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venerdì 28 aprile 2017

"Nascosti davanti a tutti" di Fabrizio Manzetti

Non avrebbe mai pensato che avere dei figli 
avesse potuto significare imparare più di quanto fosse necessario insegnare, 
e da lui e Michele aveva imparato a non cercare la pace, 
ma crearla con piume, foglie e mani. 

È un bell’esordio questo di Fabrizio Manzetti, scrittore emergente che ci regala sedici bozzetti di vita quotidiana, sedici squarci, vedute su esistenze ordinarie colte in momenti a loro modo speciali, unici.
Nella vita di tutti i giorni le azioni si ripetono, incanalandosi in routine che sembrano distrarre dalle esigenze interiori più nascoste e che presentano, a un certo punto, uno scarto dall'ordinario che conclude piccole storie di microcosmi umani. Eppure siamo tutti davanti a tutti, uguali a tanti, in storie comuni in cui riconoscersi è facile. 
Manzetti esplora i temi più vari dell’esistenza umana, narrando di un incontro fortuito su un treno di pendolari, che si vuol credere combinato dal destino e forse lo è, oppure di un amore che non muore, nonostante tutto, perché non si riesce a far andar via l’altro quando in fondo un equilibrio c’è. Oppure ancora di un gatto che diventa il lasciapassare per una nuova vita, l’unico motivo per ricominciare altrove; e poi del dolore silenzioso di Rieger, colto tipografo successivamente correttore di bozze e scopritore di talenti letterari, poi “invisibile” che vive nel mondo parallelo dei barboni, per caso o per scelta “tutti uguali davanti alla miseria”. 
In “Nascosti davanti a tutti” c’è il dolore muto che non emerge dai gesti quotidiani, ma esplode in un ultimo inaspettato ed eclatante gesto, perché a certe ingiustizie della vita, come è sopravvivere a un figlio, non si fa mai l’abitudine. E senza pensare alle sofferenze più tremende che possono attraversarci la vita, basterà volgere lo sguardo verso la ragazzina che decide di smettere con le lezioni di musica, perché un crack dentro ha spaccato tutto. 
Tra i tanti temi che l’A. indaga, c’è quello della riscoperta dei legami familiari, anche dove si pensa che siano scontati: un genitore anziano e solo, la gestione di un rapporto filiale a distanza che si distrae dalle necessità autentiche che un anziano può avere, prima tra tutte l’amore dei figli, più che l’assistenza nelle piccole pratiche quotidiane curate da una badante; sarà l’imprevisto a rendere la giusta dimensione a tutto e a fare recuperare il battito del cuore che si sintonizza tra una figlia e un padre sofferente, nel racconto “Mi batte il cuore di mio padre” che chiude la raccolta. 
In mezzo, ancora, i ritorni senza gloria a paesi abbandonati nel tempo dei sogni a venire, e i tradimenti lunghi anni, dove alla fine vince la realtà scelta per comodità e per mancanza di coraggio, e ancora quadretti familiari incapsulati in stanche routine –due pensionati, sposati da oltre cinquant’anni, stessa casa da sempre, vita immobile- salvo tardive recriminazioni («Mi hai sempre detto “andrà tutto bene, vedrai”. E dove siamo andati? Rispondimi!» dice lei a lui). 
Sono belli i racconti di Fabrizio Manzetti: vividi, sentiti, raccontati in una prosa piana, senza inutili virtuosismi, eppure con cenni di vera poesia, nelle descrizioni dei gesti e dei sentimenti. In queste sedici immagini ordinarie ci si specchia e ci si consola, riconoscendo il tratto delicato con cui l’Autore si è accostato alla vita qualunque di chiunque di noi. La raccolta partecipa al Premio Augusta: fino al 18 maggio è possibile votarla qui , quindi leggetela e cliccate!


Photo Elena Tamborrino




Nascosti davanti a tutti 
Autore: Fabrizio Manzetti 
Dati: 2016, 118 p., brossura 
Editore: Augh! (collana Frecce) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline

martedì 18 aprile 2017

"Orfani bianchi" di Antonio Manzini

Lame di luce tagliavano le tende di broccato, 
i quadri antichi alle pareti, i tappeti orientali a terra. 
Ebbe timore di camminarci sopra, di sporcarli. 
Si sentiva fuori luogo, un brufolo sulla schiena di Dio. 

Sarà che siamo tutti uguali, ma c’è qualcuno che è più uguale degli altri e qualcun altro che è sempre e comunque tagliato fuori, un’escrescenza fastidiosa, un inciampo nella società. Eppure, nella solitudine e nella povertà, queste persone cercano la forza per andare avanti, accettano lavori spesso umilianti, in attesa del riscatto, sperando di riprendersi la vita, anche se non sarà sfavillante come quella dei più fortunati, dei ricchi. 
A Mirta, giovane moldava trasferita a Roma a pulire prima androni e scale dei condomini e poi a fare da badante in una famiglia che di lei e di quelli come lei ha solo disprezzo, basta un lavoro dignitoso e sicuro che le consenta di mettere da parte un gruzzoletto e andarsi a riprendere Ilie, il suo bambino rimasto al paese con la nonna anziana. Un incidente tragico costringerà la donna a sistemare Ilie in un Internat, un orfanotrofio in Moldavia, in attesa che qualcosa cambi e con la speranza tenuta fervidamente accesa che il ricongiungimento con il figlio possa non tardare. 
Ilie non è orfano, no: ha la sua mamma lontana che manda i soldi e i giocattoli e i libri, e un padre che è sparito nel nulla quando lui è nato, ma deve stare lo stesso nell’orfanotrofio puzzolente di cavolo e disinfettante, insieme agli orfani veri, lui orfano “bianco”, uno di quelli che hanno i genitori troppo poveri per tenerli con sé. 
Messo da parte per ora Rocco Schiavone, Antonio Manzini ci regala un altro personaggio straordinario, Mirta Mitea, forte e disperata, determinata e coraggiosa, una mater dolorosa che ostinatamente è disposta a sopportare una quotidianità umiliante, avendo l’obiettivo di una rinascita possibile. Mirta crede nell’amicizia, nell’amore e nel lavoro e si scontra continuamente con un mondo che invece è cattivo e incomprensibile. 
Manzini racconta una storia molto triste, probabilmente non dissimile da tante altre vissute quotidianamente da donne che dall'est europeo arrivano in Italia in cerca di un lavoro che conceda loro una svolta: una storia di solitudine e di fatica, il cui epilogo arriva improvviso a colpire come un pugno allo stomaco. 
Alla voce della protagonista si contrappone il silenzio del figlio adolescente, rimasto in Moldavia: i silenzi degli adolescenti spesso dicono più delle parole, quello di Ilie sarà un silenzio che squarcerà il cielo instabile e precario, eppure denso di aspettative, di Mirta. 
Anche lontano dal personaggio che gli ha dato il successo, Manzini fornisce una bella prova narrativa che lo svincola dal vicequestore Schiavone, che quasi vive di vita propria. La prosa di Manzini la conosciamo: scorrevole e piana, stringata e ricca di dialoghi, descrittiva come una sceneggiatura che sia prossima a una messa in scena, prende il lettore e non lo abbandona finché le vicende narrate non si sciolgono, in qualunque modo. 

 
Photo HelenTambo on Instagram


Orfani bianchi 
Autore: Antonio Manzini 
Dati: 2016, 240 p., rilegato 
Editore: Chiarelettere (collana Narrazioni) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 14 aprile 2017

"La vita sconosciuta" di Crocifisso Dentello

Una delle lezioni spaventose che si sperimentano dopo un lutto
è che il dolore non è sempre un grumo nero 
che il tempo riesce a diluire. 

Quel dolore, quel grumo nero, dice Crocifisso Dentello nel suo “La vita sconosciuta”, “può restare intatto e semmai lievitare, occupare sempre più spazio e irrompere improvviso proprio quando ci si illude di averlo tenuto a bada”; è ciò che succede a Ernesto, che si accompagna a uno strazio senza soluzione dopo la morte della moglie Agata: non è solo il dolore per una morte improvvisa, imprevedibile, ma per il protagonista è la pietra tombale sulla sua solitudine, che era tale anche prima della scomparsa della moglie, una donna inaridita dalla fatica e dalla delusione. 
Il romanzo racconta la doppia vita dell’uomo e il suo malcelato equilibrismo tra omosessualità vissuta con famelica frenesia e frustrato legame matrimoniale con Agata: la vicenda, racchiusa in pochi giorni, si sposta su più piani temporali, alla continua ricerca di un passato che possa spiegare le ragioni dell'oggi. 
In quel passato si addensa una passione politica, sfociata per una stagione nei contatti con il terrorismo che aveva infiammato l’Italia degli anni di piombo, quella della lotta armata e delle Brigate Rosse; il periodo dell’impegno politico clandestino è da tempo sepolto nella coscienza di Ernesto, ma non lo era stato in quella di Agata, che in quel credo politico si era spesa totalmente e che per anni aveva alimentato il rancore e la rabbia di non aver visto compiersi la rivoluzione così come tra compagni l’avevano immaginata, desiderata, criminalmente perseguita. 
La divisione e le incomprensioni tra moglie e marito erano passate anche da questo, ma ciononostante Ernesto continua a tenere presente il legame forte con la compagna di una vita, che già da molto prima che lei morisse mal si conciliava con il sesso mercenario consumato dall’uomo nei parchi periferici di Milano e che ancora di più alimenta il senso di colpa, dopo che lei muore. 
Ho letto questo romanzo appena uscito, in un giorno e mezzo, e ne avrei potuto parlare immediatamente, dimostrando di saper stare sul pezzo; le cose non sono andate così, anche per una mia tendenza al non inseguire per forza l’onda mediatica -che pure è lunga e persiste ancora-, tuttavia da quando l’ho chiuso sull’ultima pagina ho sempre rimuginato sulla storia che Dentello narra in questo romanzo duro e spietato, una storia raccontata senza sconti, con un linguaggio crudo e realista, testimonianza di un dolore infinito e senza redenzione. 
Pensavo, tra l’altro, che avrei dovuto scriverne e che sarebbe stato un peccato lasciar passare troppo tempo, com’è successo con il romanzo di Elena Stancanelli, “La femmina nuda”, di cui ho parlato frettolosamente alla fine dell'anno scorso. Non è un caso se associo il romanzo di Dentello a quello di Elena Stancanelli, che a sua volta ho definito vicino a “La separazione del maschio” di Francesco Piccolo, perché entrambi colgono spaccati di vita, narrati nella più confidenziale quotidianità, accomunati dallo stesso senso dell’intendere il sesso, l’amore, il dolore. Quei due romanzi sono in qualche modo fratelli (ricordo che a candidare allo Strega “La femmina nuda” lo scorso anno è stato proprio Piccolo); il romanzo di Dentello si avvicina a loro (“La vita sconosciuta” e il romanzo della Stancanelli sono entrambi editi da La nave di Teseo, il che mi ha fatto pensare a una certa sensibilità dell’editore verso gli argomenti che i due Autori nei loro libri indagano), raccontando un ulteriore aspetto, ancora una sfaccettatura di un modo di vivere le relazioni intime e anche quelle estranee, quelle che ci rendono sconosciuti a noi stessi. 
Per questo motivo, non mi sorprende che l’autore sia incappato in un incidente di percorso, peraltro da lui stesso denunciato dopo che il critico Stefano Gallerani aveva riscontrato una sospetta coincidenza in un brano de “La vita sconosciuta”, fin troppo somigliante –quasi identico- ad uno stralcio de “La separazione del maschio”. Se errore ha fatto Dentello, è stato quello di non annotarsi la fonte di questo brano che tanto lo aveva colpito leggendo il romanzo di Piccolo: il tempo poi ha fatto il suo lavoro, consultando gli appunti di pensieri sparsi, citazioni raccolte, non se n’è ricordata più l’origine e se non se n’è ricordata più l’origine, significa che quel sentire, già scritto e già letto, è identico al suo. Un incidente, sul quale non vale la pena dilungarsi, ma che nemmeno si può far finta che non sia accaduto. 
Piuttosto mi sembra importante rilevare altro: la capacità di spogliare totalmente il personaggio principale della pelle, renderlo così intimamente scoperto e vulnerabile tanto da provocare nel lettore il moto di pietà destinato ai perdenti, o il disprezzo che si riserva ai rinunciatari, agli inetti. 
In ogni caso, qualunque sia il sentimento che si agita nel lettore, l’importante è che un’emozione si manifesti, che una domanda ce la si ponga, che si chiuda il libro con una sensazione, qualunque. Finché un romanzo è capace di smuovere qualcosa dentro chi lo legge (e prima in chi lo scrive), per quel poco che il mio parere può contare -non sono certo un influencer!-, per me è un buon romanzo. 

 
Photo HelenTambo on Instagram

La vita sconosciuta 
Autore: Crocifisso Dentello 
Dati: 2017, 120 p., brossura 
Editore: La nave di Teseo (collana Oceani) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

sabato 8 aprile 2017

"La più amata" di Teresa Ciabatti

Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni e non trovo pace. 
Voglio scoprire perché sono questo tipo di adulto, 
deve esserci un’origine, ricordo, collego. 

Non conoscevo Teresa Ciabatti finché non mi sono imbattuta su un suo pezzo di qualche mese fa su La Lettura, inserto settimanale del Corriere della Sera, in cui raccontava di come qualcuno –non ricordo chi- l’avesse bollata come la peggiore scrittrice italiana (l’episodio è ricordato da Antonio D’Orrico su Sette del 10 marzo 2017). La faccenda mi mise in curiosità, ho cominciato a seguire Teresa Ciabatti su Facebook, dove è molto attiva, e ho iniziato a provare simpatia per la sua ostentata, voluta antipatia –falsa, falsissima, ma bisogna essere un po’ cinici per capirlo-, lontana com’ero dall’immaginare che di lì a poco sarebbe uscito il suo ultimo romanzo, “La più amata”, che poi mi sono affrettata a comprare. Una volta reso pubblico l’elenco dei candidati allo Strega, leggerlo è stato conseguenziale nell’immediato, non sia mai che vada a vincere il Premio più ambito in Italia e poi finisce che non lo leggo perché il gran parlare me ne allontana, com’è successo ad esempio con “La ferocia” di Nicola Lagioia o “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo, comprati e non ancora letti. 
Detto ciò, non è che di questo libro non si stia già tanto parlando: un po’ credo sia marketing –e quindi interviste, articoli, recensioni a tambur battente-, un po’ semplicemente discussioni, specie sui social, perché questo è un romanzo che sta facendo molto polemizzare e che mi sembra stia dividendo l’opinione dei lettori che lo stanno molto apprezzando o, viceversa, lo stanno detestando: insomma non sembrano esserci vie di mezzo. 
Leggo, seguo il dibattito, cerco di capire le ragioni di chi trova questa storia noiosa e inutile, ma non mi muovo dall’opinione che invece me ne sono fatta io, scevra da pregiudizi. 
A me questo libro è piaciuto e un indicatore di gradimento è il tempo che ho impiegato a leggerlo, sicuramente anche perché in fondo si tratta di poco più di duecento pagine, ma soprattutto perché mi incuriosiva sapere in che direzione si andava e dove l’Autrice mi avrebbe alla fine condotto: ci ho messo un giorno e mezzo, da cui sottrarre le ore dedicate al lavoro e al sonno. 
In breve, si tratta della ricostruzione della storia della famiglia che il Professore Lorenzo Ciabatti, primario ospedaliero, costruisce con Francesca, mettendo al mondo due gemelli, Gianni (ma il nome vero non è questo, il fratello di Teresa ha chiesto che venisse cambiato) e appunto Teresa, nella provincia toscana, a Orbetello, dove il professore è una personalità in vista, potente e temuta. 
Il racconto, che parte in medias res, è diviso in tre parti, dedicate ciascuna alle tre figure di riferimento della storia, Lorenzo Ciabatti - “il prescelto”, Teresa Ciabatti - “la più amata”, Francesca Fabiani - “la reietta”, a cui si aggiunge una quarta parte dedicata ai “sopravvissuti”. La narrazione procede in disordine, i piani del tempo si intersecano, dando una visione frammentata dell’insieme che però ha una sua unitarietà, proprio in quel suo andare avanti e indietro sulla linea del tempo. 
Si tratta di uno scritto autobiografico dove quello che conta sono le domande, anche se le risposte non sempre arrivano. E se le risposte non arrivano, a un certo punto non importano più, perché ciò che conta è aver fatto un viaggio a ritroso fino a un tempo felice, rotondo e perfetto, pieno di imperfezioni, spigoli e infelicità soffocate, che gli occhi dei bambini non vedono, ma quelli degli adulti sì. 
Al centro di tutto, nonostante quel tutto parta da lui, non c’è il Professore -massone, potente, tirchio, millantatore anche, non attraente ma capace di affascinare-, ma la piccola Teresa che con il padre ha un rapporto di privilegio: è lei la più amata che si sentirà la meno amata quando lui, dopo che la moglie lo lascia per tornare a Roma da dove era partita, piena di speranze e ambizioni -anche lei medico che abbandona la carriera per la famiglia-, svende quasi tutto il patrimonio immobiliare, compresa la stupenda villa al mare con undici bagni, biancheria in tinta per ogni ambiente e piscina in giardino, quando erano in pochi a potersela permettere. 
Anche i ricchi piangono e parecchio e in particolare lo fa Teresa che si accorge che quei privilegi che le sembravano naturali, dovuti e necessari si possono perdere da un momento all’altro, perché a volte le persone cambiano, si ribellano, si oppongono a ciò che non possono capire, cosa che succede a sua madre Francesca, moglie piegata senza che ne abbia consapevolezza, costretta a rinunciare alla sua affermazione personale, curata dall’inevitabile depressione con un sonno lungo un anno, un anno di oblio in cui non vede crescere i suoi figli. Dalle stelle alle stalle è difficile, ma ciò che è più difficile è guardarsi con gli occhi degli altri, per i quali essere una Ciabatti non significa nulla, fuori da Orbetello. 
Cosa mi è piaciuto di questo romanzo? Intanto lo stile, quel raccontare e raccontare anche a se stessa, l'ammiccare al lettore, il dialogarci quasi, il disordine del ricordo in una sintassi ritmata, e poi lo scopo: ho interpretato questa storia come una catarsi, un’analisi finalizzata a far pace con un passato scomodo e con i suoi protagonisti, un modo per mettersi a nudo, per poter vivere un rapporto migliore con il proprio presente. Non so se questa specie di seduta psicanalitica su carta (cosa ricordi, Teresa? Stenditi sul lettino, parti da dove vuoi, prova a pensare alle cose più lontane che rammenti, parla a ruota libera, non importa se non vai in ordine, basta che tiri fuori tutto) sia servita all’Autrice, non so perché non credo che basti. Penso però che serva ai lettori: non occorre riconoscersi nei protagonisti di una storia, lo si fa anche con le figure di contorno le cui personalità, che si svelano in gesti e parole comuni, dicono molto anche di noi.
Photo Elena Tamborrino on CameraBag




La più amata 
Autore: Teresa Ciabatti 
Dati: 2017, 218 p., brossura 
Editore: Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri) 
Prezzo: € 18,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

martedì 14 marzo 2017

Ultime letture con #LeggoNobel

È decisamente un periodo strano questo, denso senz’altro di letture delle quali non ho il tempo di parlare. Lo faccio per i libri letti con #LeggoNobel in un post collettivo, come ho fatto altre volte in cui ho riunito le impressioni tratte da più letture che si sono avvicendate – anche in contemporanea- in un lasso di tempo relativamente breve. 
Mi riservo invece di scrivere prossimamente in maniera più approfondita di due letture in particolare che mi hanno colpito nel profondo, La vegetariana della scrittrice coreana Han Kang (Adelphi, 2016) e La vita sconosciuta di Crocifisso Dentello (La nave di Teseo, 2017), mentre di Sono cose da grandi, lunga lettera che Simona Sparaco scrive al figlio di quattro anni, indagando le ragioni dei propri timori di mamma e delle speranze per il futuro del piccolo Diego (Einaudi, 2017) spero di parlare presto su lostruzzoascuola.it

Con il gruppo #LeggoNobel negli ultimi mesi abbiamo incontrato due autori, molto distanti nel tempo e nello spazio. La lettura che, in social condivisione con gli Scratchreaders su Facebook, ci ha impegnato tra gennaio e febbraio è stata Furore di John Steinbeck. 
La storia della famiglia Joad, costretta a lasciare la propria terra per raggiungere un paradiso più immaginato e sognato che effettivamente incontrato, in California, è la stessa di altri disperati, vittime di quella particolare congiuntura economica e sociale che vide tante famiglie americane precipitare nell’indigenza più nera, negli anni della Grande Depressione. 
Ai capitoli dove i Joad e le loro disavventure sono assoluti protagonisti, si alternano i passi corali, dove il paesaggio diventa personaggio e la varia umanità parla con voce unanime. In modo particolare sono stata colpita dal capitolo 15, dove quasi è possibile visualizzare il tipico locale americano dove ci si ferma per il breakfast: la lunga parentesi all'interno di un locale della Route 66, con Mae, o Minnie, o Susy, che serve caffè e torta alla crema di banane, mi ha conquistato, facendomi tornare in mente la Holt della trilogia della pianura di Kent Haruf. Ma potrei ricordare molti altri passaggi che hanno reso la lettura appassionante. 
I personaggi disegnati da Steinbeck sono potenti, soprattutto Ma' e forse un po' tutte le donne che, anche quando piagnucolanti come sua figlia Roseharn, poi sono capaci di grandi gesti coraggiosi, fino ad arrivare a finali inaspettati che lasciano il lettore spiazzato. 
Anche in questo caso è stato un felice ritrovare lo scrittore già apprezzato da ragazza quando lessi La valle dell’Eden, scovato nella ricca biblioteca di mia zia e letto nei lunghi pomeriggi roventi dell’estate salentina, molti anni fa. 

Il secondo autore letto con gli amici che seguono il gruppo di lettura dedicato ai premi Nobel per la Letteratura è stato Dario Fo, primo tra i Nobel italiani che abbiamo scelto, anche per omaggiarlo a pochi mesi dalla scomparsa. Per scelta di Valentina Accardi e mia, il progetto #LeggoNobel previlegia gli scrittori in prosa, lasciando quindi da parte quelli che si sono distinti per la poesia, il teatro e la saggistica (motivo per il quale sono esclusi, almeno per ora, Giosuè Carducci, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, tra gli italiani); tuttavia Dario Fo, pur essendo conosciuto soprattutto per aver scritto e portato in scena testi teatrali, ha scritto anche romanzi. Tra questi la preferenza è caduta su Razza di zingaro (Chiarelettere, 2016), la storia di Johann Trollmann, pugile sinti nella Germania nazista, campione del mondo dei mediomassimi a cui verrà negato il titolo perché è uno zingaro. Il titolo sarà poi restituito ai suoi familiari sopravvissuti, molti anni dopo la sua morte in un campo di concentramento, ma di questo epilogo non c’è traccia nel romanzo di Fo, come di tanti altri aspetti rigorosamente storici. Viceversa il racconto è molto immaginato nei dialoghi, che occupano sequenze importanti per la maggior parte del testo, molto sceneggiato in uno stile fin troppo semplice. Dario Fo racconta come se stesse sul palco e in questa sua caratteristica mi ha fatto tornare in mente la biografia umana e artistica di Maria Callas, portata in scena con Paola Cortellesi in quello che credo sia stato il suo ultimo spettacolo, Callas scritto con Franca Rame; ma a teatro è un'altra cosa, c’è la presenza scenica, la mimica, la voce in tutte le sue variazioni. Forse il mio giudizio, non particolarmente entusiasta, è influenzato dalla lettura di Alla fine di ogni cosa di Mauro Garofalo, ricostruzione fedele della drammatica storia di Rukeli. Ho apprezzato molto invece le tavole, i dipinti di Fo, e l'edizione Chiarelettere particolarmente pregiata.
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Razza di zingaro
Autore: Dario Fo
Dati: 2016, 160 p., brossura 
Editore: Chiarelettere
a c. di Chiara Porro e Jacopo Zerbo
Prezzo: € 16,90 
Giudizio su Goodreads: 3 stelline 

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Furore
Autore: John Steinback
Traduttore: Sergio C. Perroni
Dati: 1940/2016, 637 p., brossura 
Editore: Bompiani (collana Classici Contemporanei Bompiani) 
Prezzo: € 14,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

sabato 4 marzo 2017

"Neve, cane, piede" di Claudio Morandini

In quegli anni di guerra Adelmo Farandola 
ha imparato il conforto di parlarsi da solo
e di immaginare le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli. 
In quegli anni ha imparato a non sentire il freddo e a ignorare la fame,
prendendo l’uno e l’altra a male parole,
sfidandoli in interminabili tenzoni di retorica e insulti. 

Bello entrare in classifica e ancora più bello restarci, dicono. A volte però bisogna riconoscere che alcuni libri devono diventare protagonisti di piccoli miracoli per entrare nelle classifiche settimanali dei libri più venduti e se non ci restano non è certo perché non lo meritino, ma solo perché dette classifiche sono determinate da dinamiche difficili da comprendere, considerando anche il fatto che spesso non coincidono tra le varie, pur autorevoli, testate che le pubblicano. 
Che cosa ha portato in classifica la settimana scorsa “Neve, cane, piede” di Claudio Morandini, un romanzo breve uscito nel 2015 e mai scomparso dall’attenzione del pubblico che segue la piccola e media editoria a cui si può assimilare Exòrma? C’è voluta la “rivoluzione gentile” promossa dal gruppo Facebook Billy, il vizio di leggere e Modus Legendi, un’iniziativa che mira a sfidare le classifiche di vendita per portare alla ribalta le scelte alternative -rispetto al mercato corrente- di lettori consapevoli che dal basso promuovono, con l’acquisto in una determinata settimana, il libro che risulta vincitore tra una cinquina di titoli, tutti votati sul forum di Ultima Pagina
Una specie di festa dei libri, dei lettori e degli editori indipendenti che coinvolge molti appassionati, sostenuta da Loredana Lipperini su La Repubblica, Sabina Minardi su L‘Espresso, Francesco Musolino sul Fatto Quotidiano e Paolo di Paolo su La Stampa, solo per fare qualche nome, ai quali mi piace aggiungere quello di Mattia Pianezzi che su romaitalialab.it scrive che “Modus Legendi non si accontenta di ‘mandare un libro di una piccola in classifica’, come se fosse uno sgarro alla grande distribuzione editoriale; il progetto è più ambizioso e proiettato nel tempo, ed ha l’obiettivo tosto ma non impossibile di creare un piccolo bug editoriale, di far spostare il focus delle grandi case editrici dai lettori casuali ai lettori forti, che si sentono messi in secondo piano dall’editoria maggiore”. 
Ho quindi aderito con entusiasmo all’iniziativa e ho comprato “Neve, cane, piede” nella “settimana santa”, come sono stati chiamati i giorni in cui si sarebbe monitorata la vendita del libro scelto dai billini; l’ho poi letto in un giorno e mezzo, sentendomi catapultata nel mondo solitario e allucinato di Adelmo Farandola, vecchio eremita che vive tra i monti, dai quali scende solo per fare le provviste per l’inverno all’emporio del paese, a valle. 
Adelmo, abituato a stare da solo, quasi non conosce il suono della propria voce e tuttavia imbastisce dialoghi con oggetti e animali, con la Fame e il Freddo. Dialoga anche con lo strano cane che un bel giorno si presenta nei pressi della spelonca in cui l’uomo vive: il cane, brutto ma come tutti i cani disposto a prendersi anche le bastonate e i calci da chi sente essere la “sua” persona, si fa accettare e divide con Adelmo lo stesso freddo e la stessa fame. 
Adelmo e il cane vivono in un mondo a parte, un mondo al quale incautamente si avvicina un giovane guardacaccia, che cerca di stabilire un contatto con il vecchio scontroso, con il risultato che spetta al lettore scoprire. 
E il piede del titolo? Il piede affiora dal gelido candore che avvolge la vita di Adelmo durante un inverno che più rigido non si può ricordare, appartiene a qualcuno che forse è stato travolto da una valanga più a monte del punto in cui appare nel bianco e il vecchio lo tratta quasi come se invece di essere solo un pezzo di qualcuno, fosse proprio un qualcuno di per sé, in quanto piede: le allucinazioni dell’uomo affondano nella neve, insieme alla solitudine e all'incapacità di comunicare se non tra emarginati, in dialoghi tra immaginario e realismo. 
“Neve, cane, piede” è un romanzo che si legge velocemente, soffuso di una malinconia che scivola nell’ironia di alcune situazioni e nella sensazione di profondo isolamento che è proprio degli spostati, degli incompresi, di chi è emarginato forse per scelta altrui: Adelmo è una specie di orso, che sembra mansueto, ma dal quale puoi aspettarti lo scarto di un gesto inconsulto e violento, un personaggio che non ispira simpatia, per il quale non soffri e che osservi a distanza e con curiosità per capire cosa farà, come se la caverà con quella fame che se lo mangia vivo e le provviste che sono finite, ammesso che le abbia mai fatte davvero, e le croste del suo stesso sudicio che gli fanno da corazza e lo proteggono dal mondo. 
Mentre leggevo mi chiedevo cosa avesse ispirato Morandini a scrivere un racconto del genere e le risposte sono arrivate alla fine, in una nota dell’Autore dal titolo “Storia di questa storia”: Adelmo esiste, anche se il nome è di fantasia, anzi esistono tanti Adelmo nelle vallate alpine, uomini sui quali si tramandano racconti al limite del leggendario, eremiti non sempre selvatici che ogni tanto si concedono un’apparizione in paese, tra le persone “civili” con cui scambiano qualche parola. 
Morandini ha incontrato il suo Adelmo quando, durante una salita in montagna, è stato raggiunto da una pioggia di pigne e sassi lanciate da un vecchio che in questo modo mirava a salvaguardare il suo spazio vitale, nel quale non voleva intrusioni di sorta. Questa nota conclusiva sulla storia vale quanto tutta la storia stessa, perché racconta della genesi di un racconto, dello stimolo che serve per accendere la fantasia e della sensazione di appartenenza che lega una vicenda a chi la racconta.

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Neve, cane, piede 
Autore: Claudio Morandini 
Dati: 2015, 138 p., brossura 
Editore: Exòrma (collana quisiscrivemale) 
Prezzo: € 13,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 16 dicembre 2016

"Per troppa luce" di Livio Romano

«Ti prometto che non bruceremo tutto per troppa luce, 
che questo fuoco non arderà come un falò di sterpi» 
e la cosa, invece di farla ridere come avrebbe dovuto, 
le fa salir su un altro grumo di pianto, 
ne è seccata, si libera dalla morsa, 
affonda la testa nella pelliccia interna dell’eskimo 
che Antonio tiene aperto. 

Livio Romano è uno scardinatore, un sovversivo della lingua: cercare di “spiegarne” la scrittura è difficile, perché è un po’ come voler prendere l’acqua in mano, non è possibile, non ci sta. 
Livio Romano è uno che lo leggi e ti risucchia in un vortice di parole legate spesso per asindeto, senza congiunzioni e a volte anche senza virgole, ché occupano spazio e quando i pensieri vanno rapidi, le parole devono seguirli senza inciampi, veloci come bere un bicchiere d’acqua quando fuori fa caldo e ti senti la bocca secca. Lo fa in alcuni passi di questo romanzo sorprendente, se non si conosce la scrittura di Romano, invece perfettamente in linea con uno stile personalissimo e inconfondibile, che a tratti fa pensare alla scrittura di Gaetano Cappelli –penso in particolare a “Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” e a “Volare basso” (entrambi titoli Marsilio)-, ma che acquista la sua individualità nel momento in cui la narrazione è calata nel contesto salentino, dove l’Autore ha ambientato anche altri suoi romanzi, come “Mistandivò”, edito da Einaudi, “Porto di mare” (Sironi), “Niente da ridere” (Marsilio) e “Il mare perché corre”, anche questo edito da Fernandel. Se insomma un tratto dobbiamo trovare in comune con lo scrittore lucano, questo va ricercato sicuramente nel tono dissacratore e umoristico, fino al sarcasmo, di alcune pagine. 
Dove, quindi, Livio Romano riversa questa verve singolare, in che contesto, a quali personaggi regala un profilo, che storia racconta? 
La trama, in breve: Antonio Congedo e Simona Marris, lui ispettore del lavoro e lei avvocata, si incontrano e danno inizio a una relazione che, tra alti e bassi, li vede anche coinvolti nella battaglia civile contro il progetto per la realizzazione di un parco tematico nella regione salentina dell’Arneo. Il parco -la ricostruzione di un’antica città messapica, interamente finanziata con fondi pubblici- è idea ingegnosa di un docente universitario, il Prof. Caraccio, del proprietario di una web tv, Vittorio Nardelli, di un medico dell’ASL, il dott. Amari, i quali hanno ingaggiato l’architetto portoghese Francis Arrangiau per la sua realizzazione. 
L’esecuzione del progetto, devastante per il territorio ma redditizia assai per il terzetto truffaldino, prevede come primo intervento l’abbattimento di una masseria in cui alloggiano centinaia di lavoratori agricoli immigrati, sfruttati dai “caporali” nelle campagne limitrofe. Da qui si muove l’attività di Simona che diventerà, probabilmente suo malgrado, protagonista della lotta contro l’ingiustizia nei confronti del territorio e degli immigrati e che troverà in Antonio un alleato prezioso. Quanto prezioso, si vedrà alla fine della storia, che ha un risvolto giallo. 
Su questa struttura narrativa, sale un carosello di personaggi irresistibili, alcuni dei quali grotteschi fino alla caricatura. Spiccano tra tutti le figure di Simona e Antonio, protagonisti di una storia d’amore potente e tormentata dalle profonde diversità caratteriali dei due -lei passionale, iperattiva, vulcanica, sexy, lui più posato e riflessivo, eppure complementari (nel dormire, “masso di sonno e carne pesanti lui, elastica seppia aderente lei, filiforme eppure vigorosa”)-. Sorpresi da fatale attrazione reciproca, partita da un’iniziale antipatia, si prendono e si lasciano, concedendosi -negli intervalli- improbabili relazioni sessuali che alimentano gelosie e rimpianti: tra loro, anche nei momenti di distacco, resistono stima e amore. 
Più difficile è parlare degli altri personaggi che animano questa commedia tragicomica, dove troviamo insieme temi sociali e vizi privati, dinamiche familiari complesse e sistemi affaristici disdicevoli: molto caratterizzati, richiedono di essere accolti dal lettore e ascoltati, compresi. 
I temi affrontati sono di stretta attualità, tanto da far apparire Romano quasi preveggente: la fine della scrittura del romanzo risale al 2013, quando ancora non si poteva immaginare la svolta mediatica che avrebbe visto solo quest’anno la nostra regione in primo piano, per le iniziative imprenditoriali che probabilmente trasformeranno parte della costa adriatica in un grande villaggio turistico di lusso, “’na cosa che la gente deve rimanere di stucco”, come dice il dottor Amari al Nardelli, descrivendogli il progetto del parco messapico. 
Troviamo ancora il tema dell’immigrazione e dello sfruttamento degli irregolari africani da parte dei piccoli imprenditori terrieri in tutto il meridione, sappiamo bene –perché ce lo racconta la cronaca- in quali condizioni e spesso con quali conseguenze. 
Sullo sfondo, la profonda riflessione sul futuro di questa terra, dai giovani trentenni “che o se ne vanno a Copenaghen oppure restano qua”, ad accontentarsi di ciò che trovano da fare e soprattutto a casa con i genitori, fino alla convinzione che il turismo sia la sola risorsa possibile, da sfruttare senza criterio, pensando solo all’immediato guadagno economico. 
Leggere questo romanzo è stato come salire sulla giostra, nota come "calcinculo", i seggiolini volanti che tra l'altro sono in copertina. E non poteva esserci immagine più calzante per una narrazione mozzafiato, sia per la storia in cui si intrecciano amore, sesso, corruzione, territorio, sia per lo stile ironico e dissacrante, sia per la lingua, che Romano piega a suo piacimento, mescolando preziosismi lessicali a dialetto e gergo, con risultati ibridi decisamente originali. 
 
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Per troppa luce 
Autore: Livio Romano 
Dati: 2016, 269 p., brossura; 
Editore: Fernandel; 
 Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

sabato 3 dicembre 2016

"Fidati di me, fratello (una storia vera)" di Alessio Viola

Un consiglio di famiglia è sempre una cosa importante. 
Per questo motivo si tiene a tavola, 
non ci sono posti migliori, 
soprattutto la domenica all’ora di pranzo. 

Vitino Sciannameo prende le redini della propria famiglia dopo che il padre è stato ucciso per uno sgarro consumato ai danni della Camorra. Il clan barese, a cui Sciannameo padre era affiliato, nella persona del boss Nicola Degiosa offre aiuto e protezione a Vitino, che non può pensare alla vendetta (ché la malavita segue un codice in cui l’errore si paga sempre, al di là degli schieramenti e delle rivalità) ma che può ereditare un ruolo all’interno dell’organizzazione. 
E Vitino è bravissimo: uomo di poche parole, si fa carico di un compito che non si aspettava di dover onorare così giovane, comprende che la fermezza e il cinismo saranno sue compagne di vita, che l’onore ha un prezzo e che i soldi muovono tutto. Vent’anni dopo il funerale del padre, Vitino e la famiglia si ritrovano nella stessa chiesa, per un altro funerale. 
È così che parte il lungo flashback che ricostruisce l’escalation feroce di Vitino, che non esita a utilizzare Franchino, il fratello minore che vive ammirandolo sconfinatamente, come “assaggiatore” della droga che acquista e rivende dopo aver organizzato una specie di supermarket della roba, in un quartiere nuovo di periferia, il Sant’Elia, dove è possibile trovare ampi spazi di manovra, sempre con il beneplacito dei vertici dell’organizzazione malavitosa, capeggiata da Degiosa. Nel frattempo anche dal quartiere Libertà, dove vive nel centro di Bari, Vitino si è mosso e nei pressi della stazione, ai margini tra il quartiere Murat, con i suoi negozi scintillanti, e il quartiere Libertà, crocevia della microcriminalità, allestisce una casa di appuntamenti di lusso, dove piazza le sorelle gemelle come tenutarie. Sembra impossibile che in uno spazio così circoscritto possano convivere zone socialmente tanto distanti: il distretto murattiano, salotto della città, centro del commercio e della cultura, e il quartiere Libertà, storicamente degradato, dove l’illegalità dilaga e la vita per i giovani è una scommessa. 
Potrebbe accontentarsi, Vitino, e restare all’ombra del boss, al suo servizio, e invece prova ad allargarsi, tenta la scalata “imprenditoriale”, con Franchino che gli garantisce la qualità dell’eroina acquistata: a lui basta assaggiarla appena, osservarne il colore, annusarla per capire da dove viene e con che cosa è tagliata. E poi spararsela in vena, ché non c’è prova più provata dello sballo, anche se i rischi ci sono, ma tanto li corre solo lui, il più debole, il più esposto. 
Il romanzo ha un andamento sdoppiato, da una parte il successo di Vitino, sempre più sicuro, sempre più ricco, dall’altra il degrado di Franchino: “Fu un anno intenso, quello dei due fratelli. Il grande si era impegnato a costruire l’impresa, il piccolo a demolire la propria esistenza” (p. 51). Le storie di Vitino e Franchino corrono e si incrociano, perché i due fratelli sono necessari l’uno all’altro, anche se per motivi diversi. 
Fulcro e sfondo delle vicende c’è la famiglia, spesso descritta a tavola, luogo previlegiato in cui consolidare affetti e affari: panzerotti e brasciole sono simboli della tradizione gastronomica barese e non possono mancare nella cucina di mamma Floriana, vedova ancora giovane, piacente e in grado di farsi ascoltare dai figli, nonostante l’autorità del primogenito la tenga in una posizione subordinata in cui può dare pareri, ma alla fine è lui che comanda e che alla famiglia dà “lavoro”. 
I personaggi che Alessio Viola mette in scena sono forti tutti, anche quelli minori, i comprimari che sono necessari per rendere un ambiente, un’atmosfera, uno stile di vita e che sono spalla dei personaggi principali, tra cui bisogna annoverare la città, Bari, così prepotentemente presente, viva, maledetta e meravigliosa insieme, col suo carattere, i suoi odori e i suoi sapori, che te li senti sciogliere in bocca come un crudo di mare appena pescato. 
E proprio il cibo e le descrizioni delle preparazioni gastronomiche tipiche della cultura barese e salentina, sono particolarmente accattivanti; trasudano cultura locale, passione verso la tradizione, attenzione verso il particolare (a cui non è estranea una piccola sbavatura a cui concediamo venia, ma che magari si potrà correggere in una ristampa –i particolari in calce a questo post, nel fuori onda-).
La seconda di copertina saluta il ritorno al noir di Alessio Viola, collocando idealmente la storia di Vitino e Franchino a metà tra Breaking Bad (serie televisiva il cui protagonista, sottopagato insegnante di chimica, malato terminale di cancro, decide di sfruttare le sue competenze di chimico per produrre metamfetamina insieme a un suo ex studente, già inserito in un giro malavitoso) e la tragedia greca, da cui prende il pathos e il senso del dramma familiare. E non si può che riconoscere la correttezza di questa definizione: Alessio Viola attinge, mutatis mutandis, a fatti di cronaca vera, ai quali aggiunge la sua straordinaria capacità di mimesi. E la cronaca, la vita vera, può essere crudele di per sé, basta solo saperla raccontare. 
Ha echi verghiani, questa storia dannata che racconta una scalata sociale, un successo economico, un cambiamento, che si ritorcono contro i protagonisti, colpevoli di aver osato troppo in un mondo che non concede spazi all’imprudenza e alla presunzione. 

Fuori onda: 
«Alessio… vedi che le municeddhe non sono lumache di mare...» 
«Ho scritto di mare? Lo so bene che sono di terra...» 
«Yes, di mare si dice nel menù leccese… e ho avuto un piccolo sobbalzo. Mi pareva strano.» 
«Ommadò»
(piccolo dialogo in chat: a true story anche questa) 

 
 
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Fidati di me, fratello (una storia vera) 
Autore: Alessio Viola 
Dati: 2016, 155 p., brossura; 
Editore: Aliberti compagnia editoriale (collana The Outlaws); 
Prezzo: € 15,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

mercoledì 3 agosto 2016

Ultima lettura: "7-7-2007" di Antonio Manzini

Sei dovunque, amore mio. 
Anche quando mi guardo allo specchio
e mi vedo e sono come ‘sto pennello. 
Freddo, senza vita, 
ma ogni ruga, amore mio, 
ogni capello bianco sei tu. 
Come faccio? 

Dice: «Ma come, ti è piaciuto e piangi?». Sì, piango. Embè? Anzi, per i puristi, ebbene? 
Quando un libro mi fa piangere per i sentimenti che mi ha trasmesso, io sono contenta e mi spiace se le lacrime arrivano alla fine, perché significa che finisco lì di emozionarmi. 
E ogni volta che leggo un romanzo che m’impressiona, mi tocca forte, mi scava e mi toglie respiro e sonno, io ringrazio dentro di me il suo autore. 
Nel caso specifico ad appassionare è la storia sì, un lungo flashback che finalmente racconta e fa luce sulla morte di Marina, la moglie del vicequestore romano Rocco Schiavone, ma è anche e soprattutto la grande capacità di Antonio Manzini di entrare nei vestiti di un personaggio, di assumerne l’odore e il sudore, di spiegare i suoi pensieri e le sensazioni, di ricostruirne le parole che dettano dentro. 
Rocco Schiavone è qui più compiuto, forse anche più fragile, più solo, più travagliato e più consapevolmente, intimamente rassegnato. 
Il romanzo inizia con il colloquio che Schiavone deve sostenere con gli inquirenti che si occupano del caso di rue Piave, dove nell’appartamento del poliziotto è stata uccisa Adele, la donna del suo amico Sebastiano. Qualcuno voleva far fuori Rocco, cercavano lui e hanno trovato lei, caduta innocente. L’uomo adesso deve chiarire la sua posizione, i suoi rapporti con gli amici di una vita, quella precedente a Roma prima del trasferimento d’ufficio ad Aosta, i giochetti non sempre legalmente puliti, i traffici e i modi non sempre ortodossi di agire professionalmente. 
Da qui parte il fiume in piena del racconto di Rocco, un lungo flashback che culminerà proprio con la morte della moglie, quel giorno di luglio di sei anni prima: il vicequestore ricostruisce le indagini su un traffico di droga smantellato, dopo l’omicidio di due ventenni che si erano messi in un gioco più grande di loro. Inframezzata alla storia delle indagini di Rocco e della sua squadra, c’è lei, Marina: viva, impegnata, sorridente, colorata, sfidante, impegnativa, innamorata di un uomo certamente imperfetto, anzi con ‘difetti’ più che discutibili, ma comunque decisa a stargli accanto (dove sta l’uomo perfetto, d’altronde?), amica sentimentalmente complice, amante e vera compagna di vita. 
Di Marina nelle scorse avventure di Rocco noi lettori affezionati ci siamo dovuti accontentare del fantasma, che con Rocco giocava alle parole difficili, agli indovinelli, alle penombre che svelano e nascondono il dolore di un’assenza che è più di una presenza. Qui, adesso, finalmente lo vediamo questo amore, che non è solo memoria, ma è desiderio vivo e voglia di ridere e mangiare insieme, di scegliere un gelato o un posto dove trascorrere una vacanza. Questo mi è piaciuto su tutto, di questo romanzo: il racconto di un amore vero, come ne esistono e come a volte si ha paura anche di dirsi, pensando a chissà quale stupida debolezza, come se l’amore fosse un difetto della vita e non invece la vita stessa, quella che prepotente ci aggancia anche oltre la morte. 
Non resta che aspettare il prossimo atto. E non resta che vedere come Marco Giallini renderà sullo schermo Rocco Schiavone. A Filippo Timi è riuscito benissimo con Massimo, il ‘barrista’ della serie del BarLume di Marco Malvaldi (nonostante le discutibili scelte degli sceneggiatori sulla gestione di alcuni personaggi), a Luca Zingaretti e il suo Montalbano, manco a dirlo. Ora la palla passa all'attore romano che, diciamolo, a Schiavone somiglia davvero. 
A Manzini va il merito di saper tenere il ritmo, di reggere i fili della narrazione senza sbavature o incertezze: speriamo che la trasposizione cinematografica delle storie del ‘suo’ eroe di carta non snaturi il personaggio, a favore delle sole trame. 
Intanto, buona lettura agli amici di Rocco Schiavone. 




7-7-2007 
Autore: Antonio Manzini 
Dati: 2016, 369 p., brossura; ePub con DRM 1 MB 
Editore: Sellerio (collana La memoria) 
Prezzo: € 14,00 (eBook € 9,99) 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline 
(ma anche 6, o 7, oppure di più, fate voi)


 

venerdì 8 luglio 2016

Ultima lettura: "Prima di dirti addio" di Piergiorgio Pulixi

Le lacrime più dolorose sono quelle 
che non riusciamo a piangere 

Ci sono due modi per leggere i romanzi della serie dell’ispettore Biagio Mazzeo di Piergiorgio Pulixi e io li ho provati entrambi. 
Puoi decidere per la full immersion e leggere in un paio di giorni qualcosa che va dal minimo di 282 pagine de “La notte delle pantere” al massimo di 439 de “Una brutta storia”, considerando le 285 di “Per sempre”, dimenticandosi di tutto e di tutti, chiudendo qualunque contatto con il mondo esterno (e per questo ci vuole un fine settimana, si può fare), oppure optare per una lettura centellinata, che ti faccia aspettare con ansia il momento in cui potrai dedicarti alla storia, sapendo però che ti fermerai volutamente per rimandare la tua dose di adrenalina a un momento successivo e a un altro ancora. 
Ho letto i primi tre volumi della saga di Mazzeo in tempi record, ma stavolta ho fatto la scelta della lettura distillata, salvo farmi prendere nell’ultimo giorno in cui ho macinato oltre cento pagine senza accorgermene… come dire, mi sono lasciata andare e il mio autocontrollo mi ha fatto ciao con la manina. 
 Il motivo per cui avrei voluto prolungare al massimo la lettura risiede nel fatto che sapevo che questa sarebbe stata l’ultima avventura di Biagio Mazzeo, un eroe negativo, maledetto e corrotto, per il quale però non si riesce a non provare che sentimenti di attrazione fatale. Questa quindi è l’ultima storia della Famiglia, del clan di colleghi che quest’uomo risoluto, forte, coraggioso, ha riunito attorno a sé alla conquista della Giungla, in un’escalation di violenza e paura, di intrighi e passioni assolute. Stavolta Mazzeo è solo, i compagni cominciano a nutrire dubbi su di lui e sulle sue scelte, tranne Giorgio Varga, il gigante albino che nonostante tutto gli resta fedele: gli inganni, i sospetti e i tradimenti sono ingredienti che devastano gli equilibri e che lasciano Biagio ad affrontare in solitudine -e con le proprie forze ormai esauste- gli esponenti della ‘ndrangheta con i quali si è invischiato per rincorrere una vendetta personale contro Vatsala Demidova, la donna del capo mafioso ceceno Sergej Ivankov, suo vero assillo. 
I conti devono tornare alla fine, Biagio deve chiudere la partita, con la disperazione per tutto ciò che ha perso, anche se memoria e rimorsi faranno sempre parte di lui e non gli daranno mai pace: i ricordi delle persone amate continueranno ad affacciarsi alla sua coscienza, alimentando rabbia e dolore. Come ho già scritto su Goodreads, assegnando il massimo possibile delle stelline per un giudizio entusiasta, ho sentito anche stavolta adrenalina pura e in più, in quest’ultimo atto, voglia di prendere Biagio Mazzeo e portarlo via dalla Giungla, in un posto tranquillo dove trovare finalmente pace. Mazzeo è uno dei pochi personaggi incontrati nella mia vita di lettrice a coinvolgermi fino al punto di partecipare alle sue vicende e volerne cambiare il corso. 

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Prima di dirti addio 
Autore: Piergiorgio Pulixi 
Dati: 2016, 300 p., brossura; ePub con DRM 1,1 MB 
Editore: e/o (collana Sabot/age) 
Prezzo: € 18,00 (eBook € 9,99) 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 24 giugno 2016

"Dietro ogni curva" di Cetta De Luca

Photo Cetta De Luca

Ogni volta che viaggio, che il percorso sia breve o lungo, sempre mi sorprendo, a un certo punto, ad aspettarmi il mare. Dietro ogni curva, all'improvviso, mi assale il desiderio di vederlo, di abbracciare con lo sguardo la sua vastità, di inebetirmi dei suoi profumi. È talmente radicata in me questa abitudine, che quasi non ci faccio più caso, perché accade, il panorama non mi tradisce mai. La mia mente e il mio cuore lo sanno bene, conservano in sé una memoria naturale del tempo che ci vuole tra un luogo e l'altro, di ogni movimento che il corpo deve fare per avvicinarsi. Percorro strade che sanno di pini e di oleandri, di brezze salate, di nasse e di canti antichi e di tavole marcite, di vernice, di sole. Riconosco i sassi e i granelli di sabbia, le rocce e i promontori e le anse solitarie e le lunghe distese che scivolano, come nastri setosi, tra le marine e le onde. 

E qui, in questa terra lontana, si infrange ogni giorno il mio desiderio. Cammino e viaggio, e ancora col cuore lo cerco, ma non c’è mare quassù, non nel mio spazio, non nel mio tempo di percorrenza. In questa prigione di boschi e prati e fiumi, non esiste uno sbocco senza confine. Ho camminato a piedi nudi sulle rive del Danubio e, anche se non ne ho visto la fine, mi è sembrato piccolo e insignificante e inodore. Senza odore non c’è memoria, senza memoria non c’è storia che valga la pena, che resti, che cambi il corso delle storie future. 

Ho sempre pensato che chi nasce vicino al mare fosse un privilegiato, e mi perdoneranno i nativi delle pianure o delle montagne. Però è così. Nascere con la consapevolezza di avere lo sguardo libero da ostacoli, respirando da subito un’aria densa come melassa dove il sale, lo iodio, i racconti che le onde portano con sé si mescolano e si donano per essere trasportati ancora e ancora. Nascere con lo sciabordio dell’acqua sulle sponde, il fruscio della risacca sulla rena è come continuare la vita nel grembo della madre. Si diventa custodi delle storie del mondo, quelle che i marinai raccontano quando sbarcano, quelle dei luoghi lontani che il mare avvicina, quelle dei morti e dei sopravvissuti, quelle di battaglie, di vittorie, di sconfitte, quelle di amori consumati tra le barche mentre in cielo brillano fuochi d’artificio. Ci si apre alla vita e si impara ad accogliere, subito, col primo vagito. Un vagito poderoso, che deve farsi sentire al di là del frastuono dell’onda che si infrange. Forse per questo la gente di mare parla a voce più alta. 

©CettaDeLuca

Soundtrack: Mango, "E mi basta il mare"

giovedì 26 maggio 2016

Ultima lettura: "Per sempre" di Piergiorgio Pulixi


Mazzeo trattenne il fiato.
sapeva che in quel momento si stava decidendo il suo destino
e quello di tutte le persone che amava.
Come in una partita a poker
aveva puntato tutto ciò che aveva su quella mano.
Tutto.


Come è possibile amare un eroe negativo? È quello che mi sono chiesta quando ho letto il primo romanzo di Piergiorgio Pulixi con Biagio Mazzeo come protagonista, nel momento in cui ho inquadrato il personaggio, che avevo sfiorato appena su Svolgimento e che mi aveva affascinato, anche se non ne avevo immediatamente compreso la portata e la forza.
D’altra parte, che Pulixi fosse uno scrittore di grande intensità narrativa, capace di tenere il lettore avvinto alla storia fino all’ultima parola dell’ultima pagina, lo avevo capito benissimo con "L'appuntamento", quindi leggere la saga poliziesca che ha come protagonista questo poliziotto spietato e insieme sensibile, corrotto ma con un suo senso dei valori, è stata una scelta cercata.
E allora… Biagio Mazzeo è un poliziotto della Narcotici, colluso volta per volta con la malavita organizzata per necessità contingenti; gestisce la Famiglia, una banda molto unita composta da colleghi corrotti come lui e che con lui dividono lo stesso stile di vita, in una grande città non meglio identificata, che viene chiamata la Giungla e della quale hanno il pieno controllo.
Nei tre romanzi pubblicati per le edizioni e/o tra il 2012 e il 2015, Mazzeo e la sua banda sono i protagonisti di una guerra senza confine che li vede prima contrapposti al clan legato al movimento di liberazione della Cecenia, il cui capo Sergej Ivankov diventa una vera e propria ossessione per Biagio, poi alla ‘ndrangheta calabrese con cui si contendono il traffico di droga e di capitali sporchi; a cornice delle vicende sanguinose, che si susseguono senza soluzione di continuità in una escalation di fatti cruenti, ci sono i rapporti con i superiori, tra i quali è difficile distinguere il confine tra lecito e illecito, tra metodi di indagine legittimi e abusi di potere.
Pulixi si muove disinvoltamente in una scrittura complessa sul piano della gestione dei vari fili della matassa di una vicenda che ha come perno fondamentale la Famiglia, e che allo stesso tempo è agile, ricca di sequenze dialogiche che la fanno sembrare una sceneggiatura. La suspense è continua e i cambi di scena repentini, ci si sposta da un set all’altro dell’azione come davanti a uno schermo in cui non si vede dissolvenza, ma solo netti contrasti tra tinte fosche.
Volutamente non mi soffermo in particolare sull’ultimo dei tre romanzi letti, “Per sempre”, nella convinzione che il personaggio di Mazzeo cresca in modo graduale, pur irrompendo già nella prima storia e arrivando a giganteggiare nel terzo episodio. Per questo trovo leggere i romanzi in ordine, anche se l’Autore richiama sempre le vicende precedenti in modo da rendere chiaro il percorso avviato con “Una brutta storia”; lo considero un buon modo per seguire coerentemente il protagonista anche nelle vicende più intime, nelle tracce che la storia che vive lascia nel profondo della sua anima e che sono prodromi delle sue scelte esistenziali. Gli ingredienti sono i classici del noir: soldi, potere, violenza, droga, corruzione, prostituzione. Ma dentro c’è anche sentimento: amicizia, passione, amore e addirittura tenerezza, quella ad esempio che Biagio prova per Nicky, la figlia adolescente di Santo Spada, suo mentore morto in un’azione di guerriglia urbana, che Mazzeo prende sotto la sua tutela.
Non so cosa affascina di Biagio Mazzeo e di tutti i coprotagonisti della saga: personaggi forti, dalla personalità decisa, con ruoli definiti, ma comunque maledetti, assolutamente negativi. Me lo sono chiesto tutte le volte che, dovendo fare altro, interrompevo a malincuore la lettura: non mi sono data risposta, che non risieda nella straordinaria capacità di coinvolgimento che si deve all’inventiva dell’Autore.
Mentre scrivo è già uscita da pochi giorni la quarta storia della Famiglia e già i lettori affezionati sanno che si tratta dell’ultima avventura di Biagio Mazzeo, che il suo creatore saluta definitivamente: è difficile pensare ad una parabola discendente per il poliziotto più complicato che si possa immaginare, mi piace pensare che uscirà di scena in modo plateale.
Aspetto di leggere “Prima di dirti addio”, ma già mi dispiace pensare che non incontrerò più gli occhi di ghiaccio di Biagio Mazzeo.
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Per sempre
Autore: Piergiorgio Pulixi
Dati: 2015, 285 p., brossura; ePub con DRM 1 MB
Editore: E/O (collana Sabot/age)
Prezzo: € 16,50 (eBook € 7,99)
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

domenica 15 maggio 2016

Ultima lettura: "Mi sa che fuori è primavera" di Concita De Gregorio


Va bene Philippe.
Le coincidenze non esistono.
Hai ragione tu, comme d’habitude.
Esistono i desideri e le passioni che ci portano e ci legano,
le rotte disegnate e invisibili sulle quali corriamo,
i nodi, i pettini, i nostri capelli.
I miei sono molto corti, adesso.
Quasi non servono spazzole, bastano le mani per tenerli in ordine.

È appena iniziato il 2011 e le gemelline Livia e Alessia, 6 anni, spariscono nel nulla, insieme al loro papà, Mathias. Un uomo che non avrebbe mai potuto far loro del male e che però sicuramente l’ha fatto a se stesso, suicidandosi a Cerignola, dopo una lunga fuga partita da Losanna. E altrettanto sicuramente, per quanto inspiegabilmente, l’ha fatto alle sue bambine. E così ha lasciato sola Irina, la sua ex moglie, italiana trapiantata in Svizzera, avvocato e madre di Livia e Alessia, con poche e semplici parole: «Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più».
A Irina Lucidi ha dato voce Concita De Gregorio, nel lungo racconto che la donna le consegna, fatto di frammenti di vita passata, ricordi, ricostruzioni, appelli a chi poteva e doveva intervenire per tempo, indagare forse diversamente da come ha fatto, fermare il delirio di un uomo chiaramente in preda a un disagio psichico antico ma subdolo, invisibile se non attraverso tracce difficilmente interpretabili di primo acchito (“Perché le persone che avrebbero potuto dare notizie utili –gli amici di Mathias, la sua famiglia, la nostra tata, gli psicologi che lo avevano in cura- sono stati così evasivi, latitanti? Così assenti.  Così freddi nel dolore che sarò stato grande anche per ciascuno di loro, certo non grande come il mio ma grande, è sicuro”).
Come puoi pensare che un marito che ti lascia istruzioni su come vestire le bambine, su come preparar loro la colazione, su quante mandate dare alla serratura della porta di casa, su come organizzare la vita della famiglia sia un manipolatore, quale è, e non invece un papà e un marito forse un po’ troppo apprensivo? Questo pensava Irina, che forse Mathias fosse un po’ esagerato, che forse non la considerasse capace di fare la madre secondo il modello che lui aveva in mente, che amasse le loro figlie oltre modo. E invece…
Invece, dopo una separazione affatto traumatica, in cui Irina e Mathias riescono facilmente ad accordarsi su come gestire i tempi e gli spazi delle bambine con l’una e con l’altro, proprio al ritorno da una vacanza, Mathias sparisce portandosi dietro Livia e Alessia. Qui parte la ricerca disperata di Irina e lo sprofondare in un dolore inimmaginabile, le domande, le analisi dei rapporti con le persone che hanno fatto un pezzo di strada con lei, i pregiudizi che hanno condizionato queste relazioni.  E il tentativo di riprendersi una vita normale, riuscito grazie a Luis, un uomo che pazientemente raccoglie i suoi cocci dispersi e li rimette insieme, legandoli a un anello, a una promessa (“Felice, mai così tanto. Ti sembra un sacrilegio? Lo so, lo so. Però lasciami questi minuti intatti. Una gioia incredibile, una gioia perfetta. Luis mi ha detto: provalo, non è niente di speciale ma mi pareva giusto per te, l’ho visto e ho pensato : è proprio come lei, le somiglia. Non è niente di speciale, ha detto. E lo sai com’è fatto? Sono foglie d’albero che formano un cerchio”).
Assegno sempre il massimo delle stelline ai libri che mi trasmettono forti emozioni, che mi coinvolgono sentimentalmente e si fanno leggere senza che quasi mi accorga delle ore che passano (questo l'ho letto in tre ore, durante un viaggio in treno in cui sono arrivata a destinazione sull'ultima parola del racconto). Il giudizio letterario viene in un momento successivo, in casi del genere. Anche perché una forma sciatta mi respinge da subito, quindi il problema non si pone, un libro scritto male lo lascio al suo destino senza sensi di colpa: insomma, per me sicuramente un libro deve saper fare questo, prenderti. E che lo debba fare nella forma più bella e corretta lo do per scontato, vorrei non doverne discutere. Su questo libro non c'è da discutere, il contenitore è adeguato a un contenuto duro e bello, lucido e straziante, assoluto. Frammentarie, dal ritmo ineguale, le voci di Irina e di Concita si confondono nella narrazione (in tondo e in corsivo) e ricostruiscono vicende, indagando nei sentimenti di entrambe, ciascuna nei suoi, la prima in quelli feriti da un’esperienza vissuta, la seconda in quelli di chi si chiede se riuscirà a trovare le parole per raccontare quella esperienza.
De Gregorio le parole le ha trovate e ci restituisce il coraggio di una donna potente e fragile allo stesso tempo, che ha trovato la forza di rialzarsi nonostante tutto.
Perché la vita alla fine può su tutto, per fortuna.

 
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Mi sa che fuori è primavera
Autore: Concita De Gregorio
Dati: 2015, 122 p., brossura; ePub con DRM 2,1 MB
Editore: Feltrinelli (collana I narratori)
Prezzo: € 13,00
Giudizio su Goodreads: 5 stelline