martedì 29 ottobre 2013

Ultima lettura: "Parlo d'amor con me" di Paola Calvetti


Parlo d’amor con me

Autore   : Calvetti Paola
Dati: 2013, 126 p., brossura
Editore: Mondadori (collana Libellule)

E se non ho chi m’oda,
parlo d’amor con me!
(Le nozze di Figaro, Atto I)

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Finché ho avuto tra le mani questo libretto, il titolo di questo romanzo, che in realtà non so nemmeno se definire romanzo e vedremo perché, mi ha attirato e respinto allo stesso tempo. Si tratta di un verso –che non conoscevo, confesso- de Le Nozze di Figaro, l’opera buffa di Wofgang Amadeus Mozart in tre atti, musicata su libretto di Lorenzo Da Ponte nel 1786: non conoscendo l’aria dell’opera da cui questo verso è tratto, mi sono chiesta cosa potesse significare parlare d’amore con se stessi e soprattutto cosa significasse questo titolo in relazione alla storia che leggevo. Non so sinceramente se l’ho compreso, al di là del fatto che in una storia ambientata in una casa di riposo per artisti, come quella fatta costruire a Milano da Giuseppe Verdi, era quasi scontato che la scelta del titolo potesse ricadere su una frase tratta da un’opera lirica. Ma forse ci sono motivi altri che lo giustificano, che però mi sfuggono. Se insisto tanto sull’effetto che mi ha fatto il titolo di questo libro è perché in generale mi faccio attirare da quelle che Genette chiama ‘soglie’, cioè i dintorni dei testi, titolo compreso. E questo libro forse non lo avrei letto se non lo avesse scritto Paola Calvetti, che compro a scatola chiusa e leggo a prescindere, sulla fiducia. Mi sono fiduciosamente accostata quindi alla lettura, pur con qualche riserva dovuta ad un titolo che non mi piaceva (e alla fine ho capito che qualche volta rischiamo di perdere l’ occasione di una buona lettura, solo sulla base di prime impressioni, così come altre volte, viceversa, prendiamo qualche granchio).
Una volta chiusa l’ultima pagina mi sono chiesta come incasellare questo libro, quale collocazione di genere dargli, non riuscendo a considerarlo un vero e proprio romanzo, perché è la raccolta di tante storie, tante quanti sono i personaggi incontrati da Ada, cameriera che lavora a Casa Verdi e che coltiva il segreto sogno di divenire una cantante lirica.
Che la musica, l’opera lirica, il mondo del bel canto siano una passione di Paola Calvetti si sa: per anni ha diretto l’ufficio stampa del Teatro alla Scala, quello è un mondo che le è congeniale e che è tornato spesso nei suoi romanzi (L’amore segreto, ad esempio e ancora L’addio), forse mai come questa volta è rappresentato con tanto amore e desiderio di rendergli omaggio. In questo ambiente si inseriscono le personalità degli artisti che vivono nella casa di riposo voluta dal grande Maestro, amorevolmente raccontati da Ada, un personaggio femminile quasi maldestro, con un grande desiderio di svelare il suo talento di soprano che vivrà una sola occasione. Così, attraverso la voce di Ada, si snocciolano le storie personali, i vezzi e i capricci, le vecchiaie vissute con dignità e a volte frivolezza, con desideri ancora vivi e vanità scoperte. Immagino che l’autrice abbia trascorso lunghi pomeriggi in compagnia degli ospiti di Casa Verdi, tutti presenti nei ringraziamenti finali (altra soglia!), disegnandone in breve le biografie: la immagino prendere appunti o semplicemente ascoltare i ricordi, farsi portavoce delle emozioni perdute, sentire l’odore della polvere del palcoscenico insieme a quegli artisti ormai a riposo. Si potrebbe quindi pensare che il libro si è scritto da solo, che era tutto lì, raccolto nei racconti della violinista Agostina Aliprandi, del tenore siciliano Giuseppe Catena, della soprano giapponese Matsumoto Kitose (la Kimiko che aveva il sogno di cantare in italiano e studiava la lingua sul dizionario militare), del violista genovese Marcello Turio, del contralto Stefania Sina e di tutti gli altri. Insomma, poteva sembrare un compito facile, quello di inventare una cornice (Ada, i suoi sogni di gloria, l’andamento della gestione della casa) e di inserirci come cammei le storie di ciascuno dei protagonisti. Invece c’è il tocco di Paola Calvetti, la cui scrittura delicata, preziosa senza preziosismi, curata nel minimo dettaglio, accompagna con garbo il lettore attraverso queste vite un po’ svanite, ma ancora affascinanti. Una lettura che fa riflettere sul valore della memoria, di certa arte, di una vecchiaia che a volte ci sembra un’inutile attesa e che spesso è invece una vitale risorsa.

PS. Alla fine non ho deciso come classificare questo libro, se sotto l’etichetta di romanzo o di raccolta di racconti in un unico atto: lo faccio comunque per i tag…

domenica 20 ottobre 2013

Ultima lettura: "Marina Bellezza" di Silvia Avallone


Marina Bellezza

Autore   : Avallone Silvia.
Dati: 2013, 509 p., rilegato; ePub con DRM 3,1 MB
Editore: Rizzoli (collana Scala italiani)

“È il momento di guarire, si disse Andrea, di diventare adulti”


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#MarinaBellezza alla fine della prima parte toglie il fiato. Partito in sordina, diventa travolgente”: questo è ciò che pensavo e scrivevo su Twitter, dopo la lettura delle prime duecento pagine, quelle della sezione “Far West” (cui seguono “Parte seconda: Cowboy vs Cinderella” e “Parte terza: Eldorado”). Fino a quel momento ero andata avanti confidando nella bontà della storia e in personaggi che già mi sembravano ben disegnati, ma solo dopo quelle prime duecento pagine, il romanzo è decollato, trascinandomi come non mi accadeva da tempo.
Marina e Andrea sono giovani e fanno una scommessa con la vita; vanno però in direzioni opposte, lei verso la sperata carriera di cantante, supportata da concorsi e partecipazioni a talent show, lui alla ricerca delle radici e dell’essenziale per poter confidare in un futuro concreto, di duro lavoro sulla montagna. Lei, incapace di vivere senza l’apprezzamento altrui, lui che viceversa quel consenso lo rifugge, sono agli antipodi per carattere e aspirazioni, si attraggono e si respingono continuamente: il loro è un amore inesorabile, a tratti distruttivo eppure capace di energia positiva, a tratti ottimista.
Quando è così, quando puoi pensare che adesso le cose si mettono bene, che la felicità potrebbe essere a portata di mano, tifi per Andrea, che dei due nel rapporto sembra il più dipendente, capace di accettare per amore ciò che più detesta (i centri commerciali affollati dove lei si esibisce, lo showbiz al quale Marina invece aspira con tutte le sue forze, l’imperfezione della vita alla quale lei lo costringe, la precarietà che accompagna i loro incontri), anche se poi, nel momento in cui ciclicamente accade il diluvio tra loro, speri solo che Andrea guarisca da lei o che lei guarisca da se stessa. Allo stesso modo non riesci a tenere per lei, perché Marina è irritante ed egoista, è una che gioca a nascondino, è una di quelle persone che “non cambiano perché non possono cambiare. Le persone come Marina non appartengono a nessuno, perché non riescono ad appartenere nemmeno a loro stesse”. E a lei Andrea dice «Tu fai le cose così: perché ti va di farle. Non t’interessano le conseguenze, non t’interessano gli altri…». Intanto però ti fa tenerezza, nella sua ostinazione.
Insomma, in questa storia è facile parteggiare, è facile lasciarsi trasportare, patire e compatire. Un pregio non di poco, in un momento in cui leggere storie che veramente raccontino qualcosa è sempre più difficile. A questo si aggiunge una scrittura fluida e coinvolgente, una sintassi piana e incisiva: le parole si strutturano in costruzioni pulite, non c’è un momento in cui ti chiedi cosa vogliano dire, quale sia il significato nascosto tra le righe. Tutto è lì, facile, quindi puoi concentrarti su Andrea e Marina, sulle loro famiglie diversamente stortignaccole, ma disastrate allo stesso modo, sulle frustrazioni di Elsa, la ex compagna di liceo di Andrea, dottoranda di ricerca senza un futuro possibile. Puoi concentrarti sugli amici di Andrea, quelli che assisteranno alla sua rovina e alla rinascita, su Donatello, improbabile agente di spettacolo, sulle vacche grigie sulle quali si concentrano le speranze di un giovane che, in un momento così critico per l’economia, decide di puntare sul passato di suo nonno, sulle montagne.
La fine del romanzo ti lascia interdetto a chiederti quale sia la direzione giusta per questi personaggi, quale sia la scelta che Marina sembra fare, fino a quando durerà, se durerà. Marina Bellezza ha tiranneggiato per oltre cinquecento pagine e lo fa fino in fondo, quando ormai pensi che non può succedere null’altro. E invece…
“@Exlibris2012: Saluto a malincuore #MarinaBellezza di Silvia #Avallone, bravissima a disegnare un personaggio grandioso, una specie di bisbetica domata”

sabato 12 ottobre 2013

Come quando


Come quando ti tagli le unghie cortissime. Perché si è spezzata quella del pollice e allora devi per forza accorciarla e poi, non si capisce come, si spezza anche quella dell’indice e neanche fosse un’epidemia, ti sembra che tutte siano lunghe in modo irregolare, antiestetico. Provi a togliere lo smalto con il solvente, pensi che magari te le puoi limare, portarle tutte alla stessa lunghezza, non troppo né poco, una cosa giusta, sobria. E magari provare a mettere lo smalto color avorio, quello per la french, che poi sembra che hai su quello trasparente, fa molto fine. Poi, mentre sei lì a passare la lima di cartone, quella con la carta vetro, sottile da un lato e sottilissima dall’altro, decidi di ricominciare da zero, prendi il tronchesino e tagli le unghie dritte, come se le tue fossero mani di uomo. Perché pensi che così puoi cominciare dal nuovo, da zero appunto, come se non fossero mai state rosse ad adornare, in perfetti ovali, le punte delle tue dita.

Come quando decidi che vuoi cambiare tutto e cominci col fare ordine in quel cassetto dove per anni hai ficcato tutto quello che non trovava posto altrove, tutto quello che non aveva proprio per niente un posto: non avevi previsto che per le pile, i lacci per le scarpe, gli elastici, le ricevute, i santini che hai preso in chiesa, i pacchetti di chewingum cominciati, le matite spuntate, le biro consumate, che non vuoi buttare perché ti piacciono e poi non sai dove differenziarle perché sono fatte di plastica ma anche di metallo, ci dovesse essere un posto preciso. E così hai buttato tutto lì, in quel cassetto, che ora pretendi di svuotare per fare pulizia e per scoprire che il tempo non ti basta e così rimetti tutto dentro e chi s’è visto, s’è visto, sarà per un’altra volta.

Come quando scorri la rubrica dei contatti sul tuo cellulare e sai che molti di quei nomi ormai è inutile tenerli in memoria, ché è solo una memoria virtuale, mentre la tua, quella vera, non conserva altro che immagini sbiadite, discorsi lisi, risate consumate e soprattutto ormai inutili. E allora pensi che puoi cominciare da lì, che forse devi cancellare qualcuno di quei nomi, che forse tra quelli c’è chi lo ha già fatto con il tuo e cancellandoti il nome ti ha eliminato dalla sua vita e tu non lo sai. Quindi è una prova di forza, pensi che non sia necessario portarsi sempre dietro un fardello di passato, che i tuoi ricordi non servono più, non sono nemmeno tanto vividi ormai, a che ti servono?

Insomma, è come quando decidi che, arrivata a un certo punto, devi riprenderti la vita, devi cambiare registro e voltare pagina, tirare un’altra volta il dado e vedere cosa esce. Ma poi, come quando è Capodanno e vuoi buttare le cose vecchie e ti metti le mutande rosse ché porta bene e indossi qualcosa di nuovo, ti accorgi che, passato appena un po’ di tempo, quello che serve per abituarsi, il nuovo è già vecchio e di quello che hai cominciato, è già ora di sbarazzarsi.

NB. Questo racconto è apparso già nel blog di Saverio Simonelli Inoltre: grazie a Saverio per la squisita ospitalità.

martedì 8 ottobre 2013

Ultima lettura: "Cate, io" di Matteo Cellini


Cate, io

Autore: Cellini Matteo
Dati: 2013, 216 p., rilegato
Editore: Fazi (collana Le strade)

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Il compleanno dei diciotto anni è la tappa più attesa per un adolescente. Non è così per Caterina, altrimenti Cate, la protagonista del romanzo d’esordio di Matteo Cellini, vincitore del Campiello Opera Prima 2013.
Caterina è obesa in un famiglia di obesi, dove ha un posto e sa di esistere come Caterina, appunto. Fuori dalla sua casa invece è una non persona, così si definisce, ed ogni volta è Cate-ciccia, Cater-pillar, Cate-bomba. Caterina si attrezza ed esce ogni giorno a fare la guerra, vedendo in tutti dei nemici nati apposta per prenderla in giro: ecco perché non salta un giorno di scuola, per essere sicura che in sua assenza non si parli di lei. Ma arriva il momento in cui di lei si deve parlare per forza, perché arriva il suo diciottesimo compleanno e dovrà essere festeggiato come tutti quelli dei compagni di scuola che l’hanno preceduta: stesso locale, stesse pizzette, stessa musica e stessa scelta del vestito per la festa. Già, il vestito per la festa, la farsa, la finzione, il simbolo di ciò che deve fingere di essere e che non si sente di essere, un’adolescente come un’altra. Sarà rosso, così si vede meglio. Un incubo.
In effetti Caterina non è un’adolescente come un’altra e non tanto perché è obesa, o meglio, non solo perché è obesa, ma perché questa sua condizione l’ha fatta diventare un’acuta osservatrice della realtà che la circonda e di cui analizza spietatamente e sarcasticamente tic, vizi, eccessi, sempre però dal suo punto di vista, che è viziato da uno sguardo fin troppo disincantato, che a volte non vuole vedere ciò che è evidente, ad esempio l’amicizia e l’affetto di Anna, la sua compagna, quella che sale ogni mattina con lei le scale dell’edificio scolastico. E se Caterina è ogni volta Cate-ciccia ,Cater-pillar o Cate-bomba, anche lei ha soprannomi cattivi per gli altri: Anna è l’Annoievole, Antonella è Analfabeta, Giulio l’Amante (perché sempre innamorato e mai corrisposto). Insomma, anche Caterina è feroce e non solo con se stessa.
La vita di Caterina scorre tra lezioni e casa, attraverso il rapporto che ha con i genitori, i fratelli, la nonna con la quale condivide letture impegnative, la Prof. Mazzantini, Anna e infine Giacomo, che rappresenterà la sorpresa e il riscatto di questa ragazzina difficile ed esigente.
A Matteo Cellini va il merito di aver saputo mettersi negli ingombranti panni di Caterina, dando voce ai suoi pensieri e alle sue azioni, talvolta disperate: la descrizione dell’attacco bulimico che sorprende Cate (e sorprende soprattutto il lettore per la sua violenza) ha qualcosa di drammaticamente verosimile, che disturba e allo stesso tempo attrae, come se non ci si volesse fermare, per sapere fino a che punto una crisi autodistruttiva del genere può arrivare. Tuttavia non si può passare oltre alcune sinestesie, similitudini e metafore improbabili, per non dire di alcune costruzioni sintattiche ardite, delle quali Cellini sembra compiacersi: frasi come “il caffè macchia l’aria di un odore forte come un cane dalmata” o “mando in frantumi il piano regolatore della notte” lasciano interdetti a chiedersi cosa significhino.
“Cate, io” è un libro che si legge facendo un po’ di fatica, che stenta a decollare, che non riesce a coinvolgere per l’assenza di azione, fino a quando un avvenimento e due cominciano a ‘fare storia’ e allora ci si fa prendere e si arriva in fondo, con la consapevolezza raggiunta che questa storia un significato ce l’ha, anche se è difficile da trovare.


mercoledì 2 ottobre 2013

Ultima lettura: "L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore" di Michela Marzano


L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore

Autore: Marzano Michela
Dati: 2013, 206 p., brossura; 285,6 KB, ePub
Editore: UTET

"L'amore non dà tregua. È esigente.
 E basta un attimo per restare con il guscio vuoto 
di tutto quello che si è perso"

“L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore” è il nuovo libro di Michela Marzano, giovane filosofa, direttore del dipartimento di Scienze sociali alla Sorbona, che ha sollevato all’inizio della mia lettura non poche perplessità. Non perché non mi piacesse, ma semplicemente perché mi aspettavo altro. Mi aspettavo il classico saggio sull’amore, probabilmente sulla scorta della fama della Marzano, studiosa della Normale di Pisa, giovanissima affermata docente universitaria, commentatrice de La Repubblica e deputato del PD.
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Invece scopro che, rinunciando sempre al tono cattedratico e austero che spesso il saggista assume, già in precedenza l’autrice si era misurata con tematiche complesse come le dinamiche di oppressione femminile e sudditanza al potere maschile (“Sii bella e stai zitta. Perché l'Italia di oggi offende le donne”, Mondadori 2010) o come l’impatto che il consumo della pornografia ha sulle giovani generazioni (“La fine del desiderio”, Mondadori 2012), o ancora come il senso e il valore della fiducia negli altri nella società di oggi (“Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri”, Mondadori 2012). E scopro anche che Michela Marzano non è nuova al raccontarsi. Lo ha fatto anche con “Volevo essere una farfalla” (Mondadori, 2011), dove affronta il tema dell’anoressia mentale, a partire dalla sua esperienza.
A questo punto non è stato difficile comprendere il motivo per cui l’autrice sceglie di parlare d’amore utilizzando la sua storia personale come paradigma e partendo da Emily Dickinson, poetessa statunitense tra i maggiori lirici del XIX secolo, votata ad un amore platonico e infelice che le occuperà tutta la vita, della quale cita “Che l’amore sia tutto quel che c’è”.
Alla mia generazione non sono mancate le letture giovanili sul tema dell’Amore: Erich Fromm con “L’arte di amare” e Alberoni con “Innamoramento e amore” sono stati forse gli autori e le opere più letti e più discussi degli anni Ottanta; inoltre, da altre recenti letture in cui è citato, scopro che un po’ di argomenti di confronto sarebbero derivati anche da quel “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes, che solo adesso mi appresto a leggere, insieme ad ”Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi” di Zygmunt Bauman, tanto per citare un testo più recente, presente nella bibliografia consultata dalla Marzano. E nella bibliografia di “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore” sono presenti titoli di saggistica (i già citati Fromm, Barthes e Bauman , ma anche Marx, Kierkegaard, Nietzsche, Pascal) accanto ad autori di poesia e di narrativa (La Dickinson che ha suggerito il titolo a questo libro, Pavese, Stendhal, Valéry, Buzzati, Carrol), segno che Marzano ha trovato stimoli per la riflessione sul tema sia presso i filosofi che presso gli scrittori, cercando ovunque sostegno alle proprie teorie. Tuttavia Marzano trova che le numerose pubblicazioni filosofiche spesso non soddisfino pienamente l’esigenza di sapere di più dell’amore, che si limitino quasi esclusivamente alle distinzioni tra eros, philia e agape e che non abbiano le parole (o il coraggio) di dire semplicemente “che l’amore è l’unico rischio che vale la pena correre”.
Le sue teorie partono quindi principalmente dalla sua esperienza diretta, che racconta qui senza falsi pudori, aprendosi completamente e sviscerando reazioni, pensieri, dolori.
Ho quindi pensato di partire dalle note al libro che ho evidenziato sul mio ereader e sulle perplessità che mi venivano procedendo nella lettura. Perplessità che avevano origine dalla domanda “ma si può pretendere di parlare dell’amore in senso generico, pensando che la propria esperienza possa essere assunta da tutti come insieme di tratti universali”? e che erano destinate a sciogliersi, conclusa la lettura. Perché in effetti, se si parte da ciò che si sa bene perché si è vissuto, si troverà sempre qualcuno che si riconoscerà in ciò che si racconta.
Così Michela Marzano parte dai sogni di bambina, presto infranti contro il muro delle ferite, delle disillusioni, delle perdite. Procede con l’analisi dei comportamenti che è più facile assumere, coltivando aspettative destinate a restare deluse (”Forse non ci si dovrebbe aspettare proprio niente, visto che le cose più belle accadono sempre all’improvviso”) e recriminazioni che non portano nulla (“Perché lui non c’è. Oppure c’è, ma non ascolta. Oppure ascolta, ma non capisce”: quante donne non l’hanno mai pensato del proprio uomo? Ma “noi donne siamo spesso ridicole. Talvolta patetiche”). Continua, Michela Marzano, con l’esaminare l’immaginario, le lenti deformanti con le quali l’amante vede l’amato, con la paura della perdita che tiene vivo un rapporto (“Ed è proprio quando non si ha più paura di perdere la persona amata, che l’amore si spegne” e forse è vero, ma sarebbe bello poterne discutere: la provocazione, lanciata su Twitter durante la lettura, ha sollevato un piccolo dibattito), con le zone d’ombra che ogni rapporto amoroso porta con sé.
Un aspetto estremamente interessante riguarda il dissenso, la possibilità di riconoscere all’altro il diritto di mandarci a quel paese ogni tanto, perché ciò non toglie nulla all’amore che prova per noi. E ancora quella capacità, credo prettamente femminile, di piegarsi alle esigenze di libertà dell’uomo, di accontentarsi anche delle briciole del tempo che lui può dedicarci (“Lo guardo in silenzio mentre il cuore impazzisce dentro. Un silenzio lungo un’eternità. Prima di dirgli che mi accontento di poco. Che va bene lo stesso. Che sto bene anche da sola.”).
L’autrice passa in rassegna i suoi dubbi, i suoi timori e le sue insicurezze di giovane adulta che si interroga anche sulla maternità, sull’amore di una madre per il proprio figlio, con una domanda ricorrente: “Ma se poi ho un figlio mi devo alzare presto per accompagnarlo a scuola, vero?”, come se non avere voglia di farlo possa diventare motivo di disapprovazione da parte degli altri.
La scrittura di Michela Marzano avanza linearmente, a seguire il flusso delle riflessioni, che si affacciano alla mente conseguentemente l’una all’altra. Torna sui concetti, come se ci ripensasse via via che si presentano nuovi aspetti da sviscerare. E questa giustapposizione di pensieri procede per frasi nominali, brevi e contrapposte come idee puntuali alle quali dare voce immediata, senza studiarne troppo la resa retorica, anzi, senza alcuna retorica, semplicemente mettendosi a nudo e facendosi riconoscere.