mercoledì 26 dicembre 2012

Ultima lettura: “L’acustica perfetta” di Daria Bignardi


L’acustica perfetta

Autore   : Bignardi Daria
Dati: 2012, 200 p., brossura
Editore: Mondadori

Questa è la storia di una moglie infelice e di un marito che non sa leggere questa infelicità, finché non è costretto a sbatterci il muso contro. Detta così è banale, una vicenda qualunque. Non lo è, invece. Già il titolo, “L’acustica perfetta”, intriga e incuriosisce, anticipando una storia che costringe il lettore alla riflessione. Non solo fiction, insomma.
Arno e Sara si sono conosciuti ragazzini in Versilia, un amore giovanissimo: lui innamorato perso immediatamente (“Ho amato nella vita una donna sola: quando mi lasciò, non la rividi per sedici anni” questo l’incipit), lei attratta dagli amori infelici tanto da rendere così anche il loro.
Si ritrovano per caso dopo che parecchia vita è trascorsa e sembra che siano pronti ad affrontare insieme un percorso felice: tre figli, lui musicista affermato, lei che fa la scelta della famiglia perché le piace occuparsi del marito e dei bambini. Almeno così Sara dice e Arno si accontenta, non si interroga, è contento se lei è contenta e non si accorge che intanto l’inquietudine della moglie divora le loro vite. Quando lei lo mette di fronte al suo dolore di donna irrisolta, provocando dapprima incredulità e poi rabbia nel marito, tutto è destinato a sciogliersi, non prima del doloroso viaggio che lui dovrà fare nel passato di Sara, alla scoperta di bugie e omissioni che alla fine gli faranno capire di non aver mai davvero conosciuto la madre dei suoi figli, di essersi sempre fermato in superficie, di non averle letto nell’anima.
Questo terzo romanzo di Daria Bignardi rivela una narratrice essenziale che ha concepito una storia complessa eppure lineare, che si dispiega in modo semplice, accompagnando il lettore in un crescendo di domande e emozioni, curiosità e partecipazione. La voce narrante è quella di Arno, il punto di vista è quindi interno alla vicenda ed è maschile: esercizio ardito per una donna (e riuscito con evidente efficacia), quello di dare la voce ai pensieri e ai sentimenti di un uomo.
Molte sottolineature nella mia copia cartacea (il libro è disponibile anche in ebook): il riferimento a certa musica (“Horizons” dei Genesis a p. 49), la definizione di non-luoghi (“Sara diceva che la mia casa è la Scala, ma io ho sempre pensato che fosse dov’era lei” p. 133; “Credevo che la mia casa fossi tu, ma mi hai fatto capire che il mio posto è un altro” p. 199), le citazioni letterarie (Tolstoj a p. 152, Campana a p. 133).
Ho letto questo romanzo con la necessità di finirlo al più presto, curiosa di come la vicenda di Arno e Sara si sarebbe risolta: alla fine mi sono ritrovata confusa ed emozionata. Io dico che è da leggere e forse anche da rileggere, più in là.

sabato 22 dicembre 2012

Frequentando salotti letterari... "Segnali che precederanno la fine del mondo" di Yuri Herrera

Segnali che precederanno la fine del mondo

 
Autore   : Herrera Yuri
Dati: 2012, 105 p., brossura
Traduttore: Cacucci Pino
Editore: La Nuova Frontiera (collana Liberamente)

  Il titolo di questo romanzo breve poteva trarre in inganno: in questo periodo di profezie apocalittiche si poteva pensare di avere a che fare con un istant book che ci fornisse gli strumenti e le soluzioni per prepararci all’ineluttabile. E invece…
I narratori sudamericani hanno la capacità di catapultare il lettore in una dimensione quasi fiabesca, sicuramente onirica. Non sfugge a questa caratteristica Yuri Herrera, giovane scrittore messicano, che nella sua narrazione ci accompagna al seguito di Makina, in un viaggio che è alla ricerca di un fratello partito da anni e forse perso, ma che è alla fine un viaggio alla scoperta di sé e della propria consapevolezza.
La vicenda non è particolarmente complessa, i personaggi che hanno un nome sono pochi (gli altri, comprimari, vi appaiono con le sole iniziali), l’intreccio è lineare e si snoda in un percorso a ostacoli, in cui la protagonista deve compiere delle azioni obbligate per superare le tappe che la separano dalla meta finale. Sembra di poter riconoscere in questa fiaba lo schema di Propp, in cui all’eroe (Makina) viene affidato un compito da un mandante (sua madre Cora)  e un oggetto misterioso (un pacchetto avvolto in carta argentata di cui non si conosce il contenuto) da un donatore (il signor Acca), moneta di scambio per la soluzione della missione. A vigilare lungo tutto il percorso, Chucho, l’aiutante, una specie di custode che, strada facendo, fornisce istruzioni su come comportarsi, dove e quando.
Makina, giovane centralinista dall’età indefinita, forte, tenace e coraggiosa, ha gli strumenti per affrontare l’impresa: non si impiccia di cose che non la riguardano, non fa domande inopportune, conosce tre lingue che le faranno da passepartout, sa esigere il rispetto per sé e per l’incarico che deve portare a termine, sa come cavarsela in ogni circostanza.
Tornerà verso il luogo da cui è partita, con una maggiore coscienza di sé e qualche certezza che, nel viaggio di andata, non aveva: il viaggio di Makina si rivela quindi un’esperienza  fortemente formativa.
La scelta di non usare il virgolettato nel discorso diretto rende la narrazione fluida e le dà dimensione introspettiva.  Il lessico ha una valenza determinante, risponde ad uno stile asciutto ed essenziale che porta direttamente al cuore della vicenda, senza ambiguità o sottintesi. L’indefinitezza di luoghi e tempi esaudisce, con rara efficacia, l’esigenza di trasportare il lettore in una dimensione di sogno.

lunedì 17 dicembre 2012

La mamma di Ovidio è una smorfia


La mamma di Ovidio è una smorfia. Una smorfia che le attraversa la faccia ed è solo quella. Non ci sono occhi, strizzati nelle lacrime, non c’è naso, distratto al centro dell’ovale distorto, non c’è mento, annullato nella deformazione, non capelli, attaccati alla fronte in bande lunghe e umide.

Ovidio, 17 anni alti alti, i capelli mori, magro. Ovidio che va a scuola, ma va anche a lavorare per aiutare la famiglia, perché i soldi non bastano, perché il nuovo marito di mamma è disoccupato da tanti anni, perché c’è un fratello piccolo che con lui divide la mamma ma non il papà.  E allora Ovidio la mattina va all’istituto tecnico, vuole il diploma, ma il pomeriggio a raccogliere olive o pomodori a seconda della stagione. Oppure a fare compagnia agli anziani in un centro ricreativo. Oppure a fare le prove a teatro, gli piace recitare.
Con Pietro, il patrigno, litiga sempre: si odiano, una volta Ovidio lo ha pure denunciato per maltrattamenti, gli rimprovera di essere violento con tutti, con la mamma in particolare. Quella mamma che va a fare pulizie nelle case, a nero. Quella mamma che ora è una smorfia.

Ovidio è in bagno: steso a terra, rantola con la testa rotta. Sangue ovunque, soprattutto addosso a Pietro, sporco di quel rosso di figlio, anzi di figliastro. Pietro al culmine di una lite, l’ennesima, mentre la mamma di Ovidio non è in casa, ha preso il mattarello, quello che serve per tirare la sfoglia, e ha colpito colpito colpito, alla cieca, dove capitava ma soprattutto alla testa. Finché Ovidio non si è afflosciato in bagno, il luogo dove cercava rifugio da quella furia bestia, e dove invece è rimasto incastrato, senza più via di fuga.

(l'immagine è presa da http://www.perugia24ore.it/news/perugia/0022378-omicidio-pietrafitta-domani-laddio-ad-ovidio)

giovedì 13 dicembre 2012

Quali lettori?


 

“In Italia, anche chi legge, legge molto poco: il 45,6% dei lettori non ha letto più di 3 libri in 12 mesi, mentre soltanto i "lettori forti", cioè chi ha letto 12 o più libri nello stesso lasso di tempo, è il 13,8% del totale.” Sono dati Istat, riferiti al periodo 2010 e 2011 e pubblicati il 21 maggio 2012 (http://www.istat.it/it/archivio/62518).
I numeri non mentono. Contro la nonna di Formignana che ha divorato centoquarantasei (146!) libri in un anno, finendo in TV, oggi meno di un italiano su due (il 49,7% della popolazione) legge almeno un libro all'anno e anche i lettori ‘forti’, che ne leggono almeno dieci, sono in calo. Vero anche che crescono i lettori occasionali, quelli che leggono uno o due libri all’anno, saliti al 41,1%  rispetto all’11,2% del 2007. (46* Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese 2012). Questo dato forse è il più interessante, specie se si va ad incrociare con le classifiche dei libri più venduti, tra i quali emergono i romanzi della trilogia delle Cinquanta sfumature di E. L. James, libri di tendenza che hanno avvicinato alla lettura anche le signore più refrattarie, grazie al passaparola sotto l’ombrellone. Un fenomeno editoriale del genere -mesi di permanenza ai primi posti delle classifiche , record di vendite già dalle prime settimane dalla pubblicazione- non basta a promuovere tanti lettori ‘forti’.
Piuttosto serve riflettere sull’analfabetismo di ritorno, fenomeno sul quale si sono pronunciati storici della lingua come Francesco Sabatini, Luca Serianni e Tullio De Mauro, una realtà con la quale facciamo i conti quotidianamente: il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà e il titolo di studio non sembra influire su questo dato, dal momento che anche i laureati che smettono di leggere libri regrediscono soprattutto a livello lessicale.
In opposizione a questo fenomeno deflagrante, che cresce in modo esponenziale e di cui indagare le cause sembra facile ma non lo è, esiste un sommerso che ai più è sconosciuto, un mondo di lettori forti che non si misura solo sulla quantità di titoli snocciolati in un anno, ma anche –anzi, soprattutto- sulla qualità delle letture.
I social network pullulano di gruppi di lettori e di iniziative che tendono a dare suggerimenti, a condividere esperienze di lettura; la rete è un grande contenitore dove basta cercare per imbattersi in blog di lettori che hanno voglia di raccontarsi e raccontare dei libri che leggono. Ovviamente bisogna cercare e questo lo fanno solo le persone davvero interessate ai libri. Io l’ho fatto e mi sono imbattuta in una realtà molto stimolante, fatta di salotti letterari virtuali, spesso più vitali dei tanti reali, dove capita che poche persone si espongano e la maggior parte di loro vada per ascoltare e basta. Indagare sui motivi per cui la dimensione virtuale si sta dimostrando particolarmente vivace e reattiva, pur lasciando il mondo dei libri e dei lettori in una nicchia riservata, è compito dei sociologi. A me basta salutare con molto favore il fenomeno, quali che saranno le sue ulteriori evoluzioni.

Qualche suggerimento in rete:
http://letturesconclusionate.blogspot.it/
http://libri.tempoxme.it/index.php?option=com_kunena&view=listcat&Itemid=47
http://inpuntadipenna-sed.blogspot.it/2012/11/il-mondo-e-piccolo-come-una-biglia-che.html?spref=fb

venerdì 7 dicembre 2012

SapereSapori: il pane e la puccia salentina.


Andavo in Salento in vacanza, da nonna Consiglia e zia Maria. Appena finiva la scuola, la zia veniva in Toscana a prendermi e mi portava giù, a casa della nonna, dove trascorrevo due mesi pieni di sole e di mare, con la controra afosa che trascorrevo leggendo di nascosto, perché in famiglia si sosteneva che dopo mangiato si dovesse dormire. Per forza. Io non ci riuscivo, per quanto mi concentrassi sul frinire delle cicale, ma non c’era nulla da fare: allora sgattaiolavo fuori dal letto sistemato ai piedi del lettone della nonna e della zia e mi rifugiavo nella sala da pranzo, su un divano, dove mi stendevo con un libro tra le mani. Poi la zia si alzava e dalla cucina sentivo diffondersi l’odore del caffè. La casa si risvegliava dal sonno pomeridiano, troppo presto ancora per sperare che l’aria rinfrescasse con il calar del sole e così si restava ancora, per almeno un’altra ora, nella penombra delle serrande a metà.
Delle vacanze dalla nonna ricordo il pane: esistevano all’epoca solo due formati di pane bianco, la ‘spaccatella’ e il ‘filoncino’. Il resto era pane di grano duro o di orzo, al massimo le ‘palate’ o la ‘corona’, pagnottelle di semola di grano di dimensioni più piccole che si vendevano aggregate, attaccate tra di loro in forma di rettangolo a tre a tre, oppure a formare appunto una corona. La palata era quella che la nonna preferiva.
Io ero abituata a vedere nei forni toscani una grande varietà di forme: oltre al tradizionale pane ‘sciocco’, che magari veniva da Montespertoli, e la schiacciata unta di olio e sale in superficie, che si portava come merenda a scuola, esistevano la rosetta, il ferrarese, il francesino, la michetta. Non erano formati tipici, ma ormai avevano una grande diffusione ovunque. Tranne che al sud, dove ancora gli artigiani dell’arte bianca non si erano misurati con le forme innovative e restavano ancorati alle tradizioni che si tramandavano da generazioni. Insomma, o era spaccatella o era filoncino, non si sfuggiva. Ma che sapore quella spaccatella con il pomodoro, la sera davanti a “Senza Rete”! La zia era generosa con l’olio, non lesinava sugli ingredienti e quindi era seme di pomodoro, quello messo da parte quando si ‘scucciavano’ i pomodori per farne sugo perché non si buttava nulla, sale, origano e olio extravergine in abbondanza, tanto che mangiando era facile alla fine ritrovarsi mento e mani unte.
Non ero mai stata in Salento nel periodo dell’Avvento e della festa della Madonna Immacolata. Non avevo idea delle tradizioni legate alla vigilia del 7 dicembre, durante le vacanze estive era impossibile che capitasse il discorso anche per caso, troppo lontano il periodo delle feste che preparano al Natale.  Una volta scelto di vivere a Maglie, la novità del digiuno della vigilia e della ‘puccia’ fu una rivelazione: oggi nei panifici c’è una varietà ampia di pani, anche il 7 dicembre. Ma trent’anni fa la vigilia dell’Immacolata non c’era scelta, si panificava solo la puccia con le olive nere o senza. Quella con le olive poi si trovava –e si trova- sempre, ma quella bianca, quella specie di nuvola di grano candido e morbido, alta che si fa difficile addentare, era una prelibatezza esclusiva.
La farcitura obbligatoria della puccia era il tonno, oppure la peperonata ‘de jernu’, d’inverno, quella che si faceva una volta per necessità, mancando gli ingredienti freschi, con i peperoni e le zucchine seccate durante l’estate, gli sponzali (una varietà di cipollotti la cui parte verde, cioè le code, è l’ingrediente indispensabile) e il concentrato di pomodoro. La stessa pietanza, oggi che gli ortaggi freschi –tutti-, li troviamo al supermercato in barba alle stagioni, la facciamo per sfizio.
Per anni la casa della zia, anche quando la nonna non c’è stata più, è rimasta il punto di riferimento per consumare la puccia. Lei preparava la peperonata e comprava le scatole grandi di tonno, quelle dove i tranci sono più grossi e compatti, non le scatolette dove il tonno era sbriciolato e c’era più olio che pesce. Oggi nemmeno la zia Maria c’è più, ma ogni 7 dicembre che arriva, ogni puccia che compro, ogni volta che mi siedo al tavolo ‘scunzato’, non apparecchiato, per consumare il digiuno della vigilia, io rivivo le sue spaccatelle estive grondanti olio e la puccia mangiata in sua compagnia.

mercoledì 5 dicembre 2012

Frequentando salotti letterari… “Lasciamisenzafiato” di Elvio Calderoni




Lasciamisenzafiato

Autore: Calderoni Elvio
Dati: 2011, 240 p., brossura
Editore: Miraggi Edizioni (collana Golem)

Bisogna saper entrare in molte teste per scrivere un romanzo come questo. Bisogna saper parlare molte lingue dell’anima, riuscire a calarsi in stati d’animo e sensazioni distanti e addirittura opposti, in un gioco dicotomico di luci e ombre, di positivo e negativo, di sereno e nervoso, dove però tutto si può ribaltare e ciò che era luminoso diventa buio, ciò che era solido e sicuro diventa avverso, ciò che era solare diventa inquieto.
Alessandro e Irene sono alla vigilia del loro matrimonio, che si svolgerà a Cividale del Friuli: dopo li aspetta Roma, dove si sono conosciuti e dove Irene comincerà una nuova vita da sposata, in una città che non è la sua, ma dove ha conosciuto Alessandro e dove è fiduciosa di trovare la felicità accanto all’uomo che sente giusto per lei, forte anche di una Fede incrollabile. Tra loro, in quei pochi giorni che li separa dalla cerimonia nuziale, si frappone una donna, un’entità quasi irreale, ma con una fisicità prepotente che disorienta Alessandro dal primo momento in cui la vede. E tutto quello che segue vede protagonisti personaggi legati tra loro da relazioni che mano a mano diventano sempre più profonde, quando non lo sono già, come nel caso di Alessandro e suo fratello Federico, che vivono insieme un rapporto quasi simbiotico. Infine un epilogo inaspettato, in cui tutti i tasselli della vicenda e dei personaggi coinvolti si ricompongono come in un puzzle complesso -eppure dal disegno chiaro-, capovolge situazioni e collegamenti.
Se dovessi sintetizzare con un aggettivo ognuno dei personaggi che danno vita alla storia, questa potrebbe essere la lista, di quasi tutti aggettivi che hanno il prefisso di negazione, tranne quello scelto per Alessandro e per Irene:
·      Alessandro : interrotto
·      Irene: misurata (fino a prova contraria)
·      Federico: irrisolto
·      Clara: inquieta e inquietante
·      Barnaba: incompleto
La scrittura di Calderoni è piana e lineare, nonostante la complessità dei pensieri dei suoi personaggi, che sono resi in maniera lucida e senza possibilità di equivocare intenzioni, stati d’animo, dolori: il lettore entra in una spirale di avvenimenti quasi senza accorgersene e arriva in fondo alla storia, senza fiato, con la sensazione di aver vissuto con i protagonisti le strade di Cividale e il traffico di Roma, la musica di Federico e le foto di Alessandro, le lacrime di Clara, il dolore sordo di Irene, lo stupore inesperto di Barnaba.