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domenica 2 aprile 2017

"Quando Teresa si arrabbiò con Dio" di Alejandro Jodorowsky

“A-les-san-dro Jo-do-row-sky, per colpa tua siamo dove siamo. 
La follia del Rabbi ci ha condotti alla miseria. 
Qui i consigli del tuo fantasma non valgono niente. 
E io non voglio che continuiamo a vivere come parassiti della colonia ebraica. 
Il passato è passato! Mondo nuovo, vita nuova! 
È l’ultima volta che accetto l’aiuto del mostro. 
Ci schiereremo come vuoi, e saliremo sul colle. 
Vediamo se lassù l’Altissima Canaglia ci dà l’aiuto di cui abbiamo bisogno
in cambio di mezzo copeco. ma ti giuro che se non succede niente 
ti lascio Giacomo e Beniamino, prendo le bambine 
e andiamo in una taverna del porto a fare le puttane per il resto dei nostri giorni!” 

A questo romanzo che mi ha accompagnato per una ventina di giorni non posso che dedicare un post brevissimo, non perché non abbia nulla da dire su questa storia incredibile, ma perché non so proprio da che parte iniziare a parlarne, sentendo forte invece la necessità di comunicare coram populo tutto il mio entusiasmo per la fantasmagorica, surreale epopea familiare che Alejandro Jodorowsky ha immaginato, a partire dall'origine del suo albero genealogico. 
Lo stesso Jodorowsky - artista versatile, direttore di teatro, regista e autore di pièce teatrali, romanzi e film, fumettista, attore, mimo, clown e marionettista- avverte che "Tutti i personaggi, luoghi ed eventi sono reali. Ma questa realtà è trasformata ed esaltata fino a trasformarsi in mito. Il nostro albero genealogico da un lato è un recinto che limita i nostri pensieri, emozioni, desideri e vita materiale, ma dall'altro è il tesoro che racchiude la maggior parte dei nostri valori"; tuttavia un forte ruolo nel racconto della storia dei Prullansky-Jodorowsky, lo svolge la fantasia irrefrenabile dell’Autore, capace di trasfigurare l’atto della lettura in un momento di assoluta estraniazione, per un pubblico che resta tramortito da tanta vitalità. 
Comica, dissacrante, emozionante e commovente, la lettura di questa saga familiare, popolata da personaggi indimenticabili, mitici, bizzarri e tragici, fa attraversare al lettore tutti i sentimenti possibili, dalla repulsione alla partecipazione, dal divertimento alla meraviglia. 
Per me si è trattato di una scoperta, per cui devo un grazie enorme alla mia amica Carla che a Natale mi ha regalato questo volume, ormai alla diciassettesima edizione in Italia (è stato pubblicato la prima volta nel 1992, in Italia nel 1996): all’inizio ho avuto la sensazione di trovarmi in una nuova Macondo, mi risuonava lo stile di García Márquez respirato in “Cent’anni di solitudine”, ma subito mi sono resa conto che con Jodorowsky non si trattava solo di entrare in un mondo sospeso tra mito e fiaba, ma di salire su un’altalena o di farsi sbatacchiare dalle fruste di un frullatore a immersione. 
Qui c’è tutto: l’interesse, la scaltrezza, la passione, il sesso raccontato senza tabù e con una generosa dose di allegria, l’amore, il desiderio, il sogno, il senso di appartenenza, la mancanza di scrupoli, la pietà, la vita e la morte. 
Una lettura estrema e totalizzante che raccomando fortemente a chi ama le atmosfere oniriche, sperando che il mio trasporto risulti contagioso, consapevole che molto si deve al traduttore, Gianni Guadalupi, per il quale non sarà stata semplice la mimesi dell’arte di Jodorowsky. 
 
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Quando Teresa si arrabbiò con Dio 
Autore: Alejandro Jodorowsky 
Traduttore: Gianni Guadalupi 
Dati: 2013, 331 p., brossura 
Editore: Feltrinelli (collana Universale economica) 
Prezzo: € 9,90 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

mercoledì 23 novembre 2016

"Essere senza destino" di Imre Kertész

Posso affermare questo: 
non c’è esperienza per quanto importante, 
non c’è rassegnazione per quanto assoluta, 
non c’è saggezza per quanto profonda c
he ci possa impedire di concedere un’ultima possibilità alla fortuna 
– premesso che si presenti l’occasione, è ovvio. 

Abbiamo portato a termine una nuova lettura per il progetto #LeggoNobel e lo abbiamo fatto rendendo omaggio Imre Kertèsz, scrittore, giornalista e traduttore ungherese, premiato con il Nobel per la Letteratura nel 2002 e scomparso proprio quest’anno, la primavera scorsa, all’età di ottantasette anni. 
L’opera di Kertèsz è stata tardivamente riconosciuta dai suoi contemporanei: in modo particolare “Essere senza destino” ha faticato a trovare un editore in Ungheria e, quando finalmente ha visto la luce, è stato ignorato a lungo. 
Il racconto ha forti richiami autobiografici, nonostante l’Autore non lo abbia mai ammesso, eppure il protagonista, il quasi quindicenne Gyurka, vive l’esperienza più tragica che si possa pensare, così come allo stesso Kertèsz era successo: la deportazione in un campo di concentramento, durante la seconda guerra mondiale. E di Auschwitz, dove Gyurka trascorre buona parte della prigionia, Kertèsz aveva certamente memoria, avendo anche lui provato le condizioni disumane di quel luogo tanto tristemente noto. 
Gyurka racconta in prima persona: scaraventato senza rendersi conto dalla sua vita quasi normale -per quello che poteva essere il periodo oscuro che l’Europa intera stava vivendo e con la persecuzione degli Ebrei ormai sistematicamente organizzata dai nazisti-, su un treno che gli promette lavoro e futuro, inizialmente il ragazzo prova a trovare interessante il viaggio che deve fare, pensando di essere chiamato a svolgere un lavoro importante presso una fabbrica di laterizi. E per buona parte del percorso in treno verso chissà dove, cerca giustificazioni e motivi di conforto anche dove è impossibile trovarne. 
Colpisce forte il suo iniziale candore, la necessità di trovare spiegazioni logiche e convincenti (soprattutto verso se stesso) per capacitarsi di ciò che avverte. 
Più il racconto procede, più si fa chiarezza nella mente di Gyurka, che se pure non arriva a comprendere le ragioni profonde di ciò che sta accadendo, tuttavia affina le armi della sopravvivenza, quelle che gli fanno aggiungere un giorno all’altro, quelle che gli fanno nascondere anche a se stesso l’evidenza dell’orrore, ché se certe volte non riuscisse a chiudere gli occhi, morirebbe di dolore all’istante. 
E qui, leggendo dei piccoli trucchi per resistere, delle relazioni che si instaurano tra prigionieri, di quanto basti per salvarsi o soccombere, ci si rende conto della regolarità dei racconti dei superstiti, qualunque età abbiano avuto al momento della liberazione e quando hanno deciso di scrivere per testimoniare. Questa regolarità, la frequenza di certe immagini, contribuisce a disegnare un mosaico di esperienze cupe che insieme raccontano la stessa terribile storia: lo disegna e lo grida al mondo, frantumato in più voci che suonano all’unisono con le altre, ciascuna portatrice di un pezzo di verità, di un punto di vista diverso ma concorde. E questo raccontare è totalmente privo di captatio benevolentiae, non chiede compassione, non esige comprensione, non aggiunge nulla che possa commuovere oltre ciò che è stato davvero e che non ha bisogno di inutili giri di parole che attenuino o amplifichino l’orrore per chi legge, a distanza di decenni dai fatti. L’importante è che si creda a ciò che è stato e che si continui a parlarne e a leggerne.
Mentre andavo avanti nella lettura riflettevo su un altro aspetto: ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz tre anni fa e non dimenticherò mai quello che ho visto. Questo mi ha dato un vantaggio: leggendo questa storia, ho visualizzato esattamente tutto, sono riuscita a immaginare dove e come si è mosso Gyurka e poi Imre e Primo (Levi, di cui in concomitanza ho letto “La Tregua”) e Piero (Terracina, uno dei sopravvissuti ad Auschwitz, testimone instancabile presso i giovani) e ancora Shlomo (Venezia, autore di “Sonderkommando Auschwitz”) e tanti altri che da quei posti sono riusciti a tornare e che hanno raccontato.
Questo di Kerstèsz è un racconto forte che non concede sconti, nella sua crudezza vista con gli occhi di un adolescente che accetta l'ovvietà dell'orrore dei campi di concentramento nazisti: potrebbe a giusta ragione affiancare quelli che da sempre sono considerati i classici da leggere e da consigliare ai più giovani per conoscere una delle pagine di storia contemporanea più tremende che l’umanità abbia mai potuto vivere. 


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Essere senza destino 
Autore: Imre Kertèsz 
Traduz: Barbara Griffini 
Dati: 2004 (ma 1999 nella collana Feltrinelli “I Narratori”), 223 p., brossura; 
Editore: Feltrinelli (collana Universale Economica); 
Prezzo: € 9,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

giovedì 3 novembre 2016

"L'amante giapponese" di Isabel Allende

«Le persone anziane sono le più divertenti del mondo. 
Hanno vissuto molto, dicono quel che gli pare 
e se ne infischiano delle opinioni degli altri. 
Qui non ti annoierai mai» 

In questo modo la dottoressa Catherine Hope, anziana ospite della residenza per anziani Lark House in California, dà il benvenuto a Irina Bazili, la giovane infermeria moldava che lì va lavorare, dopo burrascose vicende fatte di violenze e precarietà varie. 
A Lark House Irina conoscerà Alma Belasco, un’anziana signora colta, affascinante e molto ricca, che ha deciso di ritirarsi dall’attività e dalla vita pubblica, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in quella casa di riposo, vicino a San Francisco. Irina conoscerà anche Seth, nipote di Alma, e di lui si innamorerà. Mentre, in una cornice narrativa, si racconta della nascita dell’amore tra i due giovani, contemporaneamente Alma inizierà a narrare la sua grande storia d'amore clandestina, quella con il giapponese Ichi, figlio del giardiniere della casa in cui ha vissuto fin da bambina. La piccola Alma era stata adottata dagli zii dopo essere fuggita dalla Polonia infiammata dalle persecuzioni razziali, poco prima della Seconda Guerra Mondiale. La passione tra Ichi e Alma, nata fin dalla loro prima giovinezza e a lungo soffocata, esploderà e sopravviverà per tutta la vita, nonostante i due abbiano fatto nel frattempo scelte che li allontanano invece che unirli.
Ho letto questo romanzo in un lungo pomeriggio in treno, sette ore di totale immersione che mi ha fatto dimenticare dove ero; avere con sé un buon libro, quando si ha davanti un lungo viaggio, è indispensabile per coltivare un “altrove” che di più non si può. 

Il vantaggio di questa storia sta nella possibilità per il lettore di sospensione totale, di coinvolgimento intenso e di tensione verso vicende che svoltano verso soluzioni insospettabili: una storia affatto scontata, come invece rischiano spesso le storie d’amore (ed è questo il motivo per cui, in genere, non le amo, a meno che non siano sfortunate o giù di lì). 
Era da tempo che non leggevo un libro di Isabel Allende, dopo “Afrodita” del 1998 che mi aveva deluso un po’. Quindi ero piuttosto scettica, poco interessata a questo romanzo di cui non mi attraeva neanche il titolo. Il consiglio di leggerlo mi è arrivato da mia madre, lettrice attenta e appassionata, che ha saputo convincermi. 
Non sbagliava, perché la storia è trascinante, lo stile fluido e spigliato la capacità di coinvolgere il lettore è efficace. Lo consiglio a mia volta, come raccomando di tenere a portata di mano il fazzoletto perché qui, signori miei, alla fine ci si commuove. 

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L’amante giapponese 
Autore: Isabel Allende 
Traduz.: Elena Liverani 
Dati: 2015, 281 p., brossura; ePub con DRM 2,3 MB 
Editore: Feltrinelli (collana I narratori) 
Prezzo: € 18,00 (eBook € 12,99) 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

domenica 15 maggio 2016

Ultima lettura: "Mi sa che fuori è primavera" di Concita De Gregorio


Va bene Philippe.
Le coincidenze non esistono.
Hai ragione tu, comme d’habitude.
Esistono i desideri e le passioni che ci portano e ci legano,
le rotte disegnate e invisibili sulle quali corriamo,
i nodi, i pettini, i nostri capelli.
I miei sono molto corti, adesso.
Quasi non servono spazzole, bastano le mani per tenerli in ordine.

È appena iniziato il 2011 e le gemelline Livia e Alessia, 6 anni, spariscono nel nulla, insieme al loro papà, Mathias. Un uomo che non avrebbe mai potuto far loro del male e che però sicuramente l’ha fatto a se stesso, suicidandosi a Cerignola, dopo una lunga fuga partita da Losanna. E altrettanto sicuramente, per quanto inspiegabilmente, l’ha fatto alle sue bambine. E così ha lasciato sola Irina, la sua ex moglie, italiana trapiantata in Svizzera, avvocato e madre di Livia e Alessia, con poche e semplici parole: «Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più».
A Irina Lucidi ha dato voce Concita De Gregorio, nel lungo racconto che la donna le consegna, fatto di frammenti di vita passata, ricordi, ricostruzioni, appelli a chi poteva e doveva intervenire per tempo, indagare forse diversamente da come ha fatto, fermare il delirio di un uomo chiaramente in preda a un disagio psichico antico ma subdolo, invisibile se non attraverso tracce difficilmente interpretabili di primo acchito (“Perché le persone che avrebbero potuto dare notizie utili –gli amici di Mathias, la sua famiglia, la nostra tata, gli psicologi che lo avevano in cura- sono stati così evasivi, latitanti? Così assenti.  Così freddi nel dolore che sarò stato grande anche per ciascuno di loro, certo non grande come il mio ma grande, è sicuro”).
Come puoi pensare che un marito che ti lascia istruzioni su come vestire le bambine, su come preparar loro la colazione, su quante mandate dare alla serratura della porta di casa, su come organizzare la vita della famiglia sia un manipolatore, quale è, e non invece un papà e un marito forse un po’ troppo apprensivo? Questo pensava Irina, che forse Mathias fosse un po’ esagerato, che forse non la considerasse capace di fare la madre secondo il modello che lui aveva in mente, che amasse le loro figlie oltre modo. E invece…
Invece, dopo una separazione affatto traumatica, in cui Irina e Mathias riescono facilmente ad accordarsi su come gestire i tempi e gli spazi delle bambine con l’una e con l’altro, proprio al ritorno da una vacanza, Mathias sparisce portandosi dietro Livia e Alessia. Qui parte la ricerca disperata di Irina e lo sprofondare in un dolore inimmaginabile, le domande, le analisi dei rapporti con le persone che hanno fatto un pezzo di strada con lei, i pregiudizi che hanno condizionato queste relazioni.  E il tentativo di riprendersi una vita normale, riuscito grazie a Luis, un uomo che pazientemente raccoglie i suoi cocci dispersi e li rimette insieme, legandoli a un anello, a una promessa (“Felice, mai così tanto. Ti sembra un sacrilegio? Lo so, lo so. Però lasciami questi minuti intatti. Una gioia incredibile, una gioia perfetta. Luis mi ha detto: provalo, non è niente di speciale ma mi pareva giusto per te, l’ho visto e ho pensato : è proprio come lei, le somiglia. Non è niente di speciale, ha detto. E lo sai com’è fatto? Sono foglie d’albero che formano un cerchio”).
Assegno sempre il massimo delle stelline ai libri che mi trasmettono forti emozioni, che mi coinvolgono sentimentalmente e si fanno leggere senza che quasi mi accorga delle ore che passano (questo l'ho letto in tre ore, durante un viaggio in treno in cui sono arrivata a destinazione sull'ultima parola del racconto). Il giudizio letterario viene in un momento successivo, in casi del genere. Anche perché una forma sciatta mi respinge da subito, quindi il problema non si pone, un libro scritto male lo lascio al suo destino senza sensi di colpa: insomma, per me sicuramente un libro deve saper fare questo, prenderti. E che lo debba fare nella forma più bella e corretta lo do per scontato, vorrei non doverne discutere. Su questo libro non c'è da discutere, il contenitore è adeguato a un contenuto duro e bello, lucido e straziante, assoluto. Frammentarie, dal ritmo ineguale, le voci di Irina e di Concita si confondono nella narrazione (in tondo e in corsivo) e ricostruiscono vicende, indagando nei sentimenti di entrambe, ciascuna nei suoi, la prima in quelli feriti da un’esperienza vissuta, la seconda in quelli di chi si chiede se riuscirà a trovare le parole per raccontare quella esperienza.
De Gregorio le parole le ha trovate e ci restituisce il coraggio di una donna potente e fragile allo stesso tempo, che ha trovato la forza di rialzarsi nonostante tutto.
Perché la vita alla fine può su tutto, per fortuna.

 
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Mi sa che fuori è primavera
Autore: Concita De Gregorio
Dati: 2015, 122 p., brossura; ePub con DRM 2,1 MB
Editore: Feltrinelli (collana I narratori)
Prezzo: € 13,00
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

giovedì 17 marzo 2016

Ultima lettura: "La pioggia prima che cada" di Jonathan Coe


La pioggia prima che cada

Autore: Coe Jonathan
Traduttore: Vezzoli Delfina
Dati: 2007, 222 p., brossura
Editore: Feltrinelli (collana I Narratori)

“Be’, a me piace la pioggia prima che cada”
[…] “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada.
Deve cadere, altrimenti non è pioggia”
[…]”Certo che non esiste una cosa così, “disse.
“È proprio per questo che è la mia preferita.
Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.”

Capita di dover fare un viaggio in treno di un paio di ore o poco più, capita di aver finito di leggere il libro che ci si era portato dietro, capita di aver lasciato a casa il proprio eReader. Capita di trovarsi in una stazione dove non c’è una libreria, capita che i negozi nei suoi dintorni siano ancora chiusi, capita che il treno che si aspetta sia in fortissimo ritardo, capita di avviarsi decisi verso il corso principale dove si sa esserci una libreria ben fornita che sicuramente farà orario continuato (altrettanto sicuramente è una mera speranza, ma avendo tempo da perdere…). Capita, camminando sul viale della stazione, di imbattersi in una bancarella di libri usati e di trovarci il Bengodi del lettore. Capita di non proseguire per la libreria e di fermarsi invece a spulciare tra i libri esposti («Signora, io sono qui tutti i giorni il pomeriggio da lunedì a venerdì, presto porto altri libri Feltrinelli», peccato che io sia qui a Foggia solo di passaggio, ma stai tranquillo che se torno ti vengo a trovare di nuovo). Capita di scorgere, tra le tante belle edizioni, una Einaudi intonsa di “Feria d’agosto” di Pavese e questo romanzo di Jonathan Coe, “La pioggia prima che cada”.
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Se per Pavese si è trattato di incrementare il numero dei suoi volumi presenti nella mia libreria, per Coe invece è stato un primo acquisto, a scatola chiusa, non avendo mai letto prima nulla di lui né sapendo nulla di questo romanzo in particolare. Non so cosa possa avermi spinto a comprarlo (il prezzo di soli cinque euro? La copertina? Il titolo? Il fatto di conoscere Coe almeno di fama?), fatto è che –una volta sul treno- ho iniziato una lettura piacevole e appassionante che mi ha accompagnato per i tre giorni successivi e che mi ha fatto riflettere ancora una volta sul fatto che spesso i libri belli ti raggiungono senza che tu li cerchi, per puro caso.
La zia Rosamond è morta nella casa dove viveva sola, dopo la morte di Ruth, la sua compagna. Il cadavere viene trovato dal suo medico: la morte ha sorpreso (ma non più di tanto, nel senso che lei era consapevole che l’ora estrema si stava avvicinando) l’anziana donna seduta in poltrona, mentre stava ascoltando un disco e aveva un microfono in mano, con un album di fotografie accanto. A doversi occupare del funerale sarà Gill, la nipote prediletta, che avrà anche la sorpresa di un testamento che destina a lei un terzo degli averi di zia Rosamond, un terzo a suo fratello David e un terzo a Imogen, di cui nessuno conserva memoria, se non molto vagamente. Bisogna tuttavia trovarla e la ricerca sarà possibile solo ascoltando le audiocassette che zia Rosamond ha registrato, lasciando l’ultima evidentemente interrotta dalla morte. Quelle cassette, registrate con un apparecchio antidiluviano, sono destinate a Imogen e raccontano la vita di Rosemond, delle persone che hanno attraversato la sua vita, Imogen compresa, attraverso la descrizione dettagliata di venti fotografie, considerate le più rappresentative di un’esistenza vivace e anticonformista.
Si tratta di un racconto in prima persona, incastonato nella cornice della narrazione che riguarda Gill e la scomoda gestione di questa eredità: la struttura del racconto nel racconto consente l’incursione volta per volta nel presente di Gill e nel passato di Rosamond. A rendere appassionanti le vicende sono da una parte lo svelamento del mistero che riguarda Imogen, della quale Gill scoprirà il destino dalle parole di sua madre Thea (quella che, da bambina, amava “la pioggia prima che cada”), dall’altra i tasselli della vita di Rosamond che si spiegano davanti al lettore a ricostruire un mosaico di rapporti, sentimenti, incomprensioni, scelte anticonformiste, tra Inghilterra e Canada, dal secondo dopoguerra ai pieni anni Settanta del Novecento.
Una bella sorpresa, questo romanzo, che mi ha fatto scoprire un autore prima a me sconosciuto e del quale proprio oggi esce “Numero undici”, presentato a Firenze proprio in questo momento, mentre scrivo a oltre novecento chilometri di distanza.
Che sia la prossima lettura?

domenica 9 febbraio 2014

Ultima lettura: "Via XX Settembre" di Simonetta Agnello Hornby


Via XX Settembre

Autore: Agnello Hornby Simonetta
Dati: 2013, 225 p., brossura
Editore: Feltrinelli (collana I narratori)

Palermo è la tua città.
Magnifica, incastonata come una spilla di smalto
tra il verde dei giardini di aranci  e il blu del mare.
Volevo sentirla mia, quella città in cui ero nata.
Disperatamente.

Simonetta Agnello Hornby continua ad offrirci frammenti di storia familiare, con un mosaico che, romanzo dopo romanzo, si arricchisce di tasselli importanti. Abbiamo già conosciuto in "Un filo d'olio" (Sellerio 2011) il mondo di Mosè, la tenuta di campagna a pochi chilometri da Agrigento, dove la famiglia Agnello si trasferisce d’estate, con il suo seguito di cuoche e bambinaie. E non abbiamo conosciuto nelle storie narrate dalla Hornby solamente il piccolo mondo della famiglia, ma anche la più grande tradizione siciliana, veicolata dal cibo, dalle credenze e dalle consuetudini sociali.
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Quello di cui parla anche questo libro è un mondo che si declina quasi del tutto al femminile. Nonostante la presenza del barone Agnello, padre affascinante ma distante, degli zii e dai cugini maschi, e del fedele autista Paolo, chiamato a vigilare sulla giovane Simonetta, seguendola dal marciapiede opposto quando torna da scuola con le amiche, chi emerge veramente in questi quadri di famiglia sono le donne: La madre Elena e la zia Teresa, forse più amiche che sorelle, complici custodi dei segreti dolciari di famiglia, la cugina adorata  Maria, guardata con ammirazione sempre più crescente dalla più giovane Simonetta, che ne segue gli sviluppi della vita sociale e sentimentale, la tata Giuliana, di origine ungherese, dallo spirito libero, ma perfettamente integrata in quel mondo arcaico, e altre figure satelliti tutte femminili, che arrichiscono l’affresco di questa micro società che ruota intorno alla casa di via XX Settembre.
Non c’è solo la famiglia in questa raccolta di squarci narrativi che disegnano la linea del tempo che va dall’arrivo della famiglia Agnello a Palermo da Agrigento dove era vissuta fino ad allora (“A fine agosto del 1958 ci trasferimmo a Palermo con pochi rimpianti e grandi aspettative”), fino alla partenza per l’Inghilterra di Simonetta, quindici anni dopo; c’è forse soprattutto la città, una geografia che è fatta di punti di riferimento importanti, primo tra tutti quel Monte Pellegrino che ribadisce l’appartenenza a quel posto, che la piccola Simonetta fissa con determinazione dentro di sé.
Il racconto dell’autrice si snoda quindi tra i luoghi dell’anima, che racchiudono i suoi ricordi di bambina prima e adolescente poi: le case (la loro in via XX Settembre, casa Giudice e casa Comitini, dove ci si riunisce alternativamente per il rito del caffè -“Si stava bene insieme, e il rito del caffè durava a lungo: c’era sempre qualcosa di nuovo da raccontare”- e per i pranzi imponenti di famiglia nelle feste comandate e non solo), le strade (via Maqueda, Casa Professa, viale della Libertà, Via Archimede, Via Carducci, eccetera) e le pasticcerie della città (Caflisch, Extrabar, eccetera). E poi ancora il teatro Massimo, il Biondo, Villa Deliella, il liceo Garibaldi.
L’impressione è che l’autrice abbia voluto raccogliere nero su bianco le sue memorie bambine, più per un’esigenza personale, per spirito di conservazione e di sopravvivenza: i ricordi di Simonetta Agnello non sono molto diversi da quelli che in altra epoca sono stati della Susanna Agnelli di “Vestivamo alla marinara”, romanzo autobiografico che brillantemente racconta l’alta società della prima metà del secolo scorso. Il libro affascina nella misura in cui in qualche modo si conosce Palermo, si riesce a riconoscerne il paesaggio e a ripercorrere gli itinerari raccontati. Contribuisce ad un giudizio positivo la scrittura: piana, scorrevole, piacevole alla lettura. Tuttavia resta il dubbio di quanto memorie familiari non proprie possano imprimersi nell’animo del lettore, più di altre storie narrate dalla Agnello Hornby.

giovedì 14 febbraio 2013

Ultima lettura: "I funeracconti" di Benedetta Palmieri

I funeracconti

Autore   : Palmieri Benedetta
Dati: 2011, 140 p., brossura
Editore: Feltrinelli (collana I narratori)
            

“Vorrei lasciare a chi amo, perché non vadano sprecati, gli anni tra l’età in cui morirò e quella ritenuta media per un uomo della mia epoca.”

 Queste le parole tratte da “Testamento” uno dei racconti più delicati di questa raccolta di Benedetta Palmieri, Funeracconti. Il tema sicuramente stimola la curiosità: parlare di morte e in modo più circoscritto di funerali, con tutto quello che ruota intorno ad un evento funebre, alternando toni leggeri e delicati, divertenti e divertiti, è impresa non facile. C’è sempre un po’ di pudore nel trattare certi argomenti, come se il culto dei morti, di là dalle valenze etnografiche dispiegate nella saggistica, fosse un tabù, di cui non discorrere lievemente. Invece Benedetta Palmieri ci riesce, regalandoci dieci brevi racconti legati da un doppio filo conduttore. Da una parte, alternata ai racconti stessi, la narrazione del dopo-morte di una moglie dal punto di vista di un marito, con tutte le cautele verso le figlie, lo svelamento di una esistenza in comune, i possibili segreti in vita, il modo di vivere il lutto, in solitudine e in attesa di seguire la consorte; dall’altra parte, il personaggio di Maria Addolorata, grande imprenditrice napoletana di pompe funebri, che attraversa diversi racconti. Maria Addolorata, protagonista del racconto omonimo, innovatrice e inventrice dei funerali più raffinati o più pacchiani secondo i gusti dei clienti vivi (i parenti dei defunti), ma soprattutto morti, viene a mancare (tipico esempio di eufemismo funebre) ultranovantenne e le sue ceneri sono conservate in un’urna a forma di piccola bara portaceneri, incastonata in una nicchia, custodita dai figli eredi della sua impresa e del suo impero economico, nell’agenzia di pompe funebri di famiglia. E torna in altri racconti, nelle parole di altri imprenditori che la considerano un modello: la Palmieri descrive le trovate progressiste di Maria Addolorata (come le bare colorate con striature di rosa e arancio), il suo fisico imponente, strabordante e conturbante anche nella maturità, i suoi capelli color nero inverosimile, tenuti su da un’impalcatura che la fa sembrare Moira Orfei, la sua parlata schietta e le sue decisioni sbrigative. Lo fa con un tono ironico e spiritoso, accompagnando i lettori alla scoperta di un mondo che a tratti è realistico, a volte leggero, più spesso è surreale: Guadagno Percelli fa il funerale ai fiori recisi, Gaetà è il giovane imprenditore funebre che colleziona modellini di carri mortuari e la cui figlia, Giada, ha detto come prima parola della sua vita ‘motte’ invece che ‘mamma’ o ‘papà’. Vito Quadraro, il protagonista di “Quarantotto”, è il trapassato che aspetta il suo funerale e racconta cosa succede dall’altra parte; la dama di condoglianze è un’accompagnatrice del dolore altrui, quella che dona conforto finché sente che il suo ufficio non è più necessario, nel momento in cui in una casa investita da un lutto svanisce definitivamente l’odore della persona persa. Indimenticabili sono tutti i personaggi tratteggiati dalla Palmieri, che adatta anche la lingua alle situazioni narrate: Napoli c’è e non solo nell’agenzia di pompe funebri di Maria Addolorata. Leggendo questi racconti si sorride, spesso si ride, a volte ci si chiude in un pensiero lieve e profondo allo stesso tempo.