mercoledì 23 novembre 2016

"Essere senza destino" di Imre Kertész

Posso affermare questo: 
non c’è esperienza per quanto importante, 
non c’è rassegnazione per quanto assoluta, 
non c’è saggezza per quanto profonda c
he ci possa impedire di concedere un’ultima possibilità alla fortuna 
– premesso che si presenti l’occasione, è ovvio. 

Abbiamo portato a termine una nuova lettura per il progetto #LeggoNobel e lo abbiamo fatto rendendo omaggio Imre Kertèsz, scrittore, giornalista e traduttore ungherese, premiato con il Nobel per la Letteratura nel 2002 e scomparso proprio quest’anno, la primavera scorsa, all’età di ottantasette anni. 
L’opera di Kertèsz è stata tardivamente riconosciuta dai suoi contemporanei: in modo particolare “Essere senza destino” ha faticato a trovare un editore in Ungheria e, quando finalmente ha visto la luce, è stato ignorato a lungo. 
Il racconto ha forti richiami autobiografici, nonostante l’Autore non lo abbia mai ammesso, eppure il protagonista, il quasi quindicenne Gyurka, vive l’esperienza più tragica che si possa pensare, così come allo stesso Kertèsz era successo: la deportazione in un campo di concentramento, durante la seconda guerra mondiale. E di Auschwitz, dove Gyurka trascorre buona parte della prigionia, Kertèsz aveva certamente memoria, avendo anche lui provato le condizioni disumane di quel luogo tanto tristemente noto. 
Gyurka racconta in prima persona: scaraventato senza rendersi conto dalla sua vita quasi normale -per quello che poteva essere il periodo oscuro che l’Europa intera stava vivendo e con la persecuzione degli Ebrei ormai sistematicamente organizzata dai nazisti-, su un treno che gli promette lavoro e futuro, inizialmente il ragazzo prova a trovare interessante il viaggio che deve fare, pensando di essere chiamato a svolgere un lavoro importante presso una fabbrica di laterizi. E per buona parte del percorso in treno verso chissà dove, cerca giustificazioni e motivi di conforto anche dove è impossibile trovarne. 
Colpisce forte il suo iniziale candore, la necessità di trovare spiegazioni logiche e convincenti (soprattutto verso se stesso) per capacitarsi di ciò che avverte. 
Più il racconto procede, più si fa chiarezza nella mente di Gyurka, che se pure non arriva a comprendere le ragioni profonde di ciò che sta accadendo, tuttavia affina le armi della sopravvivenza, quelle che gli fanno aggiungere un giorno all’altro, quelle che gli fanno nascondere anche a se stesso l’evidenza dell’orrore, ché se certe volte non riuscisse a chiudere gli occhi, morirebbe di dolore all’istante. 
E qui, leggendo dei piccoli trucchi per resistere, delle relazioni che si instaurano tra prigionieri, di quanto basti per salvarsi o soccombere, ci si rende conto della regolarità dei racconti dei superstiti, qualunque età abbiano avuto al momento della liberazione e quando hanno deciso di scrivere per testimoniare. Questa regolarità, la frequenza di certe immagini, contribuisce a disegnare un mosaico di esperienze cupe che insieme raccontano la stessa terribile storia: lo disegna e lo grida al mondo, frantumato in più voci che suonano all’unisono con le altre, ciascuna portatrice di un pezzo di verità, di un punto di vista diverso ma concorde. E questo raccontare è totalmente privo di captatio benevolentiae, non chiede compassione, non esige comprensione, non aggiunge nulla che possa commuovere oltre ciò che è stato davvero e che non ha bisogno di inutili giri di parole che attenuino o amplifichino l’orrore per chi legge, a distanza di decenni dai fatti. L’importante è che si creda a ciò che è stato e che si continui a parlarne e a leggerne.
Mentre andavo avanti nella lettura riflettevo su un altro aspetto: ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz tre anni fa e non dimenticherò mai quello che ho visto. Questo mi ha dato un vantaggio: leggendo questa storia, ho visualizzato esattamente tutto, sono riuscita a immaginare dove e come si è mosso Gyurka e poi Imre e Primo (Levi, di cui in concomitanza ho letto “La Tregua”) e Piero (Terracina, uno dei sopravvissuti ad Auschwitz, testimone instancabile presso i giovani) e ancora Shlomo (Venezia, autore di “Sonderkommando Auschwitz”) e tanti altri che da quei posti sono riusciti a tornare e che hanno raccontato.
Questo di Kerstèsz è un racconto forte che non concede sconti, nella sua crudezza vista con gli occhi di un adolescente che accetta l'ovvietà dell'orrore dei campi di concentramento nazisti: potrebbe a giusta ragione affiancare quelli che da sempre sono considerati i classici da leggere e da consigliare ai più giovani per conoscere una delle pagine di storia contemporanea più tremende che l’umanità abbia mai potuto vivere. 


Photo HelenTambo on Instagram




Essere senza destino 
Autore: Imre Kertèsz 
Traduz: Barbara Griffini 
Dati: 2004 (ma 1999 nella collana Feltrinelli “I Narratori”), 223 p., brossura; 
Editore: Feltrinelli (collana Universale Economica); 
Prezzo: € 9,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

mercoledì 16 novembre 2016

"La mia classe è il posto più bello del mondo" di Elvio Calderoni

 
Silvio Orlando in "La scuola" di Daniele Luchetti

L’aula ha finestre malconce, le pareti trasudano muffa, la lavagna può anche essere pericolante, sistemata com’è con bulloni e viti di un altro secolo. I banchi sono stratificati di scritte: 
crescibenecheripasso, axr la zoli è proprio una puttana, io ho rosicato perché non mi hai passato il compito, ma il preside dov’è?, bulli e bullizzati, antonella mi manchi. 

Il crocifisso c’è? No, c’è l’ombra che ha lasciato sulla parete. Una croce disegnata più chiara di quel che c’è intorno. 

Insomma, gli elementi di arredo, la struttura, la situazione sembra proprio urlare: la lezione è finita. E invece no che non è finita. 

Continuo a credere, e lo credo ogni giorno, che la classe sia il posto più bello del mondo. Ci entro felice ad ogni ora, lieto di cogliere le differenze negli sguardi e nell’eloquio dei ragazzi settimana dopo settimana. 
Felice di semplificargli i concetti. 
O di complicargli la vita approfondendo tematiche complesse. 
Che tanto la loro testa ce la fa, hai voglia se ce la fa. 
Che privilegio è cogliere, nelle loro evoluzioni, i primi abbandoni del sistema di concetti parole e pensieri della famiglia d’origine, le prime prove verso una personalità indipendente? Le parole nuove, i movimenti, gli sguardi che trasudano il profumo della prima consapevolezza di stare al mondo, di essere nel mondo?
Come può annoiare un mestiere del genere?
Come puoi perdere tempo prima di arrivare in classe, chiacchierando con i tuoi colleghi o fingendo chissà quale impegno importante in chissà quale segreteria? 
Come puoi non curarti delle lezioni che andrai a proporre? 
Come puoi ? 
Sei sicuro che non avevi un’altra carriera ad aspettarti? Ricca di soddisfazioni economiche, di rapporto tra pari, di lavoro di gruppo, di minore responsabilità? 
La classe, la tua aula, dev’essere il posto più bello del mondo. Devi pensarlo davvero. I tuoi alunni ci metteranno dieci secondi a capire se lo pensi davvero. O se fingi. O se ti stai accontentando. 
Ci mettono poco. 
Non lagnarti se non ti seguono. Nove volte su dieci è colpa tua. 
Non lagnarti che mancano le famiglie. Trova alibi migliori, dai. 
Non lagnarti che pensano solo al telefono. 
Non lagnarti se sperano che tu non ci sarai. Perchè si stanno già lagnando loro, di te, abbondantemente se arrivano a sperare nell’ora di buco. 
Insegna loro l’impegno e non dare modelli quotidiani di disimpegno. 

E tu? 
L’hai già capito se la classe è il posto più bello del mondo? 
Se non lo fosse, perché non provare a fare altro? 
Te lo chiedo per loro. 
Per quegli sguardi che affollano i corridoi e che si siedono sui banchi e che sono pieni di curiosità. Non pensare che siano in grado soltanto di attaccarsi al loro smartphone. Possono fare altro. 
Devono fare altro. 
Permettiglielo. 
Inondali. 
Che tu gli porga il quadrato di un binomio o il pessimismo cosmico, la missione è la stessa. 
E non è roba da poco. 

©Elvio Calderoni

Soundtrack: Tricarico, "Io sono Francesco"
 

mercoledì 9 novembre 2016

"Canto della pianura" e "Crepuscolo" di Kent Haruf

Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. 
I fratelli McPheron, Harold e Raymond. 
Vecchi che si avvicinano a una vecchia casa alla fine dell’estate. 
Attraversarono il vialetto sterrato, superarono il furgone 
e l’automobile parcheggiata accanto alla recinzione in rete metallica
e varcarono il cancello uno dopo l’altro. 

Ho aspettato che scemasse un po’ il clamore intorno ai romanzi che compongono la Trilogia della pianura di Kent Haruf, un po’ perché sono in genere sempre sospettosa dei facili successi di pubblico, e poi perché incalzata da altre letture, legate a impegni con gruppi di lettura o presentazioni di libri. Ho letto qualche mese fa “Benedizione”, il primo in ordine di pubblicazione ma considerato l’ultimo nell’ordine della storia, da cui in realtà di discosta nettamente, mantenendo con gli altri due solo l’ambientazione a Holt, immaginaria contea del Colorado dove, per dirla con Alessandro Piperno, si è pronti a trasferirsi.
E a Holt sono tornata negli ultimi tempi, scegliendo di leggere “Canto della pianura” e “Crepuscolo” quasi in immediata successione, studiando incastri tra una lettura e l’altra e dopo che il gran parlare dei lettori entusiasti si è affievolito (stanno tutti leggendo la saga dei Cazalet di Elizabeth J. Howard, pubblicata da Fazi? Può darsi, io anche con quella sono in ritardo e coltivo in me lettrice la sensazione di non essere mai abbastanza sul pezzo, come si dice). 

Se con "Benedizione"  si assiste alla celebrazione della rassegnazione, del bilancio esistenziale all’approssimarsi della morte, dei conti con la vita, con le colpe e le mancanze, che devono quadrare per andarsene senza lasciare debiti morali, i due romanzi successivi esaltano gli inizi, la vita, la compassione, l’amicizia e la solidarietà contro la grettezza, la piccolezza umana, l’inutilità di esistenze senza scopo. 
Con "Canto della pianura" e “Crepuscolo” assistiamo all’evoluzione personale di alcuni personaggi, soprattutto quello di Victoria Roubideaux, che a sedici anni scopre di essere incinta e, cacciata di casa dalla madre, trova ospitalità presso i fratelli McPheron, solitari allevatori di mucche e giumente, grazie all’intervento provvidenziale di Maggie Jones: la storia di Victoria, che nel frattempo mette al mondo una bambina e va all’università, si intreccia a quella di Raymond e Harold McPheron, che per lei saranno disposti a rivedere il loro modo di relazionarsi al di fuori del recinto delle loro giumente e dei loro tori e che rappresenteranno per sempre la sua casa. 
Intorno a questi personaggi, tante altre figure legate a loro e tra di loro, fissate nella loro quotidianità, nel loro stare al mondo, in un racconto che fluisce veloce, ma senza sorprese, ricco di dialoghi che sfuggono alle classificazioni tradizionali, infatti non sono discorsi diretti legati, non sono diretti liberi, non indiretti, ma di tutto un po’ in un modo personalissimo di gestire le conversazioni tra i protagonisti. 
Nonostante la potenza dei temi presenti (il bullismo, il maltrattamento di minori e delle donne, il pregiudizio e i pettegolezzi che infiammano la provincia come in una eterna Peyton Place, la perdizione umana) nulla è enfatizzato, il tono è quasi dimesso e lo stile di Haruf fa da fil rouge e fa percepire i tre romanzi un tutt'uno, un’unica grande storia dove i luoghi non cambiano e le persone passano, lasciando impronte più o meno profonde (eppure il traduttore, Fabio Cremonesi, nelle sue note ci avverte di un cambio di passo nello stile di Kent Haruf e chi meglio di lui può dirlo?). 
La quiete, la calma e la fiducia nelle relazioni rassicuranti fanno da contrappunto alla violenza e alla desolazione. Il racconto delle storie della gente di Holt va in crescendo, si sviluppa e regala momenti di ottimismo: anche dove le vicende sembrano prendere direzioni drammatiche, in tutte le vicende narrate ho visto la speranza e la fiducia nel futuro. 

Photo HelenTambo on Instagram

Canto della pianura 
Autore: Kent Haruf 
Traduttore: Fabio Cremonesi 
Dati: 2015, 301 p., brossura; eBook formato ePub 632,51 KB 
Editore: NN Editore 
Prezzo: € 18,00 cartaceo; eBook € 8,99 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline 
Crepuscolo 
Autore: Kent Haruf 
Traduttore: Fabio Cremonesi 
Dati: 2016, 315 p., brossura; 
eBook formato ePub 1,09 MB 
Editore: NN Editore 
Prezzo: € 18,00 cartaceo; eBook € 8,99 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

giovedì 3 novembre 2016

"L'amante giapponese" di Isabel Allende

«Le persone anziane sono le più divertenti del mondo. 
Hanno vissuto molto, dicono quel che gli pare 
e se ne infischiano delle opinioni degli altri. 
Qui non ti annoierai mai» 

In questo modo la dottoressa Catherine Hope, anziana ospite della residenza per anziani Lark House in California, dà il benvenuto a Irina Bazili, la giovane infermeria moldava che lì va lavorare, dopo burrascose vicende fatte di violenze e precarietà varie. 
A Lark House Irina conoscerà Alma Belasco, un’anziana signora colta, affascinante e molto ricca, che ha deciso di ritirarsi dall’attività e dalla vita pubblica, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in quella casa di riposo, vicino a San Francisco. Irina conoscerà anche Seth, nipote di Alma, e di lui si innamorerà. Mentre, in una cornice narrativa, si racconta della nascita dell’amore tra i due giovani, contemporaneamente Alma inizierà a narrare la sua grande storia d'amore clandestina, quella con il giapponese Ichi, figlio del giardiniere della casa in cui ha vissuto fin da bambina. La piccola Alma era stata adottata dagli zii dopo essere fuggita dalla Polonia infiammata dalle persecuzioni razziali, poco prima della Seconda Guerra Mondiale. La passione tra Ichi e Alma, nata fin dalla loro prima giovinezza e a lungo soffocata, esploderà e sopravviverà per tutta la vita, nonostante i due abbiano fatto nel frattempo scelte che li allontanano invece che unirli.
Ho letto questo romanzo in un lungo pomeriggio in treno, sette ore di totale immersione che mi ha fatto dimenticare dove ero; avere con sé un buon libro, quando si ha davanti un lungo viaggio, è indispensabile per coltivare un “altrove” che di più non si può. 

Il vantaggio di questa storia sta nella possibilità per il lettore di sospensione totale, di coinvolgimento intenso e di tensione verso vicende che svoltano verso soluzioni insospettabili: una storia affatto scontata, come invece rischiano spesso le storie d’amore (ed è questo il motivo per cui, in genere, non le amo, a meno che non siano sfortunate o giù di lì). 
Era da tempo che non leggevo un libro di Isabel Allende, dopo “Afrodita” del 1998 che mi aveva deluso un po’. Quindi ero piuttosto scettica, poco interessata a questo romanzo di cui non mi attraeva neanche il titolo. Il consiglio di leggerlo mi è arrivato da mia madre, lettrice attenta e appassionata, che ha saputo convincermi. 
Non sbagliava, perché la storia è trascinante, lo stile fluido e spigliato la capacità di coinvolgere il lettore è efficace. Lo consiglio a mia volta, come raccomando di tenere a portata di mano il fazzoletto perché qui, signori miei, alla fine ci si commuove. 

Photo HelenTambo on Instagam





L’amante giapponese 
Autore: Isabel Allende 
Traduz.: Elena Liverani 
Dati: 2015, 281 p., brossura; ePub con DRM 2,3 MB 
Editore: Feltrinelli (collana I narratori) 
Prezzo: € 18,00 (eBook € 12,99) 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline