sabato 31 dicembre 2016

"Rituali" di Daniele Bergesio

 
Photo Daniele Bergesio

Aveva un suo rituale, che ripeteva deciso ogni 31 dicembre. Si alzava con comodo, diciamo intorno alle otto e mezza nove, abbandonando al suo destino la sveglia in un’altra stanza. Si trascinava in bagno per una doccia tiepida, alla temperatura necessaria per rientrare definitivamente in sé senza restarne troppo scioccato. Colazione con pane e miele, caffè e una spremuta: pompelmo, piccola concessione all’ultimo giorno dell’anno. 
Aveva un suo rituale, ogni 31 dicembre. Con la pancia piena e i nervi saldi, occhiali da sole inforcati con imbarazzo, in mattinata affrontava il supermercato. Acquistava sempre le stesse cose: un pacco di tortellini, un barattolo di sugo pronto, due spiedini, patate novelle di quelle surgelate e un panettone senza canditi e senza marca. Se l’umore lo sosteneva, un passaggio nella corsia degli alcolici fruttava una bottiglia di prosecchino; altrimenti, semplice aranciata. Per pranzo, solo un toast – ma preparato con tutti i crismi: pane, formaggio, prosciutto cotto, altro formaggio, pane; doratura leggera, croccante fuori e morbido dentro. 
Aveva un suo rituale, ogni 31 dicembre pomeriggio. Dopo pranzo spegneva il cellulare – non smartphone, accidenti, ma un vecchio 3310 di cui faticava a trovare ancora batterie di ricambio – e la televisione che gli aveva tenuto compagnia mentre mangiava, abbassava le tapparelle a mezz’asta, chiudeva a chiave la porta di casa, metteva la catenella, staccava persino i contatti del citofono. Si sedeva in poltrona, e alla luce di una piantana dalla lampadina giallognola rileggeva Pinocchio da cima a fondo, commuovendosi per Melampo e facendo il tifo per Lucignolo - chissà perché gli stava così simpatico.
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre: giunta ora di cena accendeva il forno e metteva la pentola sul fornello, salando prima l’acqua – tanto sono sciocchezze, bolle nello stesso tempo! – e versandosi un bicchiere. Infornava spiedini e patate, buttava i suoi ottanta grammi di pasta mettendo il timer (sì, non si fa, la pasta va assaggiata e bla bla bla: viene buona comunque, davvero) e la scolava sull’attenti al perentorio DRIN che detestava, ma quel segnatempo lo comandava a bacchetta da ventidue anni: come poteva anche solo immaginare di sostituirlo? Aggiungeva il ragù, niente formaggio, e impiegava giusto il tempo per finire il piatto che il secondo in forno era bell’e pronto: in tanti anni di ripetizione del rito, ormai aveva una tempistica della masticazione che verrebbe da definire “ad orologeria”. Completava la cena, tagliava una fetta di panettone osservando le bollicine che correvano su per il calice del prosecchino e sì, la sua magica serata di Capodanno si concludeva così: con la tavola da sparecchiare e l’ultimo capitolo di Pinocchio da finire sotto le coperte. 
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre, e non c’erano botti o conti alla rovescia che lo facessero desistere dal metterlo in pratica meticolosamente: non bastava una stupida convenzione a convincerlo che valesse la pena accodarsi alla massa. E poi per cosa, per accogliere altri 365 giorni uguali a quelli appena trascorsi? Tutta quella gente lì fuori non capiva la bellezza di una routine consolidata, vissuta nella propria tana a propria misura – un appartamento simile a un guanto, una giacca, un cuscino modellato secondo le proprie curve del collo. 
Aveva un rituale, ogni 31 dicembre. 
Finché quel 31 dicembre, alle 19.13, giusto quando stava riempiendo d’acqua la pentola, una nuova vicina bussò guardinga alla sua porta per una tazza di sale. “Mi perdoni”, disse mentre lui la osservava nervoso dallo spioncino, “non lo farei mai, ma altrimenti i tortellini mi vengono insipidi”. Sul maglione, un gigantesco Pinocchio sembrava osservarlo con altrettanto fastidio. Quel 31 dicembre, alle 19.13, tolse la catenella e, con cautela, aprì. 

©Daniele Bergesio

Soundtrack: Simon & Garfunkel, "I am a rock"

giovedì 29 dicembre 2016

2016: le letture di ExLibris

[…] Tuttavia, tuttavia, non riesco a togliermi dalla testa l’idea 
che la compagnia dei nostri autori preferiti ci renda più frequentabili a noi stessi, 
 più capaci di salvaguardare la nostra libertà di essere, 
di tenere a bada il nostro desiderio di avere 
e di consolarci della nostra solitudine 
(Daniel Pennac, “Una lezione d’ignoranza”, astoria/assaggi) 

Scorro come ogni fine d’anno l’elenco dei libri letti e cerco di fare un bilancio dei grandi entusiasmi e di qualche delusione di cui ho preferito non parlare qui per una precisa scelta, determinata dalla constatazione che esistono scrittori molto suscettibili che non sempre accettano di buon grado la critica negativa, certamente argomentata e circostanziata, ma pur sempre garbatamente negativa, per cui lascio volentieri il compito della stroncatura inappellabile ad altri che hanno più pelo sullo stomaco di me (e ce ne sono): il mio non è un blog buonista, è un blog dove ho deciso da un po’ di tempo di scrivere solo di quello che mi è piaciuto e al massimo fare brevissimi accenni a qualcosa non all’altezza delle mie aspettative. 
D’altra parte molti sono i libri letti di cui non ho avuto modo di scrivere, un po’ per mancanza di tempo e anche di voglia; Io e Pepe (e libri e altro) ha conosciuto un’estate svogliata, in cui ho meditato seriamente di chiudere baracca e burattini, per poi riprendere con rinvigorito entusiasmo in autunno, quando si avvicinava il quarto compleanno del blog. 
Così la rassegna è presto fatta: 
• il 2016 è stato l’anno di Piergiorgio Pulixi, Kent Haruf, ai quali ho dedicato specifici post, e Marcel Proust, del quale ho letto i primi tre monumentali volumi della Recherche, grazie ad un gruppo di lettura organizzato da Klára Slivovice, costola di quello degli Scratchreaders; 
• è stato l’anno di #LeggoNobel, progetto ideato e portato avanti con Valentina Accardi di “La biblioteca di Babele”, grazie al quale abbiamo già letto otto Nobel (Rudyard Kipling, Alice Munro, Elias Canetti, Albert Camus, Yasunari Kawabata, William Faulkner, Imre Kertész, Selma Lagerlöf), registrando un buon seguito nel gruppo di lettura su Facebook; 
• è stato ancora l’anno di libri letti con TwLetteratura, in particolare “Maus” di Art Spiegelman, “Caro Michele” di Natalia Ginzburg, “Storie di cronopios e di famas” di Julio Cortázar, “Il cammino della Comunità” di Adriano Olivetti, “La tregua” di Primo Levi, mentre è ancora in corso la lettura di “Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello
• è stato l’anno in cui ho scoperto casualmente Eleonora Albanese e il suo “Per te. Con tutto l’amore che non mi hai detto”, un delizioso libro autopubblicato con ilmiolibro, che meriterebbe attenzione da parte di qualche editore che abbia buon fiuto per i talenti veri. Si tratta della storia di Carina e del suo cuore diviso tra Compagno, suo amore tranquillo e irrinunciabile, e l'amico di sempre, Rospo, che dopo un bacio diventa Principe. Una storia d'amore comune e atipica allo stesso tempo, raccontata con garbo e delicatezza, tra sorrisi e riflessioni, come ho avuto modo di scrivere nella mia breve recensione su Goodreads; 
• è stato l’anno dei libri ripresi (“Che tu sia per me il coltello” di David Grossman), ritrovati (“Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati), riletti (i già citati Ginzburg, Levi e Pirandello), abbandonati (“Autodafé” di Canetti e “Rayuela” di Julio Cortazár, quest’ultimo solo perché lo stesso autore dice che arrivati al cap. 56, non è necessario leggere il resto del libro); 
• è stato l’anno delle grandi case editrici e di piccole realtà molto stimolanti come Aliberti compagnia editoriale, Fernandel, Caracò, Astoria, solo per fare qualche nome; 
• il 2016 è stato l'anno in cui io e Pepe siamo andati in trasferta: abbiamo letto "La vita che si ama. Storie di felicità" di Roberto Vecchioni, inaugurando con lostruzzoascuola.it (settore scuola del sito Einaudi) una collaborazione che spero duri a lungo;
• è stato l’anno dei miei ospiti, scrittori di passaggio che mi hanno regalato i loro brevi racconti inediti. Li trovate tutti qui e restate connessi, ché il 31 ne arriva un altro (sorpresa di fine anno!).
Photo Elena Tamborrino
 Il 2016 è stato anche l’anno di uno dei libri a mio parere meno compresi che siano mai stati pubblicati e che però io ho trovato stupefacente. Si tratta di “La femmina nuda” di Elena Stancanelli, edito da La nave di Teseo, bistrattato dalla giuria del Premio Strega, criticato ferocemente dal pubblico, amato tuttavia da qualcuno che è riuscito ad andare oltre l’apparenza di una scrittura scarna, essenziale, disperata ed esplicita. 
Letto in un fiato, mi ha colpito l'analisi introspettiva di un dolore totalizzante, capace di far perdere lucidità e dignità. Scritto bene, scivola veloce. E ho compreso il motivo per cui Francesco Piccolo lo ha candidato allo Strega: un comune senso del narrare la quotidianità più intima, in un momento particolare della vita. Piccolo lo ha fatto ne "La separazione del maschio", la Stancanelli con la storia di Anna e della sua disperazione compulsiva. 
Raramente mi è capitato di leggere pareri così contrastanti su un libro: chi lo condanna e chi lo esalta, non esiste una via di mezzo. A me è piaciuto tanto, altri lo hanno trovato bruttissimo e non so darmene una spiegazione, non posso pensare che sia per le scene di sesso esplicito, perché secondo me erano necessarie e se uno ha un minimo di esperienza di letteratura erotica, capisce perfettamente che questo libro non rientra in quel genere, anzi. Non bastano le descrizioni minuziose di un organo riproduttivo o di atti di autoerotismo per ridurre un libro solo a quello. Qui invece, ciò che è importante è tutto l'intorno a quelle descrizioni: una disperazione così cupa e profonda che si alimenta attraverso i moderni mezzi di comunicazione, fino a diventare quasi patologia. Questo è importante, Anna e i suoi pensieri sono importanti, il suo corpo che si annulla fino a essere inconsistente. 
Capisco che a mia madre, signora di altra generazione, non sia piaciuto, al di là le scene di sesso che da sole erano già sufficienti per farle storcere il naso: lei non può comprendere le nuove dinamiche comunicative, i discorsi di profili virtuali violati, di cellulari compulsivamente spiati (e relativi sistemi per), manie persecutorie immaginate, amori disperanti. Certo le scene di sesso sono forti, non c'è che dire. Ma io sono stata colpita da altro. E altro vorrei che vedessero i lettori di questo libro, la cui immagine di copertina non a caso ho scelto per questo post di bilancio di fine anno. 
Non mi resta che consigliarvi di spulciare il mio elenco di letture per trovare ispirazione, auguravi buone letture e a me un 2017 a tutto blog, che significa soprattutto nuove letture. 
Photo Elena Tamborrino

sabato 24 dicembre 2016

Letture di questo Natale

“Vedete, devo dire che c’è una tradizione a Mårbacka, 
che quando si va a dormire la Vigilia di Natale 
si ha il permesso di avvicinare un tavolino al letto, 
metterci sopra una candela e poi leggere finché si vuole. 
Questa è la più grande di tutte le gioie di Natale. 
Non c’è niente di più bello che starsene lì sdraiati con un bel libro avuto in regalo, 
un libro nuovo che non si è ancora mai visto e che nessun altro in casa conosce, 
e sapere che si può leggere pagina dopo pagina finché si riesce a stare svegli. 
Ma cosa si fa la notte di Natale, se non si sono ricevuti libri?” 

Il passo che avete appena letto è tratto da “Il libro di Natale” di Selma Lagerlöf, uno dei libri che mi ha accompagnato in questo dicembre. Quest’anno il caso, un po’ guidato grazie anche alla complicità delle mie amiche Valentina Accardi, Erika Pucci e Maddalena Santacroce, ha voluto che con i progetti #LeggoNobel#CarolTw, la preparazione al Natale avvenisse sotto l’insegna dei grandi classici: non solo il libro del Nobel per la Letteratura del 1909 sopra citato, ma anche il classico più classico di tutti, cioè “Canto di Natale” di Charles Dickens, ai quali ho aggiunto “Biglietti di Natale” di Hans Christian Andersen, una raccolta di tredici racconti, tra cui le celebri “Scarpette rosse” e “La piccola fiammiferaia”, in una pregevole edizione Mattioli 1885. Immergersi nell’atmosfera del Natale con lo stato d’animo il meglio predisposto possibile era il mio obiettivo di quest’anno e credo di esserci riuscita, anche se non tutti i libri letti hanno soddisfatto le aspettative, probabilmente perché non esclusivamente centrati sul Natale. 
Ad esempio del volumetto di Andersen più che i racconti ho trovato particolarmente gustosa l’introduzione dei curatori, Livio Crescenzi e Silvia Zamagni, in cui si descrive il rapporto di cordialità che legò lo scrittore danese a Charles Dickens negli anni in cui Andersen frequentava l’Inghilterra, dove intratteneva rapporti non sempre sereni con l’editoria inglese, nonostante l’accoglienza trionfale che il pubblico riservava puntualmente alle sue opere. Dello scrittore si descrive il carattere infantile e presuntuoso, e l’attrazione che provava verso l’affascinante Dickens, testimoniata dalle lettere che gli destinava. 
Allo stesso modo è interessante il contributo che chiude il volume, “Ai piccoli lettori” di Charles Boner, scrittore di viaggio inglese che tradusse gran parte delle opere di Andersen: vi si racconta delle circostanze in cui nacquero alcuni dei racconti della raccolta, alcuni aneddoti biografici su Andersen e sulla sua grande capacità di inventare storie a partire da qualunque cosa e di avere uno straordinario talento nel raccontarle a voce. 
“Il libro di Natale” di Selma Lagerlöf è la scelta che Valentina Accardi ed io abbiamo fatto per #LeggoNobel: al Natale spesso, nell’immaginario collettivo, si associano paesaggi nordici e sono quelli in cui la scrittrice svedese fa calare i suoi lettori, piccoli e grandi. Le nostalgie dell’infanzia passata, le storie narrate dagli adulti, le leggende e le fiabe contribuiscono a rendere l’atmosfera natalizia carica di attese e desideri e favoriscono la riflessione sui valori della gentilezza e della generosità. 
Non mancano alcuni aspetti inquietanti, tanto per non smentire la convinzione che anche dietro le storie più innocenti si celano piccole crudeltà, che la bontà degli eroi positivi sconfigge sempre. 
“Canto di Natale” è stata la lettura che con TwLetteratura abbiamo commentato su Twitter e Betwyll, con un’ottima risposta da parte degli utenti che hanno accolto con grande favore la proposta di questo grande classico immortale, letto e riletto, riscritto al cinema e variamente interpretato. 
Ho riletto l’edizione speciale del Corriere della Sera, uscita nel 2002 nella collana “I grandi romanzi” e ho apprezzato la presentazione che ne fa Alessio Altichieri, parlando di libro “miracoloso” secondo la definizione che già fu del critico inglese Charles Percy Snow. Dickens è l’uomo che ha inventato il Natale, che ha reso magica e un po’ misteriosa l’essenza della festa, concentrata negli affetti familiari e nel calore delle case, anche quelle più povere, perché dove c’è amore regna l’armonia e basta stringersi un po’ per sentirsi migliori. 


Il libro di Natale 
Autore: Selma Lagerlöf 
Traduz: Maria Cristina Lombardi 
Dati: 2014, 128 p., brossura; 
Editore: Iperborea; 
Prezzo: € 12,50 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle 
Biglietti di Natale 
Autore: Hans Christian Andersen 
Traduz: Livio Crescenzi e Silvia Zamagni 
Dati: 2016, 153 p., brossura; 
Editore: Mattioli 1885; 
Prezzo: € 8,90 
Giudizio su Goodreads: 3 stelle 
Canto di Natale 
Autore: Charles Dickens 
Traduz: Maria Luisa Fehr 
Dati: 2002, 139 p., rilegato; 
Editore: RCS Editori, ediz speciale per il Corriere della Sera, collana I grandi romanzi; 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle 
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venerdì 16 dicembre 2016

"Per troppa luce" di Livio Romano

«Ti prometto che non bruceremo tutto per troppa luce, 
che questo fuoco non arderà come un falò di sterpi» 
e la cosa, invece di farla ridere come avrebbe dovuto, 
le fa salir su un altro grumo di pianto, 
ne è seccata, si libera dalla morsa, 
affonda la testa nella pelliccia interna dell’eskimo 
che Antonio tiene aperto. 

Livio Romano è uno scardinatore, un sovversivo della lingua: cercare di “spiegarne” la scrittura è difficile, perché è un po’ come voler prendere l’acqua in mano, non è possibile, non ci sta. 
Livio Romano è uno che lo leggi e ti risucchia in un vortice di parole legate spesso per asindeto, senza congiunzioni e a volte anche senza virgole, ché occupano spazio e quando i pensieri vanno rapidi, le parole devono seguirli senza inciampi, veloci come bere un bicchiere d’acqua quando fuori fa caldo e ti senti la bocca secca. Lo fa in alcuni passi di questo romanzo sorprendente, se non si conosce la scrittura di Romano, invece perfettamente in linea con uno stile personalissimo e inconfondibile, che a tratti fa pensare alla scrittura di Gaetano Cappelli –penso in particolare a “Storia controversa dell'inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo” e a “Volare basso” (entrambi titoli Marsilio)-, ma che acquista la sua individualità nel momento in cui la narrazione è calata nel contesto salentino, dove l’Autore ha ambientato anche altri suoi romanzi, come “Mistandivò”, edito da Einaudi, “Porto di mare” (Sironi), “Niente da ridere” (Marsilio) e “Il mare perché corre”, anche questo edito da Fernandel. Se insomma un tratto dobbiamo trovare in comune con lo scrittore lucano, questo va ricercato sicuramente nel tono dissacratore e umoristico, fino al sarcasmo, di alcune pagine. 
Dove, quindi, Livio Romano riversa questa verve singolare, in che contesto, a quali personaggi regala un profilo, che storia racconta? 
La trama, in breve: Antonio Congedo e Simona Marris, lui ispettore del lavoro e lei avvocata, si incontrano e danno inizio a una relazione che, tra alti e bassi, li vede anche coinvolti nella battaglia civile contro il progetto per la realizzazione di un parco tematico nella regione salentina dell’Arneo. Il parco -la ricostruzione di un’antica città messapica, interamente finanziata con fondi pubblici- è idea ingegnosa di un docente universitario, il Prof. Caraccio, del proprietario di una web tv, Vittorio Nardelli, di un medico dell’ASL, il dott. Amari, i quali hanno ingaggiato l’architetto portoghese Francis Arrangiau per la sua realizzazione. 
L’esecuzione del progetto, devastante per il territorio ma redditizia assai per il terzetto truffaldino, prevede come primo intervento l’abbattimento di una masseria in cui alloggiano centinaia di lavoratori agricoli immigrati, sfruttati dai “caporali” nelle campagne limitrofe. Da qui si muove l’attività di Simona che diventerà, probabilmente suo malgrado, protagonista della lotta contro l’ingiustizia nei confronti del territorio e degli immigrati e che troverà in Antonio un alleato prezioso. Quanto prezioso, si vedrà alla fine della storia, che ha un risvolto giallo. 
Su questa struttura narrativa, sale un carosello di personaggi irresistibili, alcuni dei quali grotteschi fino alla caricatura. Spiccano tra tutti le figure di Simona e Antonio, protagonisti di una storia d’amore potente e tormentata dalle profonde diversità caratteriali dei due -lei passionale, iperattiva, vulcanica, sexy, lui più posato e riflessivo, eppure complementari (nel dormire, “masso di sonno e carne pesanti lui, elastica seppia aderente lei, filiforme eppure vigorosa”)-. Sorpresi da fatale attrazione reciproca, partita da un’iniziale antipatia, si prendono e si lasciano, concedendosi -negli intervalli- improbabili relazioni sessuali che alimentano gelosie e rimpianti: tra loro, anche nei momenti di distacco, resistono stima e amore. 
Più difficile è parlare degli altri personaggi che animano questa commedia tragicomica, dove troviamo insieme temi sociali e vizi privati, dinamiche familiari complesse e sistemi affaristici disdicevoli: molto caratterizzati, richiedono di essere accolti dal lettore e ascoltati, compresi. 
I temi affrontati sono di stretta attualità, tanto da far apparire Romano quasi preveggente: la fine della scrittura del romanzo risale al 2013, quando ancora non si poteva immaginare la svolta mediatica che avrebbe visto solo quest’anno la nostra regione in primo piano, per le iniziative imprenditoriali che probabilmente trasformeranno parte della costa adriatica in un grande villaggio turistico di lusso, “’na cosa che la gente deve rimanere di stucco”, come dice il dottor Amari al Nardelli, descrivendogli il progetto del parco messapico. 
Troviamo ancora il tema dell’immigrazione e dello sfruttamento degli irregolari africani da parte dei piccoli imprenditori terrieri in tutto il meridione, sappiamo bene –perché ce lo racconta la cronaca- in quali condizioni e spesso con quali conseguenze. 
Sullo sfondo, la profonda riflessione sul futuro di questa terra, dai giovani trentenni “che o se ne vanno a Copenaghen oppure restano qua”, ad accontentarsi di ciò che trovano da fare e soprattutto a casa con i genitori, fino alla convinzione che il turismo sia la sola risorsa possibile, da sfruttare senza criterio, pensando solo all’immediato guadagno economico. 
Leggere questo romanzo è stato come salire sulla giostra, nota come "calcinculo", i seggiolini volanti che tra l'altro sono in copertina. E non poteva esserci immagine più calzante per una narrazione mozzafiato, sia per la storia in cui si intrecciano amore, sesso, corruzione, territorio, sia per lo stile ironico e dissacrante, sia per la lingua, che Romano piega a suo piacimento, mescolando preziosismi lessicali a dialetto e gergo, con risultati ibridi decisamente originali. 
 
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Per troppa luce 
Autore: Livio Romano 
Dati: 2016, 269 p., brossura; 
Editore: Fernandel; 
 Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

giovedì 8 dicembre 2016

"Salento" di Lucio Causo

 
Photo Mauro Minutello

Si era nel pieno dell’estate e l’assenza di impegni scolastici ci lasciava completamente liberi del nostro tempo. Ed ora era la caccia delle lucertole lungo i muri a secco delle campagne, ora la puntata fino al mare di Mancaversa per un bagno collettivo, ora qualche altro passatempo: ogni volta qualcosa veniva fuori. Quella sera, mentre il bar della piazza spegneva la sua vecchia insegna, decidemmo che l’indomani saremmo andati verso la strada ferrata per Gallipoli
Lo stormire degli ulivi era per noi la musica più dolce, quella musica che ci aveva accompagnati fin dalla nascita, per i giorni, i mesi e gli anni della nostra vita. Risentirla lungo la ferrovia era ancora più dolce, aveva un che di magico, era come il suono che accompagnava il nostro sogno di partenze, di viaggi verso l’ignoto, un ignoto che per noi però aveva sempre un cielo: quel nostro, azzurrissimo cielo del Salento, steso su quello stormire soave, atavico di fronde d’ulivi. 
Il sole saliva e si faceva sempre più caldo, e più calde faceva le sbarre delle rotaie dei binari, la cui superficie luccicava secondo il nostro saltellare sulle traversine. Poi mettevamo l’orecchio aderente alla calda rotaia, si cercava di captare il rumore del treno che si avvicinava. Chi per primo l’avvertiva esplodeva in un grido vittorioso e allora cominciava per tutti l’attesa del nero mostro fumante, attesa tanto più colma d’ansia e quasi di paura quanto meno si riusciva a prevedere da dove sarebbe apparso. E poi eccolo! E allora tutti giù per la scarpata brecciosa per vedere il treno passare veloce fischiando. Poi si sciamava pei vasti uliveti e si gridavano i nostri nomi che duravano a lungo nell’aria, procurandoci una strana paura, di essere esposti chissà a quale oscura punizione. 
Spesso si camminava così fino al tramonto, quando si sostava presso lo stagno e s’osservavano i verdi ranocchi saltare dai galleggianti sterpi limacciosi sugli umidi sassi a riva e viceversa, e noi li stuzzicavamo per sentirne il roco gracidio. Dallo stradone giungeva il rullare dei carri, i traini, che rientravano al paese e allora anche noi tornavamo verso le basse case bianche del paese che il crepuscolo già avvolgeva del suo tenero blu opaco. 
D’inverno si stava più rinchiusi in casa, ma ugualmente s’usciva il pomeriggio, con le labbra livide, le mani intirizzite, paralizzate quasi dal freddo, che non si riusciva neanche ad avviare la trottolina di legno. Per la campagna, squallida, spoglia, dai neri alberi senza vita, non si andava più, se non per raggiungere una casupola abbandonata, caseddhu, dove ci si raccoglieva quando fuori pioveva.
Allora, dopo avere acceso un focherello scoppiettante, si raccontavano storie di santi e di banditi, di buffoni e d’eroi. Quando l’ombra calava si tornava alle case, come gli uccelli al nido. 

Febbraio portava i primi avvisi della primavera. S’aprivano sugli alberi le prime gemme, la campagna intorno al paese si chiazzava via via di pallidi rosa. 
In aprile, poi, l’aria fattasi più dolce galleggiava su onde di limpido verde nei campi di grano e noi riprendevamo a sedere, la sera, sui gradini della chiesa, fino a che l’Angelus non spargeva i suoi rintocchi d’argento sulle basse case bianche del paese.
©Lucio Causo

Soundtrack: Ben E. King, "Stand by me"

sabato 3 dicembre 2016

"Fidati di me, fratello (una storia vera)" di Alessio Viola

Un consiglio di famiglia è sempre una cosa importante. 
Per questo motivo si tiene a tavola, 
non ci sono posti migliori, 
soprattutto la domenica all’ora di pranzo. 

Vitino Sciannameo prende le redini della propria famiglia dopo che il padre è stato ucciso per uno sgarro consumato ai danni della Camorra. Il clan barese, a cui Sciannameo padre era affiliato, nella persona del boss Nicola Degiosa offre aiuto e protezione a Vitino, che non può pensare alla vendetta (ché la malavita segue un codice in cui l’errore si paga sempre, al di là degli schieramenti e delle rivalità) ma che può ereditare un ruolo all’interno dell’organizzazione. 
E Vitino è bravissimo: uomo di poche parole, si fa carico di un compito che non si aspettava di dover onorare così giovane, comprende che la fermezza e il cinismo saranno sue compagne di vita, che l’onore ha un prezzo e che i soldi muovono tutto. Vent’anni dopo il funerale del padre, Vitino e la famiglia si ritrovano nella stessa chiesa, per un altro funerale. 
È così che parte il lungo flashback che ricostruisce l’escalation feroce di Vitino, che non esita a utilizzare Franchino, il fratello minore che vive ammirandolo sconfinatamente, come “assaggiatore” della droga che acquista e rivende dopo aver organizzato una specie di supermarket della roba, in un quartiere nuovo di periferia, il Sant’Elia, dove è possibile trovare ampi spazi di manovra, sempre con il beneplacito dei vertici dell’organizzazione malavitosa, capeggiata da Degiosa. Nel frattempo anche dal quartiere Libertà, dove vive nel centro di Bari, Vitino si è mosso e nei pressi della stazione, ai margini tra il quartiere Murat, con i suoi negozi scintillanti, e il quartiere Libertà, crocevia della microcriminalità, allestisce una casa di appuntamenti di lusso, dove piazza le sorelle gemelle come tenutarie. Sembra impossibile che in uno spazio così circoscritto possano convivere zone socialmente tanto distanti: il distretto murattiano, salotto della città, centro del commercio e della cultura, e il quartiere Libertà, storicamente degradato, dove l’illegalità dilaga e la vita per i giovani è una scommessa. 
Potrebbe accontentarsi, Vitino, e restare all’ombra del boss, al suo servizio, e invece prova ad allargarsi, tenta la scalata “imprenditoriale”, con Franchino che gli garantisce la qualità dell’eroina acquistata: a lui basta assaggiarla appena, osservarne il colore, annusarla per capire da dove viene e con che cosa è tagliata. E poi spararsela in vena, ché non c’è prova più provata dello sballo, anche se i rischi ci sono, ma tanto li corre solo lui, il più debole, il più esposto. 
Il romanzo ha un andamento sdoppiato, da una parte il successo di Vitino, sempre più sicuro, sempre più ricco, dall’altra il degrado di Franchino: “Fu un anno intenso, quello dei due fratelli. Il grande si era impegnato a costruire l’impresa, il piccolo a demolire la propria esistenza” (p. 51). Le storie di Vitino e Franchino corrono e si incrociano, perché i due fratelli sono necessari l’uno all’altro, anche se per motivi diversi. 
Fulcro e sfondo delle vicende c’è la famiglia, spesso descritta a tavola, luogo previlegiato in cui consolidare affetti e affari: panzerotti e brasciole sono simboli della tradizione gastronomica barese e non possono mancare nella cucina di mamma Floriana, vedova ancora giovane, piacente e in grado di farsi ascoltare dai figli, nonostante l’autorità del primogenito la tenga in una posizione subordinata in cui può dare pareri, ma alla fine è lui che comanda e che alla famiglia dà “lavoro”. 
I personaggi che Alessio Viola mette in scena sono forti tutti, anche quelli minori, i comprimari che sono necessari per rendere un ambiente, un’atmosfera, uno stile di vita e che sono spalla dei personaggi principali, tra cui bisogna annoverare la città, Bari, così prepotentemente presente, viva, maledetta e meravigliosa insieme, col suo carattere, i suoi odori e i suoi sapori, che te li senti sciogliere in bocca come un crudo di mare appena pescato. 
E proprio il cibo e le descrizioni delle preparazioni gastronomiche tipiche della cultura barese e salentina, sono particolarmente accattivanti; trasudano cultura locale, passione verso la tradizione, attenzione verso il particolare (a cui non è estranea una piccola sbavatura a cui concediamo venia, ma che magari si potrà correggere in una ristampa –i particolari in calce a questo post, nel fuori onda-).
La seconda di copertina saluta il ritorno al noir di Alessio Viola, collocando idealmente la storia di Vitino e Franchino a metà tra Breaking Bad (serie televisiva il cui protagonista, sottopagato insegnante di chimica, malato terminale di cancro, decide di sfruttare le sue competenze di chimico per produrre metamfetamina insieme a un suo ex studente, già inserito in un giro malavitoso) e la tragedia greca, da cui prende il pathos e il senso del dramma familiare. E non si può che riconoscere la correttezza di questa definizione: Alessio Viola attinge, mutatis mutandis, a fatti di cronaca vera, ai quali aggiunge la sua straordinaria capacità di mimesi. E la cronaca, la vita vera, può essere crudele di per sé, basta solo saperla raccontare. 
Ha echi verghiani, questa storia dannata che racconta una scalata sociale, un successo economico, un cambiamento, che si ritorcono contro i protagonisti, colpevoli di aver osato troppo in un mondo che non concede spazi all’imprudenza e alla presunzione. 

Fuori onda: 
«Alessio… vedi che le municeddhe non sono lumache di mare...» 
«Ho scritto di mare? Lo so bene che sono di terra...» 
«Yes, di mare si dice nel menù leccese… e ho avuto un piccolo sobbalzo. Mi pareva strano.» 
«Ommadò»
(piccolo dialogo in chat: a true story anche questa) 

 
 
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Fidati di me, fratello (una storia vera) 
Autore: Alessio Viola 
Dati: 2016, 155 p., brossura; 
Editore: Aliberti compagnia editoriale (collana The Outlaws); 
Prezzo: € 15,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

mercoledì 23 novembre 2016

"Essere senza destino" di Imre Kertész

Posso affermare questo: 
non c’è esperienza per quanto importante, 
non c’è rassegnazione per quanto assoluta, 
non c’è saggezza per quanto profonda c
he ci possa impedire di concedere un’ultima possibilità alla fortuna 
– premesso che si presenti l’occasione, è ovvio. 

Abbiamo portato a termine una nuova lettura per il progetto #LeggoNobel e lo abbiamo fatto rendendo omaggio Imre Kertèsz, scrittore, giornalista e traduttore ungherese, premiato con il Nobel per la Letteratura nel 2002 e scomparso proprio quest’anno, la primavera scorsa, all’età di ottantasette anni. 
L’opera di Kertèsz è stata tardivamente riconosciuta dai suoi contemporanei: in modo particolare “Essere senza destino” ha faticato a trovare un editore in Ungheria e, quando finalmente ha visto la luce, è stato ignorato a lungo. 
Il racconto ha forti richiami autobiografici, nonostante l’Autore non lo abbia mai ammesso, eppure il protagonista, il quasi quindicenne Gyurka, vive l’esperienza più tragica che si possa pensare, così come allo stesso Kertèsz era successo: la deportazione in un campo di concentramento, durante la seconda guerra mondiale. E di Auschwitz, dove Gyurka trascorre buona parte della prigionia, Kertèsz aveva certamente memoria, avendo anche lui provato le condizioni disumane di quel luogo tanto tristemente noto. 
Gyurka racconta in prima persona: scaraventato senza rendersi conto dalla sua vita quasi normale -per quello che poteva essere il periodo oscuro che l’Europa intera stava vivendo e con la persecuzione degli Ebrei ormai sistematicamente organizzata dai nazisti-, su un treno che gli promette lavoro e futuro, inizialmente il ragazzo prova a trovare interessante il viaggio che deve fare, pensando di essere chiamato a svolgere un lavoro importante presso una fabbrica di laterizi. E per buona parte del percorso in treno verso chissà dove, cerca giustificazioni e motivi di conforto anche dove è impossibile trovarne. 
Colpisce forte il suo iniziale candore, la necessità di trovare spiegazioni logiche e convincenti (soprattutto verso se stesso) per capacitarsi di ciò che avverte. 
Più il racconto procede, più si fa chiarezza nella mente di Gyurka, che se pure non arriva a comprendere le ragioni profonde di ciò che sta accadendo, tuttavia affina le armi della sopravvivenza, quelle che gli fanno aggiungere un giorno all’altro, quelle che gli fanno nascondere anche a se stesso l’evidenza dell’orrore, ché se certe volte non riuscisse a chiudere gli occhi, morirebbe di dolore all’istante. 
E qui, leggendo dei piccoli trucchi per resistere, delle relazioni che si instaurano tra prigionieri, di quanto basti per salvarsi o soccombere, ci si rende conto della regolarità dei racconti dei superstiti, qualunque età abbiano avuto al momento della liberazione e quando hanno deciso di scrivere per testimoniare. Questa regolarità, la frequenza di certe immagini, contribuisce a disegnare un mosaico di esperienze cupe che insieme raccontano la stessa terribile storia: lo disegna e lo grida al mondo, frantumato in più voci che suonano all’unisono con le altre, ciascuna portatrice di un pezzo di verità, di un punto di vista diverso ma concorde. E questo raccontare è totalmente privo di captatio benevolentiae, non chiede compassione, non esige comprensione, non aggiunge nulla che possa commuovere oltre ciò che è stato davvero e che non ha bisogno di inutili giri di parole che attenuino o amplifichino l’orrore per chi legge, a distanza di decenni dai fatti. L’importante è che si creda a ciò che è stato e che si continui a parlarne e a leggerne.
Mentre andavo avanti nella lettura riflettevo su un altro aspetto: ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz tre anni fa e non dimenticherò mai quello che ho visto. Questo mi ha dato un vantaggio: leggendo questa storia, ho visualizzato esattamente tutto, sono riuscita a immaginare dove e come si è mosso Gyurka e poi Imre e Primo (Levi, di cui in concomitanza ho letto “La Tregua”) e Piero (Terracina, uno dei sopravvissuti ad Auschwitz, testimone instancabile presso i giovani) e ancora Shlomo (Venezia, autore di “Sonderkommando Auschwitz”) e tanti altri che da quei posti sono riusciti a tornare e che hanno raccontato.
Questo di Kerstèsz è un racconto forte che non concede sconti, nella sua crudezza vista con gli occhi di un adolescente che accetta l'ovvietà dell'orrore dei campi di concentramento nazisti: potrebbe a giusta ragione affiancare quelli che da sempre sono considerati i classici da leggere e da consigliare ai più giovani per conoscere una delle pagine di storia contemporanea più tremende che l’umanità abbia mai potuto vivere. 


Photo HelenTambo on Instagram




Essere senza destino 
Autore: Imre Kertèsz 
Traduz: Barbara Griffini 
Dati: 2004 (ma 1999 nella collana Feltrinelli “I Narratori”), 223 p., brossura; 
Editore: Feltrinelli (collana Universale Economica); 
Prezzo: € 9,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

mercoledì 16 novembre 2016

"La mia classe è il posto più bello del mondo" di Elvio Calderoni

 
Silvio Orlando in "La scuola" di Daniele Luchetti

L’aula ha finestre malconce, le pareti trasudano muffa, la lavagna può anche essere pericolante, sistemata com’è con bulloni e viti di un altro secolo. I banchi sono stratificati di scritte: 
crescibenecheripasso, axr la zoli è proprio una puttana, io ho rosicato perché non mi hai passato il compito, ma il preside dov’è?, bulli e bullizzati, antonella mi manchi. 

Il crocifisso c’è? No, c’è l’ombra che ha lasciato sulla parete. Una croce disegnata più chiara di quel che c’è intorno. 

Insomma, gli elementi di arredo, la struttura, la situazione sembra proprio urlare: la lezione è finita. E invece no che non è finita. 

Continuo a credere, e lo credo ogni giorno, che la classe sia il posto più bello del mondo. Ci entro felice ad ogni ora, lieto di cogliere le differenze negli sguardi e nell’eloquio dei ragazzi settimana dopo settimana. 
Felice di semplificargli i concetti. 
O di complicargli la vita approfondendo tematiche complesse. 
Che tanto la loro testa ce la fa, hai voglia se ce la fa. 
Che privilegio è cogliere, nelle loro evoluzioni, i primi abbandoni del sistema di concetti parole e pensieri della famiglia d’origine, le prime prove verso una personalità indipendente? Le parole nuove, i movimenti, gli sguardi che trasudano il profumo della prima consapevolezza di stare al mondo, di essere nel mondo?
Come può annoiare un mestiere del genere?
Come puoi perdere tempo prima di arrivare in classe, chiacchierando con i tuoi colleghi o fingendo chissà quale impegno importante in chissà quale segreteria? 
Come puoi non curarti delle lezioni che andrai a proporre? 
Come puoi ? 
Sei sicuro che non avevi un’altra carriera ad aspettarti? Ricca di soddisfazioni economiche, di rapporto tra pari, di lavoro di gruppo, di minore responsabilità? 
La classe, la tua aula, dev’essere il posto più bello del mondo. Devi pensarlo davvero. I tuoi alunni ci metteranno dieci secondi a capire se lo pensi davvero. O se fingi. O se ti stai accontentando. 
Ci mettono poco. 
Non lagnarti se non ti seguono. Nove volte su dieci è colpa tua. 
Non lagnarti che mancano le famiglie. Trova alibi migliori, dai. 
Non lagnarti che pensano solo al telefono. 
Non lagnarti se sperano che tu non ci sarai. Perchè si stanno già lagnando loro, di te, abbondantemente se arrivano a sperare nell’ora di buco. 
Insegna loro l’impegno e non dare modelli quotidiani di disimpegno. 

E tu? 
L’hai già capito se la classe è il posto più bello del mondo? 
Se non lo fosse, perché non provare a fare altro? 
Te lo chiedo per loro. 
Per quegli sguardi che affollano i corridoi e che si siedono sui banchi e che sono pieni di curiosità. Non pensare che siano in grado soltanto di attaccarsi al loro smartphone. Possono fare altro. 
Devono fare altro. 
Permettiglielo. 
Inondali. 
Che tu gli porga il quadrato di un binomio o il pessimismo cosmico, la missione è la stessa. 
E non è roba da poco. 

©Elvio Calderoni

Soundtrack: Tricarico, "Io sono Francesco"
 

mercoledì 9 novembre 2016

"Canto della pianura" e "Crepuscolo" di Kent Haruf

Tornarono dalla scuderia nella luce obliqua del primo mattino. 
I fratelli McPheron, Harold e Raymond. 
Vecchi che si avvicinano a una vecchia casa alla fine dell’estate. 
Attraversarono il vialetto sterrato, superarono il furgone 
e l’automobile parcheggiata accanto alla recinzione in rete metallica
e varcarono il cancello uno dopo l’altro. 

Ho aspettato che scemasse un po’ il clamore intorno ai romanzi che compongono la Trilogia della pianura di Kent Haruf, un po’ perché sono in genere sempre sospettosa dei facili successi di pubblico, e poi perché incalzata da altre letture, legate a impegni con gruppi di lettura o presentazioni di libri. Ho letto qualche mese fa “Benedizione”, il primo in ordine di pubblicazione ma considerato l’ultimo nell’ordine della storia, da cui in realtà di discosta nettamente, mantenendo con gli altri due solo l’ambientazione a Holt, immaginaria contea del Colorado dove, per dirla con Alessandro Piperno, si è pronti a trasferirsi.
E a Holt sono tornata negli ultimi tempi, scegliendo di leggere “Canto della pianura” e “Crepuscolo” quasi in immediata successione, studiando incastri tra una lettura e l’altra e dopo che il gran parlare dei lettori entusiasti si è affievolito (stanno tutti leggendo la saga dei Cazalet di Elizabeth J. Howard, pubblicata da Fazi? Può darsi, io anche con quella sono in ritardo e coltivo in me lettrice la sensazione di non essere mai abbastanza sul pezzo, come si dice). 

Se con "Benedizione"  si assiste alla celebrazione della rassegnazione, del bilancio esistenziale all’approssimarsi della morte, dei conti con la vita, con le colpe e le mancanze, che devono quadrare per andarsene senza lasciare debiti morali, i due romanzi successivi esaltano gli inizi, la vita, la compassione, l’amicizia e la solidarietà contro la grettezza, la piccolezza umana, l’inutilità di esistenze senza scopo. 
Con "Canto della pianura" e “Crepuscolo” assistiamo all’evoluzione personale di alcuni personaggi, soprattutto quello di Victoria Roubideaux, che a sedici anni scopre di essere incinta e, cacciata di casa dalla madre, trova ospitalità presso i fratelli McPheron, solitari allevatori di mucche e giumente, grazie all’intervento provvidenziale di Maggie Jones: la storia di Victoria, che nel frattempo mette al mondo una bambina e va all’università, si intreccia a quella di Raymond e Harold McPheron, che per lei saranno disposti a rivedere il loro modo di relazionarsi al di fuori del recinto delle loro giumente e dei loro tori e che rappresenteranno per sempre la sua casa. 
Intorno a questi personaggi, tante altre figure legate a loro e tra di loro, fissate nella loro quotidianità, nel loro stare al mondo, in un racconto che fluisce veloce, ma senza sorprese, ricco di dialoghi che sfuggono alle classificazioni tradizionali, infatti non sono discorsi diretti legati, non sono diretti liberi, non indiretti, ma di tutto un po’ in un modo personalissimo di gestire le conversazioni tra i protagonisti. 
Nonostante la potenza dei temi presenti (il bullismo, il maltrattamento di minori e delle donne, il pregiudizio e i pettegolezzi che infiammano la provincia come in una eterna Peyton Place, la perdizione umana) nulla è enfatizzato, il tono è quasi dimesso e lo stile di Haruf fa da fil rouge e fa percepire i tre romanzi un tutt'uno, un’unica grande storia dove i luoghi non cambiano e le persone passano, lasciando impronte più o meno profonde (eppure il traduttore, Fabio Cremonesi, nelle sue note ci avverte di un cambio di passo nello stile di Kent Haruf e chi meglio di lui può dirlo?). 
La quiete, la calma e la fiducia nelle relazioni rassicuranti fanno da contrappunto alla violenza e alla desolazione. Il racconto delle storie della gente di Holt va in crescendo, si sviluppa e regala momenti di ottimismo: anche dove le vicende sembrano prendere direzioni drammatiche, in tutte le vicende narrate ho visto la speranza e la fiducia nel futuro. 

Photo HelenTambo on Instagram

Canto della pianura 
Autore: Kent Haruf 
Traduttore: Fabio Cremonesi 
Dati: 2015, 301 p., brossura; eBook formato ePub 632,51 KB 
Editore: NN Editore 
Prezzo: € 18,00 cartaceo; eBook € 8,99 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline 
Crepuscolo 
Autore: Kent Haruf 
Traduttore: Fabio Cremonesi 
Dati: 2016, 315 p., brossura; 
eBook formato ePub 1,09 MB 
Editore: NN Editore 
Prezzo: € 18,00 cartaceo; eBook € 8,99 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

giovedì 3 novembre 2016

"L'amante giapponese" di Isabel Allende

«Le persone anziane sono le più divertenti del mondo. 
Hanno vissuto molto, dicono quel che gli pare 
e se ne infischiano delle opinioni degli altri. 
Qui non ti annoierai mai» 

In questo modo la dottoressa Catherine Hope, anziana ospite della residenza per anziani Lark House in California, dà il benvenuto a Irina Bazili, la giovane infermeria moldava che lì va lavorare, dopo burrascose vicende fatte di violenze e precarietà varie. 
A Lark House Irina conoscerà Alma Belasco, un’anziana signora colta, affascinante e molto ricca, che ha deciso di ritirarsi dall’attività e dalla vita pubblica, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in quella casa di riposo, vicino a San Francisco. Irina conoscerà anche Seth, nipote di Alma, e di lui si innamorerà. Mentre, in una cornice narrativa, si racconta della nascita dell’amore tra i due giovani, contemporaneamente Alma inizierà a narrare la sua grande storia d'amore clandestina, quella con il giapponese Ichi, figlio del giardiniere della casa in cui ha vissuto fin da bambina. La piccola Alma era stata adottata dagli zii dopo essere fuggita dalla Polonia infiammata dalle persecuzioni razziali, poco prima della Seconda Guerra Mondiale. La passione tra Ichi e Alma, nata fin dalla loro prima giovinezza e a lungo soffocata, esploderà e sopravviverà per tutta la vita, nonostante i due abbiano fatto nel frattempo scelte che li allontanano invece che unirli.
Ho letto questo romanzo in un lungo pomeriggio in treno, sette ore di totale immersione che mi ha fatto dimenticare dove ero; avere con sé un buon libro, quando si ha davanti un lungo viaggio, è indispensabile per coltivare un “altrove” che di più non si può. 

Il vantaggio di questa storia sta nella possibilità per il lettore di sospensione totale, di coinvolgimento intenso e di tensione verso vicende che svoltano verso soluzioni insospettabili: una storia affatto scontata, come invece rischiano spesso le storie d’amore (ed è questo il motivo per cui, in genere, non le amo, a meno che non siano sfortunate o giù di lì). 
Era da tempo che non leggevo un libro di Isabel Allende, dopo “Afrodita” del 1998 che mi aveva deluso un po’. Quindi ero piuttosto scettica, poco interessata a questo romanzo di cui non mi attraeva neanche il titolo. Il consiglio di leggerlo mi è arrivato da mia madre, lettrice attenta e appassionata, che ha saputo convincermi. 
Non sbagliava, perché la storia è trascinante, lo stile fluido e spigliato la capacità di coinvolgere il lettore è efficace. Lo consiglio a mia volta, come raccomando di tenere a portata di mano il fazzoletto perché qui, signori miei, alla fine ci si commuove. 

Photo HelenTambo on Instagam





L’amante giapponese 
Autore: Isabel Allende 
Traduz.: Elena Liverani 
Dati: 2015, 281 p., brossura; ePub con DRM 2,3 MB 
Editore: Feltrinelli (collana I narratori) 
Prezzo: € 18,00 (eBook € 12,99) 
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

venerdì 28 ottobre 2016

"Le jardin du nord" di Alessio Viola

 
Photo Alessio Viola. Canton

Prima di partire il nome circolò come un sussurro fra clandestini, cospiratori in procinto di imbarcarsi per la Cina. Le jardin du nord. I veterani della Cina te lo trasmettevano con pizzini delicati su carta di riso. Se andavi a Canton ci dovevi passare. Non era per tutti, nell’autunno del 1979. Luogo deputato per dirigenti di partito e per gli amici che arrivavano da lontano, partiti fratelli o associazioni di amicizia: di industriali commercianti trafficanti vari nemmeno l’ombra, al tempo. Arrivavi a Canton su un treno da Hong Kong, ti lasciavi alle spalle grattacieli miliardari e masse brulicanti di miseria, in quella stazione ti accoglievano le guardie con le mostrine rosse senza gradi, e i sorrisi dei contadini accampati per chissà quali viaggi. Jardin du nord, sussurrato subito alla reception di un albergo solo per stranieri, il receptionist ha un sobbalzo, cerca con lo sguardo quello dell’interprete-accompagnatore-commissario politico del gruppo di italiani. Un cenno del capo consente all’uomo del banco dei sogni di avviare le operazioni di prenotazione. Sarà per la prossima sera, la seconda ed ultima a Canton. Il capo dice a bassa voce che ci accompagnano ma non possono fermarsi a cena con noi, il prezzo era oltre ogni misura possibile per loro, ci sarebbero volute almeno due interpeti di italiano oltre lui. Ovviamente fu travolto da una serie di pacche sulle spalle e di cori d’incoraggiamento… lo stipendio di un funzionario equivaleva al costo di un pranzo in un ristorante medio italiano. Sarebbero stati nostri ospiti, chiaro. Il giorno dopo Incontri di partito, visite alle comuni agricole, alle università… va bene sì, ma il pensiero del gruppo era al jardin. La potenza del racconto era a quel tempo ancora l’unico incentivo a scegliere un luogo un percorso un’esperienza. Non potevi confrontare la narrazione con i post sui social, niente foto o gif, ti dovevi fidare di quello che ti trasmetteva il passaparola politico viveur. E i racconti ascoltati a Roma promettevano. Macchinoni scuri ci aspettavano fuori dall’albergo. Al primo interprete se ne erano aggiunte altre due, compagne del partito con il compito di facilitarci la comunicazione. Canton di notte non era quella di oggi. Silenzio, buio, rare automobili, guardie discrete ai crocevia più importanti. Fine novembre, ma a quella latitudine l’autunno è dolce, profumato di pioggia leggera e ancora tiepida, pareva di attraversare strade innaffiate di questi profumi. Stradine strette, lampioni rossi, gialli, bianchi a indicare vicoli e luoghi, specificati da scritte incomprensibili. L’inglese non esisteva come segnaletica bilingue, era una conquista ancora da raggiungere. Traffico quasi zero, erano solo le otto di sera. La certezza assoluta che se ti perdevi eri sparito per sempre. Il piccolo corteo di auto scure si fermò davanti ad una porta in pietra senza targhe o insegne, solo una lanterna rossa, citazione a sua insaputa. Nessuno all’ingresso. All’angolo dell’isolato, una macchina ferma, scura naturalmente, poteva essere vota o piena di poliziotti, vai a sapere. Il nostro capo guida ci fece strada. Come attraversare la porta di Corte Sconta, ti lasci dietro un mondo ed entri in un altro. 

Un giardino brillante di luci piccole, disseminate ovunque, alberi su torrenti leggeri e stretti, ponti di legno laccati di rosso, una musica lontana, voci sussurrate da tavoli semi nascosti sotto padiglioni di legno colorato e tegole rosse, personale silenzioso e delicato, scorrevano lungo i tavoli e sembravano quasi scivolare senza muovere le gambe. Colori. Azzurro intenso, rosso lacca, giallo brillante, verde smeraldo, ogni suppellettile ogni arredo era decorato ed abbellito da piccole sculture in avorio, giada, perfino sughero intagliato e ricamato come merletto. A bocca aperta, tutti, comprese le guide interpeti. Non capita tutti i giorni di prepararsi a cenare in un sogno. 

Seduti, i nostri amici spiegavano cose che non avremmo mai capito, sulla storia e la tradizione di quello che ci veniva presentato, il menu della serata. Non un foglio o una pergamena, ma un cuoco vestito come un principe gentile, delicato, che spiegava e attendeva paziente le traduzioni. Ragazze stupende in giacche ricamate con sorrisi da farti innamorare all’istante ci porgevano vassoi colmi di sete colorate profumate e calde, prima di cena, perché le mani e il viso fossero all’altezza di quello che ci avrebbero servito. Poi si materializzò sui tavoli un mescolio di colori e sapori, le composizioni di piatti che non osavi spezzare con le bacchette di avorio che ti erano state assegnate. Sapori da spazzare via ogni memoria mediterranea e occidentale. 

Spezie e profumi da ortaggi e verdure da far impazzire un vegano integralista per la follia creativa con cui erano state approntate. Sculture policrome di prodotti della terra che facevano apparire i gioielli cosa triste e dozzinale. Avevi paura a toccarle, spezzarne la forma e la magia per mangiarli. Il palato stimolato aggredito accarezzato da sensazioni mai provate. Il solo pensare a questo verbo ti faceva sentire volgare. E un cuoco che arriva al tavolo e da una palla di pasta bianca tira su con le mani con l’abilità di un illusionista degli spaghetti di riso che poi vengono cotti accanto al tavolo. Capisci che sono loro ad averli inventati, nessun altro potrebbe creare gli spaghetti così, dal vivo. E bocconcini croccanti di cane in agrodolce da far impazzire per la delicatezza, nessuno che osasse mandarli indietro, profumo ed aspetto da soli ti facevano diventare un selvaggio; e la zuppa dei tre serpenti piccante come un peccato inconfessabile da commettere in quei giardini, le carni bianche dei rettili ammorbidite e fasciate da un brodo denso e ambrato, inebriante e da far sudare per la forza del piccante; e l’anatra laccata da condire con mille possibili salse, prima la pelle croccante fatta a dadini, poi le carni tinteggiate di rosso scuro da salse alla frutta, agrumi e bosco mescolati; e lumache e pesci di fiume sommersi di frutta cruda da trasformare tutto in una dolcezza ittica impossibile perfino da immaginare; e gamberi di ogni taglia fritti in pastelle profumate, diverse e più delicate di quelle che avvolgevano rane delicatissime, croccanti, da mangiare senza sforzi per la croccantezza, gamberi in coppe azzurre trasparenti e salse di un giallo leggero che davano al tutto un tono smeraldesco di colori mescolati. 

Gli alberi facevano il loro suono da programma, frusciavano e scuotevano profumi nell’aria, muovevano i rami e scuotevano nell’aria fiori e pollini come se ci fosse una regia attenta a quella distribuzione. Le ragazze ai tavoli, e le nostre interpreti, sorridevano di sorrisi che la gioconda sembrava una povera contadina, il the servito per tutto il pasto, insieme a birre profumate e vini decenti, non si può essere perfetti in tutto, girarono velocemente, le porzioni non erano mai abbondanti, ti lasciavano una sensazione di curiosità e stimolo per quello che sarebbe venuto dopo. I dolci poi. Prima del diabete tutto era possibile. Dolci da allucinazione lisergica, scolpiti a forma di animali di dragoni di bestie favolose, ricami miniaturizzati di animali e fiori creati con creme sfoglie dolci di riso miele di ogni tipo, era davvero difficile romperli a mangiarli, ti sentivi in colpa per quel delitto. Erano da ammirare e andare in estasi. Per questo arrivarono in sostegno e conforto i liquori. Di riso e di cereali, di frutta, aspri e di erbe di chissà cosa, che scendevano come vino bianco ghiacciato. E il mau tai, il colpo finale ad ogni grasso depositato, una vera acqua santa che neanche a Lourdes. Profumo che ti assaliva a tradimento e fermava il bicchiere a mezz’aria, un liquore che sembrava estratto di calzini sporchi distillati da farne un digestivo oltre ogni limite della sopportazione. 

Appagati, il senso diffuso tra tutti era questo. Conoscemmo la beatitudine, e gli ovvi raffronti con altre beatitudini del corpo sono dunque evitabili. La guida e le interpreti abbassarono lo sguardo al momento del conto, noi ci sentimmo tutti in colpa per le certezze di quella sera: probabilmente non avremmo mai più cenato in quel luogo. Loro sicuramente. Il mattino dopo dovevamo alzarci presto per il programma del viaggio. I saluti non furono all’altezza della cena, un rimpianto mai sopito. Le ragazze si allontanarono come Shangai Lil alla fine della storia mai vissuta con corto Maltese. Bellissime leggere giovani irreali. Della materia dei sogni. 

Nessuno di noi dormì quella notte, non si interrompe un sogno dormendo. 

 ©AlessioViola

Soundtrack: David Bowie, "China girl"

mercoledì 19 ottobre 2016

"Rayuela. Il gioco del mondo" di Julio Cortázar

Non può essere che siamo qui per non poter essere 
[…] 
Sono io, sono lui. 
Siamo, però sono io, 
prima di tutto sono io, 
difenderò il mio essere io fino a che non ne potrò più. 

 «Cortázar è il migliore», ha detto Roberto Bolaño. Così è riportato sulla quarta di copertina dell’edizione Einaudi di “Rayuela. Il gioco del mondo”, definito anche «contro-romanzo», «cronaca di una follia», «il buco nero di un enorme imbuto», «un grido di allerta”, «una specie di bomba atomica», «un appello al disordine necessario», al suo apparire nel 1963. 
Leggere questo romanzo (o contro-romanzo, visto che qualunque distinzione tra un prima e un dopo, una fabula vs un intreccio, qualsiasi connessione logica di causa-effetto saltano, quindi non ha senso una definizione tradizionale che incaselli quest’opera in un genere letterario) è stata una sfida, lanciata dal gruppo degli Scratchreaders di Maria Di Biase. 
In che modo avremmo potuto leggere “Rayuela”? A suggerirlo è lo stesso Cortázar, nella tavola di orientamento in apertura, ed è in parte la strada che abbiamo seguito nel gruppo: potevamo scegliere la lettura tradizionale (gruppo #famolotradizionale) che prevedeva di arrivare al cap. 56 per fermarsi quindi poco oltre la metà, ai tre asterischi che ne delimitano la fine, oppure scegliere l’ordine indicato dall’Autore (gruppo #famolospeciale), a partire dal cap. 73 e poi saltando e seguendo le indicazioni numeriche alla fine di ogni capitolo, come in un gioco dell’oca dove tiri i dadi e non sai di volta in volta a che casella finirai. Infine una terza strada era quella che a Cortázar sarebbe piaciuta moltissimo, la lettura assolutamente anarchica, sotto la sola responsabilità del lettore che poteva ordinare i capitoli secondo l’estro del momento (gruppo #famolocomecepare).
Inutile dire che ho scelto la lettura tradizionale, forse per la paura di andare incontro a qualcosa di troppo grande, in cui facilmente mi sarei persa, e mi è sembrato che optare per la strada apparentemente più semplice fosse in qualche modo rassicurante. Ovviamente mi sbagliavo, nel senso che non so se scegliere qualunque altro percorso avrebbe reso tanto più difficile l’orientarsi in una storia che è indefinibile, impossibile da sintetizzare, complessa e affascinante allo stesso tempo. Ho fatto fatica in certi momenti, per la storia, per la lingua, le parole, lo stile (paradigmatico il cap. 34, che ho capito come leggere solo alla fine della prima pagina, quando ho capito che Cortázar ha giocato continuamente con il lettore): una menzione speciale va a chi ha tradotto il testo, Flaviarosa Nicoletti Rossini, perfettamente entrata nel gioco del mondo, portavoce sensibile e preparata a intercettare i sentimenti dell’autore e a renderli vividi e incisivi per il piacere del lettore, soprattutto in certi brani da brivido, come quello che occupa tutto il cap. 7, quello del bacio,  "Toco tu boca"

Photo Elena Tamborrino
Purtroppo la lettura di “Rayuela” è partita in concomitanza con l’inizio del terzo volume della Recherche di Proust (iniziativa curata da un sottogruppo, nato da una costola dello stesso gruppo Scratchreaders) e questo si è rivelato deleterio per chi ha voluto cimentarsi in entrambe le imprese, almeno si è rivelato tale per me. Come a volte succede, leggere contemporaneamente volumi di peso -non solo fisico, ma anche-, ha come conseguenza che si leggano male tutti. E nello specifico i due volumi in questione non aiutavano, essendo “La parte di Guermantes” forse il libro più noioso della monumentale opera di Proust, e “Rayuela” il libro più strano che possa capitare di leggere, quello che ti fa desiderare di leggere al suo posto una bella storia lineare, dove accadono fatti comprensibili ai comuni mortali, dove il sistema dei personaggi è chiaro, dove la voce narrante si distingue.
Invece sono entrata in una centrifuga, mi sono fatta sballottolare nel cestello della lavatrice, mi sono fatta sbattere dalle fruste elettriche, neanche fossi una maionese impazzita. Ecco. Mi sono fermata al cap.56, secondo l’indicazione di Cortázar che definisce il resto del libro “Da altre parti (capitoli dei quali si più fare a meno)” e non ho neanche letto l’appendice con un’intervista all’Autore che spiega “l’invenzione sfrenata” di “Rayuela”, né la selezioni di frammenti di lettere di Julio Cortázar in cui si parla del libro. Non escludo di risalire sulla giostra più in là, magari sperimentando uno dei metodi alternativi suggeriti dallo stesso Autore, oppure riprendendo dal punto in cui mi sono fermata: questo è consentito al lettore che fa come gli pare. 


Photo HelenTambo on Instagram
Rayuela. Il gioco del mondo 
Autore: Julio Cortázar 
Traduz: Flaviarosa Nicoletti Rossini 
Dati: 2013, 633 p., brossura; 
Editore: Einaudi (collana Super ET); 
Prezzo: € 15,50 
Giudizio su Goodreads: np (aspetto di finirlo, un giorno)

venerdì 14 ottobre 2016

"Nebula" di Piergiorgio Pulixi



C’è stato un tempo in cui le cose tra noi erano molto diverse. Prima dei silenzi. Prima che ci ignorassimo a vicenda come se non fossimo mai esistiti, come se non ci fossimo lasciati dietro nulla di noi. Quello sì che era un bel periodo. Non lo ammetterò mai, ma solo in quei momenti mi sono sentita viva. Le notti avevano un senso. Adesso, non vedo l’ora che si consumino. 
   Non so bene quando sia finita, né tantomeno perché. È una domanda che brucia nel segreto della mia anima. A lui l’ho fatta diverse volte, ma non mi ha mai risposto. Alla fine non ha replicato più a nessuno dei miei messaggi e dopo qualche mese non ho più insistito. Ho abbracciato l’idea che le cose finiscono senza un perché. Non è stato facile. All’inizio non concepivo un addio così violento, senza spiegazioni. Un addio immotivato è come un pugno a tradimento. Come una canzone bellissima interrotta a metà. Un addio è peggio di un adulterio. Non lo puoi accettare. È qualcosa che lascia una cicatrice viva, non rimarginabile. E la ricerca di una possibile causa è sale che getti nella carne lacerata. Più domande ti poni, e più svelli la ferita. Più i dubbi ti raschiano il cuore, e più è difficile elaborare la perdita. Tanto vale smetterla di cercare risposte. Mettere in pratica questo proposito non è così semplice. Soprattutto se la persona a cui ti eri data aveva esclusivo dominio del tuo cuore. Come lui. 
   In bocca avverto l’aroma della sigaretta fondersi con il gusto del caffè in una miscela sensoriale sublime. Forse è stato questo sapore a mettermi addosso questa folle voglia di lui. Mi ha riportata ai nostri caffè bevuti sdraiati sul letto, fumando con le persiane aperte, lasciando che la notte ci asciugasse l’amore dalla pelle. 
   Strizzo gli occhi. Devo darmi un limite. Devo tracciare una linea da non oltrepassare perché sento che sto perdendo me stessa. Sto scivolando giù. Nel gorgo dei ricordi. Nel buio. E questo è pericoloso. Molto pericoloso. 
   Pensa ad altro, mi dico. Ma qualcosa dentro di me vi si oppone. Non è nemmeno una sensazione; più una vertigine. Un richiamo, quasi. Così mi siedo davanti al computer ed entro su Facebook. Accedo al mio profilo. Ho tolto nome e cognome, ho scelto un nickname: Nebula. È la mia identità virtuale. 
   Corro subito ai messaggi privati. Sorrido scorrendo ciò che mi ha scritto. Sì, lui
   Nessuna lo conosce meglio di me. So come pensa, cosa desidera, come vuole essere leccato, cosa vuole sentirsi dire. Per questo dopo aver lasciato passare qualche settimana dopo il suo addio ho creato questo profilo. È bastato chiedere l’amicizia a qualche amico comune e poi ha abboccato. È stato lui a inoltrarmi la richiesta, attirato dalla mia immagine di profilo esca. Ovviamente non ho accettato subito: l’ho fatto sudare, l’ho tenuto sulle spine. Mi ha scritto in privato sollecitando una risposta. Dopo qualche giorno l’ho accontentato. Ci siamo scambiati qualche messaggio in cui mi ha corteggiata spudoratamente ma con quel suo modo simpatico e carino. All’inizio, quando gli scrivevo piangevo. Mi sentivo umiliata. Lui non stava chattando con me, ma con una proiezione dei propri desideri. Le immagini che scorreva non erano le mie, ma quelle di una studentessa universitaria canadese a cui le avevo rubate. Nebula è la quintessenza delle sue fantasie, dei suoi istinti più viscerali. Ma Nebula non esiste. Nebula è l’unico modo che ho per stargli vicino, per avere ancora qualcosa di suo, anche solo un surrogato velenoso di un sogno che non può realizzarsi. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un gioco pericoloso. Forse. Ma è l’unico che mi è rimasto da giocare. 
   -Oddio quanto vorrei incontrarti. Quanto vorrei poterti abbracciare… - scrive. 
   Chiudo gli occhi e la casa si popola di ricordi. Sfilano intorno a me come fantasmi. Avevo smesso di chiedermi cosa avessi sbagliato; ma ora quell’interrogativo torna a scassinarmi il cuore. Perché? Eravamo così felici, stavamo così bene… Perché? 
   Vorrei scriverglielo. Vorrei chiederglielo. Vorrei sapere quali sono state le meccaniche della disaffezione e cosa le ha messe in moto. Ma non otterrei altro che una sua fuga, ne sono certa. Meglio stare zitta. Meglio far finta che Nebula sia la mia sola e unica identità. 
   -Incontriamoci, ti prego – scrive. 
   Un senso di ebbrezza mi assale quando leggo quelle parole. Sarebbe facile dirgli di sì. Sarebbe un sollievo perché ho fame di lui, di tutte le sensazioni che mi potrebbe dare. È il nutrimento emotivo di cui ho bisogno per sanare l’anoressia del mio cuore. 
   -Ho paura di non reggere il confronto con l’idea che ti sei fatto di me – scrivo. – Ho paura che ti sia fatto aspettative troppo grandi nei miei confronti… sto bene con te, e mi sono affezionata. Non vorrei perderti -. 
   - Non mi perderai. Vedrai che sarà bellissimo, ne sono certo -. 
   Digli di no. 
   Digli che è ancora troppo presto, che non te la senti. 
   Vorrei assecondare la mia coscienza perché so che ha ragione. 
   Ma non ce la faccio. 
   - Va bene – scrivo. – Incontriamoci
   Osservo il mio riflesso sul vetro della metro. Sotto il cappuccio che mi copre il capo vedo le ciocche di capelli decolorati. Ho cambiato colore stamattina. Anche il piercing sulle labbra è fresco. L’ho fatto per lui. Per assomigliare il più possibile a quella immagine rubata da internet; all’idea che si è fatto di Nebula.    
   Sono eccitata come mai prima, come se stessi per riconquistare qualcosa di così dolorosamente agognato. Non mi sembra vero. Sono una persona diversa ora, sono certa che se ne accorgerà. Le porte si aprono. Mi faccio strada tra la massa di pendolari. Raggiungo la scala mobile in una sorta di ondeggiante incoscienza, come se le mie gambe si muovessero da sole. Sono fuori, finalmente. Respiro l’aria della sera a pieni polmoni e cammino verso il parcheggio dove ci siamo dati appuntamento.  
   “Stai calma” mi dico. “Ti stai agitando troppo… Calma”. 
    Eccolo. Lo vedo, sotto il lampione. Affondo le mani nel tascone della felpa e abbasso lo sguardo come se avessi paura di guardare in faccia la realtà. Lo sto facendo davvero… sto per incontrarlo di nuovo e non è un sogno. 
   Ci dividono pochi metri. Continuo a camminare con lo sguardo rivolto a terra, il cappuccio che mi nasconde il viso, sottraendomi alla me che lo fece scappare.  
    «Ehi…» dici. 
   La tua voce è calda come lo scirocco estivo. Non mi ricordavo che fosse così profonda. Mi provoca un brivido. 
   «Non mi guardi?» dici con un sorriso. 
   “Fallo” mi dico. 
   Tolgo via il cappuccio e lo fisso finalmente negli occhi. «Ciao» sussurro. 
   Il sorriso si cristallizza. Poi il viso si crepa come un bicchiere dimenticato nel freezer. Gli occhi si fanno vitrei. Di colpo sembra più vecchio. 
   «Tu?!» sospira. 
   «Dovevo rivederti…». 
   «Che cosa?! Tu, tu… per tutto questo mi hai… Eri… eri tu?». 
   Annuisco. 
   «Era l’unico modo che avevo per…». 
   «Brutta stronza! Eri tu?! Eri tu!». 
   Accade tutto troppo in fretta. Scorgo un balenio assassino nei suoi occhi ma, prima che possa realizzarlo, un suo pugno mi frantuma il naso. Mi sento sbalzare all’indietro ed atterrare sull’asfalto. Mi manca l’aria. Sento il sapore del sangue in bocca. Schiudo le labbra per prendere fiato, ma il suo pugno me la spacca, facendomi sbattere il capo per terra. Lo sento sopra di me. Mi inchioda al terreno. Mi colpisce con una furia animalesca, vomitando accuse e insulti. Vorrei spiegargli… vorrei dirgli che… ma non riesco nemmeno a respirare. I suoi colpi non me ne danno il tempo. 
   Non riesco a crederci. 
   Non doveva andare così… 
   Non doveva… 
   Non… 

©Piergiorgio Pulixi

Soundtrack: Radiohead, "Creep"

sabato 8 ottobre 2016

A volte ritorno (parte seconda)

Continua il mio resoconto delle letture estive, non sempre soddisfacenti, come ho avuto modo di dire nel post precedente. Mi capita di aspettare le vacanze per tutto un inverno pensando di potermi finalmente dedicare a ciò che più mi piacerebbe leggere: in questo modo però, a dispetto dei desiderata, mi è successo di impantanarmi in libri che non erano all’altezza delle mie aspettative e di tralasciarne altri che avevo comprato appena pubblicati. ma ormai hanno fatto il loro tempo, nel senso che i loro autori hanno già scritto nuove storie (ad esempio ho un paio di De Carlo arretrati e un Veronesi che ormai ha perso le speranze, oltre alla trilogia di Kent Haruf di cui ho letto ancora solo “Benedizione” e la saga dei Cazalet di Elizabeth J. Howard, riscoperta da Fazi, che pare stia facendo furore). 
In questa seconda parte parlo di libri che comunque si sono rivelati autentiche sorprese. 

Il primo è “Caro Michele” di Natalia Ginzburg. Proposto come lettura estiva in occasione del centenario della nascita della sua Autrice e commentato su Twitter e  Betwyll con l’hashtag #CaroMichele, è stato un progetto realizzato in Creative Commons con il metodo TwLetteratura da Erika Pucci e me, Elena Tamborrino (Licenza 3.0 | Attribuzione | Non Commerciale | Non Opere Derivate). 
Conoscevo il libro perché ne avevo letto brani sparsi, e me ne mancava quindi la visione globale, necessaria invece per ricostruire la complessa rete di rapporti familiari sfilacciati e irrisolti, ricomposti nella rete di lettere che raccontano storie, stili di vita, abitudini, stanchezze, frustrazioni, delusioni: paradossalmente questo fitto scambio di lettere è il paradigma dell'incomunicabilità, nonostante i messaggi che si intrecciano e che viaggiano dall'Italia all'Inghilterra, dove si trova Michele, quel ‘caro’ a cui si rivolgono la madre, le sorelle e Mara, il personaggio forse più misterioso e incomprensibile della storia. Personaggio complesso quello di Mara: parassita, irrisolta, bugiarda seriale, in continua ricerca di approvazione da parte degli altri e allo stesso tempo incurante verso gli altri, insopportabile nella sua accidia. Bravissima la Ginzburg a delinearne la personalità inesistente: Mara non è. Le voci dei protagonisti si alternano e le donne sono le principali protagoniste, oltre a Mara: dalla madre Adriana, alle sorelle Angelica e Viola, e poi Matilde, Ada, la moglie di Filippo, le gemelle, la figlia di Angelica. Pallidi sono i protagonisti maschili, tra cui spicca proprio Michele, il figlio inetto che ha abbandonato tutto, che ha scelto la fuga dalla vita vera e dai problemi, per abbracciarne altri. L'impressione in questo epistolario è che tutto sia neutro e asettico, niente odori, tranne quello di Cloti, la domestica che vive con Adriana, e che tutto sia velluto marrone a coste: “Caro Michele” è un libro molto anni Settanta in cui domina la libertà sessuale, un certo modo di gestire la famiglia come una comune, gli abiti stropicciati. 


Ancora una lettura per LeggoNobel : "L'urlo e il furore" di William Faulkner, premio Nobel per la Letteratura nel 1950. Ardue le prime due parti, l’ho trovato coinvolgente dalla terza in poi. Ho avuto bisogno di aiuti esterni (Wikipedia) e di leggere prima l'Appendice, originariamente inserita all'inizio nelle prime ristampe e poi spostata in fondo nelle edizioni successive, per orientarmi tra i personaggi. Appassionante la storia della decadenza di una famiglia del Sud americano, condensata in tre giorni e con un lungo flashback che sposta il racconto a diciotto anni prima. Bei personaggi, mi sarebbe piaciuto conoscere meglio Caddy, la sorella in fuga. Ho letto l'edizione Einaudi (1997 e 2014), con la traduzione di Vincenzo Mantovani (che ha avuto il suo bel da fare!). Interessanti l'introduzione di Emilio Tadini, illuminante la postfazione di Attilio Bertolucci. 

Un piccolo gioiello riscoperto dalla casa editrice flower-ed è “La gente per bene” di Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (1840-1910), giornalista e scrittrice, moglie dell’ideatore, cofondatore e primo direttore del Corriere della Sera, Eugenio Torelli Vollier. 
Di lei Italo Calvino scrisse che aveva voce di scrittrice che si faceva ascoltare qualsiasi cosa raccontasse; la sua modernità è evidente anche oggi, a oltre un secolo di distanza dalla composizione delle sue opere, tra cui mi piace ricordare “Un matrimonio in provincia”, la storia della mancata emancipazione di una giovane costretta a un matrimonio di convenienza, in un’atmosfera di rassegnazione che però lascia spazio a momenti di consapevolezza verso una vita fatta di rinunce. 
“La gente per bene” è un manuale di buone maniere, pubblicato per la prima volta nel 1877, suddiviso in undici parti dedicate a tutti i momenti della vita di una donna, dalla prima infanzia, fino a quando si fa vecchia (Il bimbo, I fanciulli, La signorina, La signorina matura, La zitellona, La fidanzata, La sposa, La signora, La madre, La vecchia, Gli uomini). 
Le norme di comportamento, in famiglia e in società, nell’abbigliamento e nella conversazione, nel ricevere e nell’andare in visita, sono trattate con lieve ironia e con tono bonario. Leggere queste pagine mi ha ricordato le rubriche di bon ton che fino a qualche decennio fa non mancavano nei settimanali femminili, di cui forse la più celebre è stata “Il saper vivere” di Donna Letizia, alias Colette Rosselli. Se ne sente un po’ la mancanza, ora che alle buone maniere si fa sempre meno caso (e si vede). 

A conclusione di questa rassegna, “Una lezione d’ignoranza” di Daniel Pennac, il testo della lectio magistralis che lo scrittore pronunciò in occasione del conferimento della laurea ad honorem in pedagogia presso l'università degli studi di Bologna nel 2013: trenta pagine in cui l'autore di "Come un romanzo", "Diario di scuola" e del ciclo dì Benjamin Malaussène (solo per citare le sue opere più note) racconta di insegnanti indimenticati, di pedagoghi e demagoghi, della solitudine del lettore, degli errori prescrittivi in fatto di lettura, di "passeur", coloro che sono i veri trasmettitori di sapere. Davvero un piccolo gioiello, scoperto per caso passeggiando a Mantova, durante il Festival della Letteratura. 

Dalla settimana prossima il blog riprende con le rubriche di sempre, forse con qualche novità cui sto pensando. Intanto leggo Proust e Cortazàr in contemporanea, sperando di uscire indenne da questo tour de force che avevo sottovalutato e di riemergere sana e salva dal salotto di Madame de Villeparisis e dall’atmosfera torbida delle stanze abitate dalla Maga. 

Photo HelenTambo on Instagram