare, occupare sempre più spazio e irrompere improvviso proprio quando ci si illude di averlo tenuto a bada”; è ciò che succede a Ernesto, che si accompagna a uno strazio senza soluzione dopo la morte della moglie Agata: non è solo il dolore per una morte improvvisa, imprevedibile, ma per il protagonista è la pietra tombale sulla sua solitudine, che era tale anche prima della scomparsa della moglie, una donna inaridita dalla fatica e dalla delusione. 
Il romanzo racconta la doppia vita dell’uomo e il suo malcelato equilibrismo tra omosessualità vissuta con famelica frenesia e frustrato legame matrimoniale con Agata: la vicenda, racchiusa in pochi giorni, si sposta su più piani temporali, alla continua ricerca di un passato che possa spiegare le ragioni dell'oggi. 
In quel passato si addensa una passione politica, sfociata per una stagione nei contatti con il terrorismo che aveva infiammato l’Italia degli anni di piombo, quella della lotta armata e delle Brigate Rosse; il periodo dell’impegno politico clandestino è da tempo sepolto nella coscienza di Ernesto, ma non lo era stato in quella di Agata, che in quel credo politico si era spesa totalmente e che per anni aveva alimentato il rancore e la rabbia di non aver visto compiersi la rivoluzione così come tra compagni l’avevano immaginata, desiderata, criminalmente perseguita. 
La divisione e le incomprensioni tra moglie e marito erano passate anche da questo, ma ciononostante Ernesto continua a tenere presente il legame forte con la compagna di una vita, che già da molto prima che lei morisse mal si conciliava con il sesso mercenario consumato dall’uomo nei parchi periferici di Milano e che ancora di più alimenta il senso di colpa, dopo che lei muore. 
Ho letto questo romanzo appena uscito, in un giorno e mezzo, e ne avrei potuto parlare immediatamente, dimostrando di saper stare sul pezzo; le cose non sono andate così, anche per una mia tendenza al non inseguire per forza l’onda mediatica -che pure è lunga e persiste ancora-, tuttavia da quando l’ho chiuso sull’ultima pagina ho sempre rimuginato sulla storia che Dentello narra in questo romanzo duro e spietato, una storia raccontata senza sconti, con un linguaggio crudo e realista, testimonianza di un dolore infinito e senza redenzione. 
Pensavo, tra l’altro, che avrei dovuto scriverne e che sarebbe stato un peccato lasciar passare troppo tempo, com’è successo con il romanzo di Elena Stancanelli, “La femmina nuda”, di cui ho parlato frettolosamente alla fine dell'anno scorso. Non è un caso se associo il romanzo di Dentello a quello di Elena Stancanelli, che a sua volta ho definito vicino a “La separazione del maschio” di Francesco Piccolo, perché entrambi colgono spaccati di vita, narrati nella più confidenziale quotidianità, accomunati dallo stesso senso dell’intendere il sesso, l’amore, il dolore. Quei due romanzi sono in qualche modo fratelli (ricordo che a candidare allo Strega “La femmina nuda” lo scorso anno è stato proprio Piccolo); il romanzo di Dentello si avvicina a loro (“La vita sconosciuta” e il romanzo della Stancanelli sono entrambi editi da La nave di Teseo, il che mi ha fatto pensare a una certa sensibilità dell’editore verso gli argomenti che i due Autori nei loro libri indagano), raccontando un ulteriore aspetto, ancora una sfaccettatura di un modo di vivere le relazioni intime e anche quelle estranee, quelle che ci rendono sconosciuti a noi stessi. 
Per questo motivo, non mi sorprende che l’autore sia incappato in un incidente di percorso, peraltro da lui stesso denunciato dopo che il critico Stefano Gallerani aveva riscontrato una sospetta coincidenza in un brano de “La vita sconosciuta”, fin troppo somigliante –quasi identico- ad uno stralcio de “La separazione del maschio”. Se errore ha fatto Dentello, è stato quello di non annotarsi la fonte di questo brano che tanto lo aveva colpito leggendo il romanzo di Piccolo: il tempo poi ha fatto il suo lavoro, consultando gli appunti di pensieri sparsi, citazioni raccolte, non se n’è ricordata più l’origine e se non se n’è ricordata più l’origine, significa che quel sentire, già scritto e già letto, è identico al suo. Un incidente, sul quale non vale la pena dilungarsi, ma che nemmeno si può far finta che non sia accaduto. 
Piuttosto mi sembra importante rilevare altro: la capacità di spogliare totalmente il personaggio principale della pelle, renderlo così intimamente scoperto e vulnerabile tanto da provocare nel lettore il moto di pietà destinato ai perdenti, o il disprezzo che si riserva ai rinunciatari, agli inetti. 
In ogni caso, qualunque sia il sentimento che si agita nel lettore, l’importante è che un’emozione si manifesti, che una domanda ce la si ponga, che si chiuda il libro con una sensazione, qualunque. Finché un romanzo è capace di smuovere qualcosa dentro chi lo legge (e prima in chi lo scrive), per quel poco che il mio parere può contare -non sono certo un influencer!-, per me è un buon romanzo. 

 
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La vita sconosciuta 
Autore: Crocifisso Dentello 
Dati: 2017, 120 p., brossura 
Editore: La nave di Teseo (collana Oceani) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

sabato 8 aprile 2017

"La più amata" di Teresa Ciabatti

Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e non trovo pace. 
Voglio scoprire perché sono questo tipo di adulto, 
deve esserci un’origine, ricordo, collego. 

Non conoscevo Teresa Ciabatti finché non mi sono imbattuta su un suo pezzo di qualche mese fa su La Lettura, inserto settimanale del Corriere della Sera, in cui raccontava di come qualcuno –non ricordo chi- l’avesse bollata come la peggiore scrittrice italiana (l’episodio è ricordato da Antonio D’Orrico su Sette del 10 marzo 2017). La faccenda mi mise in curiosità, ho cominciato a seguire Teresa Ciabatti su Facebook, dove è molto attiva, e ho iniziato a provare simpatia per la sua ostentata, voluta antipatia –falsa, falsissima, ma bisogna essere un po’ cinici per capirlo-, lontana com’ero dall’immaginare che di lì a poco sarebbe uscito il suo ultimo romanzo, “La più amata”, che poi mi sono affrettata a comprare. Una volta reso pubblico l’elenco dei candidati allo Strega, leggerlo è stato conseguenziale nell’immediato, non sia mai che vada a vincere il Premio più ambito in Italia e poi finisce che non lo leggo perché il gran parlare me ne allontana, com’è successo ad esempio con “La ferocia” di Nicola Lagioia o “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo, comprati e non ancora letti. 
Detto ciò, non è che di questo libro non si stia già tanto parlando: un po’ credo sia marketing –e quindi interviste, articoli, recensioni a tambur battente-, un po’ semplicemente discussioni, specie sui social, perché questo è un romanzo che sta facendo molto polemizzare e che mi sembra stia dividendo l’opinione dei lettori che lo stanno molto apprezzando o, viceversa, lo stanno detestando: insomma non sembrano esserci vie di mezzo. 
Leggo, seguo il dibattito, cerco di capire le ragioni di chi trova questa storia noiosa e inutile, ma non mi muovo dall’opinione che invece me ne sono fatta io, scevra da pregiudizi. 
A me questo libro è piaciuto e un indicatore di gradimento è il tempo che ho impiegato a leggerlo, sicuramente anche perché in fondo si tratta di poco più di duecento pagine, ma soprattutto perché mi incuriosiva sapere in che direzione si andava e dove l’Autrice mi avrebbe alla fine condotto: ci ho messo un giorno e mezzo, da cui sottrarre le ore dedicate al lavoro e al sonno. 
In breve, si tratta della ricostruzione della storia della famiglia che il Professore Lorenzo Ciabatti, primario ospedaliero, costruisce con Francesca, mettendo al mondo due gemelli, Gianni (ma il nome vero non è questo, il fratello di Teresa ha chiesto che venisse cambiato) e appunto Teresa, nella provincia toscana, a Orbetello, dove il professore è una personalità in vista, potente e temuta. 
Il racconto, che parte in medias res, è diviso in tre parti, dedicate ciascuna alle tre figure di riferimento della storia, Lorenzo Ciabatti - “il prescelto”, Teresa Ciabatti - “la più amata”, Francesca Fabiani - “la reietta”, a cui si aggiunge una quarta parte dedicata ai “sopravvissuti”. La narrazione procede in disordine, i piani del tempo si intersecano, dando una visione frammentata dell’insieme che però ha una sua unitarietà, proprio in quel suo andare avanti e indietro sulla linea del tempo. 
Si tratta di uno scritto autobiografico dove quello che conta sono le domande, anche se le risposte non sempre arrivano. E se le risposte non arrivano, a un certo punto non importano più, perché ciò che conta è aver fatto un viaggio a ritroso fino a un tempo felice, rotondo e perfetto, pieno di imperfezioni, spigoli e infelicità soffocate, che gli occhi dei bambini non vedono, ma quelli degli adulti sì. 
Al centro di tutto, nonostante quel tutto parta da lui, non c’è il Professore -massone, potente, tirchio, millantatore anche, non attraente ma capace di affascinare-, ma la piccola Teresa che con il padre ha un rapporto di privilegio: è lei la più amata che si sentirà la meno amata quando lui, dopo che la moglie lo lascia per tornare a Roma da dove era partita, piena di speranze e ambizioni -anche lei medico che abbandona la carriera per la famiglia-, svende quasi tutto il patrimonio immobiliare, compresa la stupenda villa al mare con undici bagni, biancheria in tinta per ogni ambiente e piscina in giardino, quando erano in pochi a potersela permettere. 
Anche i ricchi piangono e parecchio e in particolare lo fa Teresa che si accorge che quei privilegi che le sembravano naturali, dovuti e necessari si possono perdere da un momento all’altro, perché a volte le persone cambiano, si ribellano, si oppongono a ciò che non possono capire, cosa che succede a sua madre Francesca, moglie piegata senza che ne abbia consapevolezza, costretta a rinunciare alla sua affermazione personale, curata dall’inevitabile depressione con un sonno lungo un anno, un anno di oblio in cui non vede crescere i suoi figli. Dalle stelle alle stalle è difficile, ma ciò che è più difficile è guardarsi con gli occhi degli altri, per i quali essere una Ciabatti non significa nulla, fuori da Orbetello. 
Cosa mi è piaciuto di questo romanzo? Intanto lo stile, quel raccontare e raccontare anche a se stessa, l'ammiccare al lettore, il dialogarci quasi, il disordine del ricordo in una sintassi ritmata, e poi lo scopo: ho interpretato questa storia come una catarsi, un’analisi finalizzata a far pace con un passato scomodo e con i suoi protagonisti, un modo per mettersi a nudo, per poter vivere un rapporto migliore con il proprio presente. Non so se questa specie di seduta psicanalitica su carta (cosa ricordi, Teresa? Stenditi sul lettino, parti da dove vuoi, prova a pensare alle cose più lontane che rammenti, parla a ruota libera, non importa se non vai in ordine, basta che tiri fuori tutto) sia servita all’Autrice, non so perché non credo che basti. Penso però che serva ai lettori: non occorre riconoscersi nei protagonisti di una storia, lo si fa anche con le figure di contorno le cui personalità, che si svelano in gesti e parole comuni, dicono molto anche di noi.
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La più amata 
Autore: Teresa Ciabatti 
Dati: 2017, 218 p., brossura 
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri) 
Prezzo: € 18,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

domenica 2 aprile 2017

"Quando Teresa si arrabbiò con Dio" di Alejandro Jodorowsky

“A-les-san-dro Jo-do-row-sky, per colpa tua siamo dove siamo. 
La follia del Rabbi ci ha condotti alla miseria. 
Qui i consigli del tuo fantasma non valgono niente. 
E io non voglio che continuiamo a vivere come parassiti della colonia ebraica. 
Il passato è passato! Mondo nuovo, vita nuova! 
È l’ultima volta che accetto l’aiuto del mostro. 
Ci schiereremo come vuoi, e saliremo sul colle. 
Vediamo se lassù l’Altissima Canaglia ci dà l’aiuto di cui abbiamo bisogno
in cambio di mezzo copeco. ma ti giuro che se non succede niente 
ti lascio Giacomo e Beniamino, prendo le bambine 
e andiamo in una taverna del porto a fare le puttane per il resto dei nostri giorni!” 

A questo romanzo che mi ha accompagnato per una ventina di giorni non posso che dedicare un post brevissimo, non perché non abbia nulla da dire su questa storia incredibile, ma perché non so proprio da che parte iniziare a parlarne, sentendo forte invece la necessità di comunicare coram populo tutto il mio entusiasmo per la fantasmagorica, surreale epopea familiare che Alejandro Jodorowsky ha immaginato, a partire dall'origine del suo albero genealogico. 
Lo stesso Jodorowsky - artista versatile, direttore di teatro, regista e autore di pièce teatrali, romanzi e film, fumettista, attore, mimo, clown e marionettista- avverte che "Tutti i personaggi, luoghi ed eventi sono reali. Ma questa realtà è trasformata ed esaltata fino a trasformarsi in mito. Il nostro albero genealogico da un lato è un recinto che limita i nostri pensieri, emozioni, desideri e vita materiale, ma dall'altro è il tesoro che racchiude la maggior parte dei nostri valori"; tuttavia un forte ruolo nel racconto della storia dei Prullansky-Jodorowsky, lo svolge la fantasia irrefrenabile dell’Autore, capace di trasfigurare l’atto della lettura in un momento di assoluta estraniazione, per un pubblico che resta tramortito da tanta vitalità. 
Comica, dissacrante, emozionante e commovente, la lettura di questa saga familiare, popolata da personaggi indimenticabili, mitici, bizzarri e tragici, fa attraversare al lettore tutti i sentimenti possibili, dalla repulsione alla partecipazione, dal divertimento alla meraviglia. 
Per me si è trattato di una scoperta, per cui devo un grazie enorme alla mia amica Carla che a Natale mi ha regalato questo volume, ormai alla diciassettesima edizione in Italia (è stato pubblicato la prima volta nel 1992, in Italia nel 1996): all’inizio ho avuto la sensazione di trovarmi in una nuova Macondo, mi risuonava lo stile di García Márquez respirato in “Cent’anni di solitudine”, ma subito mi sono resa conto che con Jodorowsky non si trattava solo di entrare in un mondo sospeso tra mito e fiaba, ma di salire su un’altalena o di farsi sbatacchiare dalle fruste di un frullatore a immersione. 
Qui c’è tutto: l’interesse, la scaltrezza, la passione, il sesso raccontato senza tabù e con una generosa dose di allegria, l’amore, il desiderio, il sogno, il senso di appartenenza, la mancanza di scrupoli, la pietà, la vita e la morte. 
Una lettura estrema e totalizzante che raccomando fortemente a chi ama le atmosfere oniriche, sperando che il mio trasporto risulti contagioso, consapevole che molto si deve al traduttore, Gianni Guadalupi, per il quale non sarà stata semplice la mimesi dell’arte di Jodorowsky. 
 
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Quando Teresa si arrabbiò con Dio 
Autore: Alejandro Jodorowsky 
Traduttore: Gianni Guadalupi 
Dati: 2013, 331 p., brossura 
Editore: Feltrinelli (collana Universale economica) 
Prezzo: € 9,90 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline