giovedì 6 novembre 2014

Sul comodino: "Diceria dell'untore" di Gesualdo Bufalino


Diceria dell’untore

Autore: Bufalino Gesualdo
Dati: 2009, 213 p., brossura (prima ediz.originale 1981)
Editore: Sellerio (collana La rosa dei venti)



Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia,
del fuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigiama com’erano,
 a scendere in giardino per piangere finalmente da soli,
con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina:
chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate,
mentre le coglie e disorienta
l’indorarsi fulmineo del mondo,
al di là del muro di cinta?

Photo HelenTambo on Instagram
Leggo un’edizione speciale di “Diceria dell’untore”, inserita nella collana I grandi romanzi italiani, edita da RCS Libri per il Corriere della Sera nel 2003. Qui però fornisco i dati dell’edizione Sellerio uscita per il quarantennale della casa editrice, che per prima ha pubblicato il romanzo nel 1981, grazie alla felice intuizione di Leonardo Sciascia e di Elvira Sellerio appunto. Mi sembra giusto così, nonostante poi negli anni “Diceria dell’untore” sia stato pubblicato in molte altre edizioni, anche da altri editori; mi sembra giusto rendere il merito di una scoperta letteraria a un editore che all’epoca ha scommesso su un romanzo che aveva una storia riluttante, segreta e travagliata e che forse non sarebbe mai uscito dal cassetto del suo autore che lo aveva custodito per anni, dal 1950 quando lo aveva iniziato a scrivere intorno ai trent’anni, per riprenderlo venti anni dopo e pubblicarlo infine nel 1981.
Non bastasse la vicenda faticosa della sua uscita, o forse proprio per questo motivo, questo romanzo aspettava da oltre dieci anni che lo leggessi, ne avevo soggezione. Acquistato proprio in occasione della pubblicazione nella collana sopra citata, consapevole che fosse un libro ‘da leggere’, ero affascinata e insieme intimorita dal molto, troppo rumore che aveva accompagnato la sua pubblicazione (cosa che in genere invece mi fa respingere i libri di cui si parla troppo -e spesso a sproposito-, nel timore che si tratti di operazioni troppo spinte sul piano commerciale e poco artistiche: fisime da lettrice disordinata).
La fama tardiva e fulminea del suo autore, la cui morte violenta e improvvisa nel 1996 ne ha interrotto la frenetica carriera al culmine, i discorsi intorno allo stile prezioso e ricercato di Bufalino, i premi riconosciuti non solo a “Diceria dell’untore” (Campiello, 1981) ma anche ad opere successive (“Menzogne della notte”, Premio Strega 1988, quando ancora parlare di premi letterari in Italia aveva un vero senso), il mistero di una vita riservata e ripiegata nel culto delle Lettere, non hanno fatto altro che accrescere il mio timore reverenziale ad accostarmi a cotanto scrittore.
Ma insomma, per farla breve, prima o poi il momento arriva, si cerca l’occasione magari, anche coinvolgendo altri lettori nel confronto: ho trovato quel momento nell’ambito di un gruppo di lettura che periodicamente si riunisce in case private, discute del libro scelto nell’incontro precedente e conclude la serata con una cena in tema (momento ricreativo e conviviale che rappresenta un ulteriore stimolo).
Quindi ora sono completamente immersa nel racconto sospeso della reclusione in un sanatorio, tra recite e amori e attese, esclusione dalla buona salute e inclusione nella dimensione irreale dell’essere stati e il non essere quasi più, ormai ombre precarie della vita. Quello che al momento mi colpisce della vicenda non è tanto il ‘cosa’ (la trama è semplice, si tratta del racconto dell’amore tra un giovane reduce di guerra e Marta, che si incontrano nel 1946 nel sanatorio della Rocca, presso Palermo: le storie personali dei due giovani e il destino che li attende, fanno dipanare la vicenda in un crescendo di emozioni intense), ma il ‘come’: lo stile di Bufalino si alterna senza strappi tra pura lirica ed ironia sferzante, nel racconto dei fatti e nel tratteggio dei personaggi.
Avevo ragione ad essere intimorita: la parola di Gesualdo Bufalino è ricamo pulito ed essenziale, ma preziosamente disegnato, impossibile da rifare con lo stesso effetto. Penso a quanti scrittori hanno provato a giocare con le parole, volendo fare i ricercati e ottenendo invece risultati assai incerti (qui un esempio). E penso che la famosa musicalità della parola (che chimera, che illusione!) sia quanto di più difficile da riprodurre, soprattutto nei suoi effetti sul lettore, che deve riuscire a staccare, anche solo per un attimo, i meri significati dai loro significanti e godere di questi ultimi come se fossero acqua nel deserto.
Finirò di leggere questo romanzo nei prossimi giorni: lo sto centellinando, come se non ne volessi vedere la fine.