domenica 22 febbraio 2015

Ultima lettura: "Non è stagione" di Antonio Manzini


Non è stagione

Autore: Manzini Antonio
Dati: 2015, 315 p., brossura
Editore: Sellerio (collana La memoria)

Intenzioni e risultati a volte si confondono
 e diventano una nebbia indecifrabile.

Il vicequestore Rocco Schiavone torna con una nuova indagine, in cui si intrecciano il rapimento di una studentessa, il riciclaggio di denaro sporco, l’usura e i trasferimenti di valuta all’estero. Si tratta di una vicenda complessa che Antonio Manzini dispiega per un po’ più di trecento pagine che scorrono velocemente, tanto la storia coinvolge il lettore.
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Ormai conosciamo bene Rocco Schiavone, il vicequestore romano trasferito ad Aosta in seguito ad un provvedimento disciplinare per i suoi metodi investigativi poco ortodossi: è un uomo capace di grandi sentimenti, vissuti in privato e celati da una ruvidezza a tratti spiazzante, un personaggio che si è sviluppato attraverso le storie narrate da Manzini, che lo coccola, lo cura, lo arricchisce di sfumature.
Sempre irrequieto, Schiavone sembra in questa storia quasi rassegnato alla sua sede di servizio, ormai si è integrato nel gruppo di lavoro della questura, animato da altri personaggi diventati familiari ai lettori (gli agenti Deruta, D’Intino, Scipioni e Ferron, la competente ispettrice Rispoli e il medico legale livornese Fumagalli, con il quale c’è l’abitudine di non salutarsi, nonostante una buona intesa istintiva) ed è entrato anche nel tessuto sociale della città, dove comincia a frequentare persone che nulla hanno a che fare con il suo lavoro, mal sopportando tuttavia la provincialità dell’ambiente, dove tutti sanno tutto di tutti.
Anche il rapporto con le donne cambia: Nora, ormai lontana, lascia il passo ad Anna, con la quale Rocco intreccia una relazione che sembra solamente fisica, fatta di scaramucce, fughe e ritorni che potrebbero essere preludio a qualcosa di più profondo. Resta Marina, la moglie scomparsa che l’uomo continua a vedersi intorno, nella casa disadorna dove vive stancamente, geloso dei suoi spazi privati. Anche il rapporto con Marina sembra destinato a cambiare, c’è da aspettarsi qualche sviluppo nelle future storie che Manzini vorrà raccontarci.
A un personaggio così, che cambia pur restando apparentemente sempre se stesso, ci si affeziona facilmente, perché in lui, nelle sue debolezze, nei suoi pensieri, nel suo guardarsi intorno, ci si riconosce. Se tutto si evolve nel sistema dei personaggi e degli spazi, restano immutati il modus operandi dell’ispettore, il suo intuito, le sue maniere spicce di risolvere le questioni.
Ancora una volta Manzini riesce a tenere alta la tensione con il suo stile asciutto e rapido, senza indugi e con una perfetta tempistica che vede alternarsi più scenari di azione.


venerdì 13 febbraio 2015

Ultima lettura: "La strage dei congiuntivi" di Massimo Roscia


La strage dei congiuntivi

Autore: Roscia Massimo
Dati: 2014, 321 p., rilegato
Editore: Exòrma (collana Narrativa)

I libri costano, i libri sono capricci di carta,
i libri sono ammassi di inchiostro e cellulite,
i libri sono spese inutile, i libri non portano voti.

L’assessore all’istruzione e alle politiche culturali di una località non meglio identificata muore per trauma cranico, procuratogli da violenti colpi inferti con un tronco di olivo. Bill Gross Donkey, così si chiamava l’ormai ex assessore, stava tornando a casa dopo aver partecipato a un convegno filosofico, durante il quale aveva sfoggiato un eloquio degno dell’essere “zotico, ignorante, illetterato” quale, buonanima, era.
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La sua arrogante e volgare non-lingua, il suo offendere e maltrattare l’italiano (perché, nonostante la località oscura in cui la vicenda si svolge e i nomi dei personaggi non riferibili a nessuna cultura identificabile con precisione, è di lingua italiana che si parla) gli è costata la pelle: un manipolo di vendicatori che hanno preso in prestito i nomi di famosi grammatici dell’antichità[1], ha fatto giustizia. E Gross Donkey è solo la prima vittima di un disegno che è insieme salvifico e criminale: il gruppo di giustizieri si muoverà controcorrente, con il disprezzo dovuto non solo a chi bistratta la lingua, ma anche a chi non la difende, a chi si rassegna, a chi non reagisce se non con qualche espressione di disgusto e poi gira la testa dall’altra parte.
Ogni capitolo è introdotto dal suo numero, a sua volta definito dai grammatici sodali: per ogni numero, dall’Uno al Quattordici, un’affascinante descrizione che ne esalta la perfezione e il significato più o meno recondito.
Il testo è poi corredato da un apparato di note a piè di pagina, il che è insolito in un romanzo (succede con autori come David Foster Wallace, che in “Infinite Jest” di oltre mille pagine, ne ha comprese cento di sole note, in fondo) e deve trovare ben disposto il lettore (ma questo è un parere assai opinabile, lo so bene).
Si è trattato di una lettura promossa nell’ambito delle #letturecondivise su Twitter, sull’onda della curiosità all’indomani della Fiera della piccola e media editoria di Roma “Più Libri Più Liberi” (4-8 dicembre 2014) e che si è svolta anche con momenti di confronto acceso tra i partecipanti al gruppo di lettura. Se un libro fa discutere significa che sta comunicando con i suoi lettori: la mia copia è completamente squadernata, piena di sottolineature e angoli ripiegati, è insomma molto sofferta.
A me ha ispirato sentimenti contraddittori. Mi sono sentita a volte irritata dal continuo ricorso a note esplicative, che spesso mi distraevano e a mio parere avevano un’utilità relativa: è
chiaro che, se si fa una citazione, o il lettore la riconosce oppure non la riconosce e va avanti comunque, aiutato dal contesto. Questo continuo rimarcare da dove viene cosa, secondo me, viola il patto con il lettore, che ha il diritto di seguire il narratore in un modo o in un altro, ed è anche un po' provocatorio perché è come dare per scontato che il lettore non abbia letto quello che ha letto l’Autore, che quindi sente di dover aiutare lo sprovveduto nella decodifica delle citazioni più o meno palesi. Mi sono scoperta a provare alternativamente esaltazione per le trovate narrative e irritazione per alcune precisazioni tanto superflue (a mio parere) quanto pedantesche.
Tra le pagine più belle – ce ne sono tante- ce n’è una dedicata all’elogio della ripetizione, che “non è soltanto una tecnica mnemonica, ma un’operazione basilare della conoscenza”[2].
Ho trovato la lettura di “La strage dei congiuntivi” stimolante ma anche molto impegnativa e, invertendo l’ordine degli aggettivi quasi a cercare una gerarchia, impegnativa ma anche stimolante. Intendo ribadire con questo che si tratta di un libro nella cui lettura si avvicendano curiosità, attenzione parossistica, divertimento, soggezione: ogni volta che lo lasci e riprendi, ci metti un po' a rientrare in sintonia con la scrittura di Massimo Roscia, che è preziosa, ricercata, pignola (e meno male!).
Credo sia un esperimento molto spinto e interessante, capace di mettere alla prova il lettore anche più motivato e competente.
Ma si tratta anche e decisamente di un libro che contiene verità ovvie e tuttavia dimenticate da chi maltratta l'italiano: il problema è che proprio chi non è abituato a porre attenzione a come parla e come scrive, chi non ha cura della propria lingua e non è interessato alla sua difesa dagli oltraggi continui che nell’uso comune le vengono inferti, questo libro probabilmente non lo leggerà mai. E questo è un gran peccato.




[1] I nomi dei grammatici e filosofi della Grecia antica, utilizzati dai componenti del sodalizio di giustizieri della lingua come pseudonimi, sono: Cratete di Mallo, grammatico e filosofo della scuola di Pergamo, Partenio di Nicea, poeta oltre che grammatico anch’esso, Asclepiade di Mirlea, grammatico e primo commentatore dell’Odissea e forse anche dell’Iliade, Eutichio Proclo grammatico e istitutore di Marco Aurelio, Dionisio Trace grammatico e filologo di origine alessandrina.
[2] Al tema della memoria Umberto Eco dedica una lettera al nipote, che si può leggere qui, nonché "Mnemotecniche e rebus", Guaraldi Editore 2013, excursus storico sulle tecniche più industriose adottate fin da tempi più remoti per esercitare la memoria.

lunedì 9 febbraio 2015

Ultima lettura: "Ti strappo e ti getto in pasto ai cani" di Alessio Viola


Ti strappo e ti getto in pasto ai cani

Autore: Viola Alessio
Dati: 2014, 132 p., brossura
Editore: CaratteriMobili (collana Molecole)

Un fottuto tumore, nel più fottuto, stupido, imbarazzante, ridicolo posto
 in cui potesse andare ad annidarsi in un uomo, nella ridicolissima prostata,
che solo a nominarla sembra che non ci possa essere niente di serio
riconducibile a quella specie di patata spugnosa
nascosta dietro l’uccello di ogni uomo

È lo stesso autore che definisce questo romanzo un racconto-esorcismo, quello che si fa per allontanare qualcosa che si teme, dopo esserci andato molto vicino.
Si parte da una circostanza vissuta realmente, un momento autobiografico, la scoperta di una malattia reale e fortunatamente sconfitta; l’introduzione spiega il perché di questo libro, questo cucire cose già scritte, le riflessioni a margine, i momenti anche solo immaginati e quelli vissuti davvero. Durante la lettura poi ti chiederai quanto di reale c’è nel racconto, se l’impressione che hai è quella di conoscere e avvicinarti ai personaggi, tutti, come se facessero parte della tua vita.
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Una prima breve parte del libro è dedicata al racconto delle indagini cliniche, della diagnosi e soprattutto della reazione che il protagonista ha alla scoperta della malattia -un cancro alla prostata- e alle informazioni di tutto ciò che da quel momento potrà succedergli. Ed è una reazione fatta di sudore e di urla scomposte in macchina e in solitudine, per lasciare uscire la paura.
La paura viene dalle parole, sono loro a spaventare, quelle che sentiamo ‘brutte’ come è brutta la parola ‘carcinoma’: occorrerebbe una rotazione delle parole, “un loro uso diverso e alternativo” (p.19), un turn over che le spogli della loro capacità di destabilizzare.
Diverso effetto farebbe sentirsi dire “hai un amore che ti cresce dentro”, sarebbe tutto forse più sopportabile, invece di ricevere un'informazione asettica e professionale del fatto che dentro hai qualcosa sì, ma si chiama cancro: il potere della parola, eh?
Viola dedica pagine importanti alla necessità della prevenzione per evitare l’incontro con la malattia, quell’incontro che può essere fatale se non sorpreso in tempo, mentre sta già rodendoti dentro: quando il suo protagonista però si trova faccia a faccia con quella cosa che gli è cresciuta dentro, addosso a “quella specie di patata spugnosa nascosta dietro l’uccello di ogni uomo”, con quel male che vorrebbe strappare e gettare in pasto ai cani (e sarà Leonardo, il robot della sala operatoria a farlo), deve fare i conti con quello che succederà dopo che ha saputo.
Riprende la narrazione. Il tumore è operabile, quindi c'è la lunga, ragionata disamina del consenso da dare prima di finire steso su un gelido lettino operatorio: su quale organo si interviene, quale può essere l’approccio chirurgico più opportuno, le opzioni terapeutiche successive (ché l’intervento non può bastare, a volte), cosa succede normalmente al paziente durante l’operazione, come sarà il risveglio, quali saranno le conseguenze e le possibili complicanze, arrivando infine alla parola ‘morte’, che pure va messa in conto.
Il racconto del prima si interrompe bruscamente sulla parola ‘buio’: la tensione che è andata in crescendo mentre il lettore accompagnava il protagonista fino al tavolo operatorio è destinata a stemperarsi, a perdersi nel paesaggio che fa da cornice all’ultimo viaggio che l’uomo ha pianificato in ogni momento. Le protagoniste della seconda parte del libro sono le cinque donne della sua vita, quelle importanti, quelle che si sono avvicendate –e qualche volta sovrapposte- al suo fianco.
Mara e Dolores, le prime, legate da un’antica amicizia, poi separate da lui che si era insinuato tra loro, ritrovatesi adesso, non senza iniziale imbarazzo. Il confronto può essere crudele, o almeno doloroso. Invece i ricordi scivolano, sia pure con qualche frizione, ciascuna consegna all’altra pezzi di Lui, frammenti sconosciuti si rivelano a loro che pensavano di conoscerlo bene (“era quello che era per tutte noi” p.81).
 E poi arrivano Ulrike, e Nilde e Margherita, tutte diverse, tutte ‘ragazze’, le sue. Un social network ha fatto il miracolo di farle incontrare, secondo un disegno ordito dall’uomo, che prima di lasciarle per sempre ha fatto in modo che entrassero in contatto tra loro, che si riconoscessero in qualche modo, per prepararsi all’incontro.
Tante donne ne fanno una, dalle mille sfaccettature. E l’uomo che ha fatto un pezzo di strada con ciascuna di loro, ha mostrato pezzi di sé, diversi o coincidenti. Come in un caleidoscopio, tutto si combina a formare figure sempre nuove. Le cinque donne hanno risposto a una specie di convocazione, si passano adesso il turno di parola, ci restituiscono il ritratto a tratti contraddittorio di un uomo che ha lasciato dietro di sé amore e canzoni, quelle che vuole che vengano suonate al suo funerale.
Oltre ai dialoghi, realistici e impietosi anche, ci sono gli sguardi e i vestiti, le risate e le lacrime. 
E Savelletri, che non è meno protagonista dei personaggi del romanzo, personaggio lei stessa con la sua chiesetta sul mare, i suoi bar, i ritrovi dei pescatori, i ricci e gli aperitivi, la salsedine che si attacca alla pelle, con la terra rossa degli uliveti a ridosso del mare.
Bisognava stare attenti alla retorica spicciola, quella che –traditrice!- è sempre pronta a far sbavare il disegno narrativo. Alessio Viola ci è riuscito bene, consegnandoci un ritratto asciutto ed essenziale di un uomo fatto di ciò che ha lasciato a ognuna delle sue donne.
Ultima notazione: il libro è disseminato di titoli di canzoni, quelle che hanno accompagnato la vita del protagonista nei momenti condivisi con le sue donne. Ne ricordo qui solo una: "Mind Games" di John Lennon, perché a me fa venire i brividi.

domenica 1 febbraio 2015

Ultima lettura: "God save the drag queen" di Sara Perro

God save the drag queen
Dall'officina al palco, un viaggio memorabile tra arte, piume e paillettes

Autore: Perro Sara
Dati: 2015 (in uscita il 9 febbraio), formato Kindle 2664 KB lunghezza stampa 29 pp.
Editore: Zandegù

Non basta fare la drag, bisogna esserlo.

Lo scopo di questa inchiesta è quello della narrazione di un mondo scintillante di lustrini, ma compresso anche nelle contraddizioni con le quali la vita degli uomini incontrati da Sara Perro, giovane giornalista freelance, è costretta a confrontarsi, tra pregiudizi sociali e accettazione familiare, tra segreti e espressioni manifeste.
Nel suo reportage dal mondo delle drag queen italiane, l’Autrice presenta le vite comuni, le aspirazioni, i desideri, le difficoltà di uomini che hanno scelto di essere drag, cioè intrattenimento, simpatia e compagnia. Come bene ci dice, una drag “è un clown moderno: cancella i suoi lineamenti, indossa parrucche colorate, abiti sgargianti, infila scarpe improponibili e fa battute per divertire” e soprattutto è ben lontano dal proporsi come donna, ma semmai come caricatura femminile.
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Proprio per capire cosa sia una drag queen è utile quindi sapere cosa non è: non un travestito che sceglie l’abito femminile, quindi la forma, per emulare ciò che vorrebbe essere, non un uomo che esaspera una femminilità artefatta per scopi sessuali, ma una maschera costruita e indossata con somma cura e con scopi artistici.
Barbie Bubu, Kelly Clackson e Maga Mela sono le drag che la Perro ha incontrato per raccontare questo universo sconosciuto ai più, o quanto meno percepito in modo approssimativo e superficiale.
Definire “God save the drag queen” un viaggio memorabile mi sembra un po’ pretenzioso e non perché non sia una buona descrizione di quella che è una parte del panorama italiano del fenomeno drag, ma perché appunto tratta solo qualche aspetto di un argomento che merita senz’altro ulteriori approfondimenti, alla luce delle tante implicazioni che una scelta artistica del genere ha insite.
Una lettura gradevole e veloce, in uscita a giorni per le edizioni Zandegù, che lascia molte domande e spunti di riflessione.