Andavo in Salento in vacanza, da nonna
Consiglia e zia Maria. Appena finiva la scuola, la zia veniva in Toscana a
prendermi e mi portava giù, a casa della nonna, dove trascorrevo due mesi pieni
di sole e di mare, con la controra afosa che trascorrevo leggendo di nascosto,
perché in famiglia si sosteneva che dopo mangiato si dovesse dormire. Per
forza. Io non ci riuscivo, per quanto mi concentrassi sul frinire delle cicale,
ma non c’era nulla da fare: allora sgattaiolavo fuori dal letto sistemato ai
piedi del lettone della nonna e della zia e mi rifugiavo nella sala da pranzo,
su un divano, dove mi stendevo con un libro tra le mani. Poi la zia si alzava e
dalla cucina sentivo diffondersi l’odore del caffè. La casa si risvegliava dal
sonno pomeridiano, troppo presto ancora per sperare che l’aria rinfrescasse con
il calar del sole e così si restava ancora, per almeno un’altra ora, nella
penombra delle serrande a metà.
Delle vacanze dalla nonna ricordo il
pane: esistevano all’epoca solo due formati di pane bianco, la ‘spaccatella’ e
il ‘filoncino’. Il resto era pane di grano duro o di orzo, al massimo le
‘palate’ o la ‘corona’, pagnottelle di semola di grano di dimensioni più
piccole che si vendevano aggregate, attaccate tra di loro in forma di
rettangolo a tre a tre, oppure a formare appunto una corona. La palata era
quella che la nonna preferiva.
Io ero abituata a vedere nei forni
toscani una grande varietà di forme: oltre al tradizionale pane ‘sciocco’, che
magari veniva da Montespertoli, e la schiacciata unta di olio e sale in
superficie, che si portava come merenda a scuola, esistevano la rosetta, il
ferrarese, il francesino, la michetta. Non erano formati tipici, ma ormai
avevano una grande diffusione ovunque. Tranne che al sud, dove ancora gli
artigiani dell’arte bianca non si erano misurati con le forme innovative e
restavano ancorati alle tradizioni che si tramandavano da generazioni. Insomma,
o era spaccatella o era filoncino, non si sfuggiva. Ma che sapore quella
spaccatella con il pomodoro, la sera davanti a “Senza Rete”! La zia era
generosa con l’olio, non lesinava sugli ingredienti e quindi era seme di
pomodoro, quello messo da parte quando si ‘scucciavano’ i pomodori per farne
sugo perché non si buttava nulla, sale, origano e olio extravergine in
abbondanza, tanto che mangiando era facile alla fine ritrovarsi mento e mani
unte.
Non ero mai stata in Salento nel
periodo dell’Avvento e della festa della Madonna Immacolata. Non avevo idea
delle tradizioni legate alla vigilia del 7 dicembre, durante le vacanze estive
era impossibile che capitasse il discorso anche per caso, troppo lontano il
periodo delle feste che preparano al Natale.
Una volta scelto di vivere a Maglie, la novità del digiuno della vigilia
e della ‘puccia’ fu una rivelazione: oggi nei panifici c’è una varietà ampia di
pani, anche il 7 dicembre. Ma trent’anni fa la vigilia dell’Immacolata non
c’era scelta, si panificava solo la puccia con le olive nere o senza. Quella
con le olive poi si trovava –e si trova- sempre, ma quella bianca, quella
specie di nuvola di grano candido e morbido, alta che si fa difficile
addentare, era una prelibatezza esclusiva.
La farcitura obbligatoria della puccia
era il tonno, oppure la peperonata ‘de jernu’, d’inverno, quella che si faceva
una volta per necessità, mancando gli ingredienti freschi, con i peperoni e le
zucchine seccate durante l’estate, gli sponzali (una varietà di cipollotti la
cui parte verde, cioè le code, è l’ingrediente indispensabile) e il concentrato
di pomodoro. La stessa pietanza, oggi che gli ortaggi freschi –tutti-, li
troviamo al supermercato in barba alle stagioni, la facciamo per sfizio.
Per anni la casa della zia, anche quando la nonna non c’è stata più, è rimasta il punto di riferimento per consumare la puccia. Lei preparava la peperonata e comprava le scatole grandi di tonno, quelle dove i tranci sono più grossi e compatti, non le scatolette dove il tonno era sbriciolato e c’era più olio che pesce. Oggi nemmeno la zia Maria c’è più, ma ogni 7 dicembre che arriva, ogni puccia che compro, ogni volta che mi siedo al tavolo ‘scunzato’, non apparecchiato, per consumare il digiuno della vigilia, io rivivo le sue spaccatelle estive grondanti olio e la puccia mangiata in sua compagnia.
Per anni la casa della zia, anche quando la nonna non c’è stata più, è rimasta il punto di riferimento per consumare la puccia. Lei preparava la peperonata e comprava le scatole grandi di tonno, quelle dove i tranci sono più grossi e compatti, non le scatolette dove il tonno era sbriciolato e c’era più olio che pesce. Oggi nemmeno la zia Maria c’è più, ma ogni 7 dicembre che arriva, ogni puccia che compro, ogni volta che mi siedo al tavolo ‘scunzato’, non apparecchiato, per consumare il digiuno della vigilia, io rivivo le sue spaccatelle estive grondanti olio e la puccia mangiata in sua compagnia.
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