giovedì 30 luglio 2015

Ultima lettura: "Se fossi fuoco, arderei Firenze" di Vanni Santoni


Se fossi fuoco, arderei Firenze

Autore: Santoni Vanni
Dati: 2011, 148 p., brossura
Editore: Laterza (collana Contromano)

Signorina perché sceglie di rimanere a Firenze?
Per il lampredotto, no?

Il lampredotto è un tipo di trippa, tradizionale cibo di strada per i fiorentini. Probabilmente è un buon motivo per restare tutta la vita a Firenze, anche se qualche volta vorresti scapparne; ma io non sono certamente la persona più qualificata per dirlo, visto che nemmeno il lampredotto mi ha trattenuto a Firenze e certamente non sono mai stata in fuga da una città che ho dovuto lasciare per forza. 
E il lampredotto è protagonista di alcune tra le pagine più interessanti di questo libro, intanto perché è presentata la mappa dei trippai più rinomati della città, almeno secondo quanto l’Autore fa dire a Ashlar, intenta a spiegarci che dietro la trippa c’è un mondo e quel mondo è per veri iniziati, è il mondo della ciccia nel pane e nel brodo, è calore e profumo, è nervetti e stomaci stracotti, altro che “che schifo, il lampredotto”, come dice Doris. E poi proprio per come ne parla, che sembra quasi di star lì a fare la fila per quella che pare essere una delizia profumata, anche per chi non l’ha mai assaggiata e pensa che lo non farà mai (ad esempio, io).
Oltre poi alla mappa dei trippai, Santoni presenta da una parte il repertorio dei locali notturni più famosi e dall’altra i luoghi di ritrovo più nascosti, quelli riservati ad un certo tipo di umanità, quella alternativa, quella tossica, quella sommersa.
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La Firenze che racconta Santoni è una città che si segue a fatica se non la conosci, anche perché la cartina alle prime pagine, con la legenda che indica i luoghi citati nel libro, si legge con un po’ di difficoltà, se non sai orientarti di tuo.
Di contro questo libro di Vanni Santoni, fondatore del Progetto SIC- Scrittura Industriale Collettiva, si legge con estrema facilità non appena entri nella spirale dei personaggi che, divisi in tre parti che rappresentano quasi una parabola ascendente (Scintille- Fiamme- Braci), si rincorrono tra le pagine, si passano il turno nel racconto, si incrociano e si incontrano.
E così, quasi in una struttura circolare che si attorciglia su se stessa come una molla, la narrazione si apre con l’arrivo in città di uno studente universitario fuori sede, maldestro nel suo approccio con la realtà nuova e la varia umanità che urta, per poi passare ad altri personaggi legati l’uno all’altro, per caso o volontariamente, che presentano ciascuno una tranche de vie: la chiusura del cerchio si ha con il ritorno, nella memoria di Maddalena, l’ultima dei protagonisti di queste brevi sequenze narrative -che sono anche scorci paesaggistici, descrittivi ed evocativi-, al suo incontro con il giovane studente dell’inizio, a Piazzale Michelangelo.
Lo definirei un romanzo generazionale: ad uno che è stato giovane a Firenze negli anni Ottanta (sempre io!) fa effetto vedere citati il TenaxRadio Centofiori, ma Santoni in quegli anni era un bambino (è nato nel 1978) e gli viene meglio raccontare la Firenze che conosce di più e non per sentito dire, quella più vicina ai quarantenni di oggi, quella cioè contempla anche i gambrini, cioè i ragazzi che passano il tempo davanti all’ex cinema Gambrinus, da qualche anno trasformato in Hard Rock Cafè, con buona pace dei fiorentini che lo consideravano un salotto a due passi da Piazza della Repubblica.
Insomma, se avete voglia di scoprire una Firenze inedita, ormai multietnica, assolutamente non turistica eppure descritta meglio di una guida turistica, attraverso la varia umanità che la popola, leggete questo libro che non so se definire romanzo o serie di racconti incollati l’uno all’altro senza soluzione di continuità.

venerdì 24 luglio 2015

Ultima lettura: "Il cuoco e i suoi re" di Edgarda Ferri


Il cuoco e i suoi re

Autore: Ferri Edgarda
Dati: 2013, 144 p., rilegato
Editore: Skira (collana NarrativaSkira)

“Ragazzo mio, mon garçon, è arrivata l’ora.
Non pensare più a tua madre, a me, alle tue sorelle.
la nostra sorte è stata la miseria, e così morirrmo.
Vai per la tua strada.”

Il cuoco è Antonin Carême e i re sono quelli alle cui corti fu chiamato per prestare il suo servizio in un periodo dei più vivaci della storia europea, tra la Rivoluzione francese e la Restaurazione, attraversando l’età napoleonica.
E non furono solo i re (il futuro Giorgio IV d’Inghilterra e lo Zar di Russia) a usufruire della sua arte in cucina, ma anche influenti politici come
Talleyrand, generali potenti come Napoleone, importanti banchieri come Rothschild, nobili di diverso rango e in generale l’alta società francese.
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Nato in una famiglia poverissima dei sobborghi parigini, il piccolo Marie Antoine (chiamato così in onore della regina morta sul patibolo durante la Rivoluzione francese e costretto dagli eventi a cambiare il suo nome in Antonin) viene abbandonato dal padre, impossibilitato a sfamare anche lui, che faceva parte di una nidiata di figli che a stento sopravvivevano all’indigenza. Sembra che quella di abbandonare i figli maschi intorno ai dieci anni di età fosse una pratica diffusa e affatto scandalosa: era l’unico modo per tentare di salvarli, mettendoli sulla strada e sperando che la loro intelligenza e le loro capacità potessero garantirgli un qualche futuro. Si trattava di bambini svelti, avvezzi al sacrificio, che in una Parigi già famosa per l’alta pasticceria non sognavano di succhiare una mela caramellata, ma di poter addentare un succulento “cosciotto di montone allo spiedo, una fetta di pane spalmata di lardo, una zuppa di verdura macchiata di ‘larghi’ occhi di grasso, un bel pezzo di sanguinaccio di maiale rosso costellato di pistacchio verde”; erano bambini abituati alla fatica fin da piccoli, in famiglia, costretti poi a trovarsi un padrone presso il quale imparare un mestiere.
E Antonin un mestiere lo impara: prima addetto al taglio delle carni, poi responsabile della brace presso un girarrosto, infine assunto in una famosa pasticceria, forse la più importante di Parigi. Là diventa bravissimo, impara a leggere e scrivere, studia trattati scientifici (soprattutto di medicina e di chimica) e di architettura, per riprodurre con la pasta di zucchero sontuose costruzioni che vanno ad arricchire la pasticceria raffinatissima che inventa.
Non solo dolci nella carriera di Carême: inventore della cucina moderna, che andò a sostituire quella rinascimentale, speziata e grassa -tanto da far ammalare i signori di gotta-, importata a Parigi da Maria De’ Medici, il cuoco sperimenta che la semplificazione della cucina non significa impoverimento, ma valorizzazione degli ingredienti, che devono essere sempre di prima scelta. Carême sgrassa la carne nei brodi, alleggerisce i potages, ne fa dadi da viaggio, affinché i suoi clienti portino sempre con sé la cucina del loro cuoco personale, proteggendo lo stomaco e il fegato. Vivere durante l’Illuminismo consente al giovane cuoco di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze sempre più aperte alle novità e sempre più supportate dallo studio, dalla ricerca e dalla sperimentazione, perché la cucina, ci insegna Antonin, è soprattutto equilibrio e alchimia.
Edgarda Ferri ci accompagna lungo il racconto della vita di questo bambino di strada che diventa il più grande cuoco della sua epoca, anzi arriva a superare la sua stessa epoca grazie alla sua fama, e lo fa tenendo sullo sfondo i più importanti eventi storici a partire dall’Ancien Régime e fino alla parabola dell’impero napoleonico. Le descrizioni che l’Autrice fa delle tavole imbandite e delle cucine in fermento sono talmente accurate che al lettore può sembrare di sentire lo sfrigolio del grasso che brucia sulla brace, il profumo di zucchero e vaniglia che si scioglie nell’aria pregna del calore dei forni, la consistenza delle preziose vellutate di verdura tra lingua e palato fin giù nella gola; può sembrare ancora di vedere i colori (tutti rigorosamente naturali e frutto anch’essi di sperimentazioni infinite alla ricerca del miglior risultato) delle glasse che ricoprono le ardite architetture dolciarie che riproducono palazzi e monumenti.
Un libro istruttivo che è anche di grande intrattenimento: molto consigliato anche per avere una visione della Storia (con la esse maiuscola) meno scolastica e più calata nella storia (con la minuscola) delle persone comuni.

giovedì 16 luglio 2015

Ultima lettura: "Uccidi il Padre" di Sandrone Dazieri


Uccidi il Padre

Autore: Dazieri Sandrone
Dati: 2014, 564 p., rilegato
Editore: Mondadori (collana Omnibus)

Dante allungò la mano buona. «Dante.»
Lei la strinse. «Colomba»
«CC.»
«Fottiti.»
Lui rise. «Ti faccio un caffè buono.»

Sandrone Dazieri, ex cuoco, scrittore e sceneggiatore, è noto soprattutto per i romanzi della serie del Gorilla e del suo socio, detto appunto Socio. Non ne so nulla perché non ho mai letto Dazieri prima di questa sua ultima fatica, ma lo conosco di fama e so che prima o poi incontrerò Gorilla e il suo alter ego.
Intanto mi sono lasciata attrarre da questo titolo, “Uccidi il Padre”, da questa copertina e dalla sinossi che ho letto in rete. E così ho conosciuto Colomba Caselli, una poliziotta in congedo dopo un incidente, richiamata dal suo diretto superiore per una consulenza su un omicidio e un rapimento, che richiamano alla memoria fatti oscuri ormai consegnati al passato.
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Da quel passato riemerge Dante Torre, chiamato a collaborare con la giovane poliziotta: Dante è un quarantenne esperto di rapimenti e abusi sui minori, a suo tempo vittima di un lunghissimo sequestro per opera di un uomo misterioso chiamato il Padre. Il caso su cui Colomba e Dante si troveranno ad indagare, fuori dall’inchiesta ufficiale e seguendo itinerari non ortodossi, riguarda la macabra uccisione di una donna e il rapimento di suo figlio Luca: dei due crimini in un primo tempo viene sospettato il marito della donna morta, ma ben presto Colomba e Dante si renderanno conto che il vero colpevole non può essere che il Padre, di nuovo tornato all’azione dopo anni di oblio.
I luoghi in cui l’azione si svolge sono principalmente Roma, sede del commissariato da cui la poliziotta dipende e dove, in un parco periferico, sono avvenuti il rapimento e l’omicidio, e Cremona, dove i due protagonisti verranno portati dalle indagini e dove si trova il luogo in cui per undici lunghi anni Dante è stato prigioniero del Padre.
Veniamo ai personaggi: Colomba è una brava poliziotta, una delle migliori in circolazione, dotata di buon intuito e di grande coraggio, che uniti allo spirito di iniziativa rischiano di metterla più di una volta in serio pericolo. È giovane, energica e bella, e ricorda molto –anche fisicamente- alcune poliziotte che ho già incontrato in passato, ad esempio Grazia di “Almost blue” di Carlo Lucarelli o l’investigatrice Giorgia Cantini di “Quo vadis, baby?” di Grazia Verasani, ma ha anche molto della forza fisica di Lisbeth Salander, l’eccentrica ricercatrice protagonista della trilogia “Millennium”, creata dal mai troppo rimpianto Stieg Larsson. In tutte queste giovani donne ho trovato coraggio, determinazione, sprezzo del pericolo, potenza fisica nonostante il corpo minuto e capacità di resistere in situazioni estreme: tutte doti che appartengono anche a Colomba.
Dante Torre, il bambino creduto morto da tutti e per tanti anni, mentre invece era chiuso in un silos in balia del Padre e ora diventato esperto di persone scomparse, è un cocktail di genialità e fobie: alto, magrissimo, dinoccolato, vegetariano, maniaco del caffè di cui è vero intenditore, tanto da non concepire altro modo per degustarlo se non dopo accurate miscele di chicchi selezionati tra le varietà più pregiate, di ciascuna delle quali conosce perfettamente le proprietà organolettiche e gli effetti. Claustrofobico e gran fumatore, riconosce in Colomba la possibilità di una relazione o, quanto meno, di un’alleanza.
Il Padre, uomo misterioso che per anni ha portato avanti un progetto ‘scientifico’ che prevedeva la detenzione di bambini e lo studio del loro comportamento in situazione di costrizione fisica e di soggezione emotiva e le cui finalità restano oscure fino alla fine del romanzo, è inafferrabile, anche se sembra straordinariamente vicino, visto che per buona parte del romanzo si pensa che sia identificabile.
La grandezza di questo thriller sta proprio nell’indirizzare volutamente il lettore verso ragionamenti che poi sono smentiti sul filo di lana della fine e non un momento prima. E si va in crescendo, con un inizio cruento ma che non dà subito il gas, per cui la vicenda si avvia in sordina, tanto da non appassionare immediatamente. Si va in climax, la tensione diventa sempre più forte, anche se è solo dopo la metà che le peripezie dei protagonisti diventano irrinunciabili e si finisce con il cercare ogni momento libero per andare avanti nella lettura e vedere come si evolvono i fatti, sempre più imprevedibili.
Avevo bisogno di un thriller adrenalinico, che mi desse un po’ di scossa, dopo un lungo periodo di letture tranquille e riflessive: questo è il più consigliabile che mi sia capitato negli ultimi anni.
Intanto recupero la serie di romanzi del Gorilla…

venerdì 10 luglio 2015

Ultima lettura: "Bestiario" di Julio Cortázar


Bestiario

Autore: Cortázar Julio
Traduzione: Nicoletti Rossini M e Martinetto V.
Dati: 1974 e 1996, ed. originale 1951
Editore: Einaudi (collana ET)

Stavamo bene,
e a poco a poco cominciavamo a non pensare.
Si può vivere senza pensare.

C’è stato un periodo della mia vita in cui, con molto impegno, mi sono dedicata alla letteratura sudamericana e quindi in maniera intensa ho letto Amado, Garcia Márquez, Allende, come se tutto fosse una rivelazione, i mondi sospesi e un po’ magici, misteriosi, lo stile fantastico, i vivi che convivono con i morti mai davvero morti, i paesaggi allucinati e afosi di umidità appiccicaticcia, zucchero di canna e melassa densa, latte di cocco e polpa soda nella carne delle donne, decise, forti e irremovibili. Questo succedeva molti anni fa e probabilmente anche perché in quel momento quegli autori andavano molto di moda (sarebbero arrivati anche Coelho e Sepúlveda, senza toccarmi però).
Pensavo, nella mia somma ignoranza, che fosse tutto lì, che potesse bastare per avere la padronanza di quel mondo lontano non solo nel tempo e nello spazio. Non conoscevo gli autori che sto leggendo adesso, Cortázar e Borges, e altri che leggerò.
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Sono passata ad altro, agli statunitensi, a Minot, Carver, Leavitt… anche lì grande indigestione e poi lo stop fino ai giorni attuali, a Fante, McCarthy e Wallace e a quelli che verranno, magari in un futuro non troppo lontano.
Questo per dire che spesso siamo vittime di infatuazioni che ci fanno fare il pieno di un certo stile, di un certo modo di vedere e raccontare la realtà, tanto da non farci poi vedere altro. Fortuna che il tempo è signore e che offre la possibilità di ritorni di fiamma e nuove scoperte.
Così adesso ho conosciuto Julio Cortázar, su indicazione di un gruppo di lettura attivo su Facebook, che mi sta conducendo verso strade di lettura che non avevo mai sospettato di poter un giorno percorrere.
“Bestiario” è una raccolta di otto racconti, pubblicati per la prima volta nel 1951 (in Italia arriverà solo nel 1974 nella collana Nuovi coralli di Einaudi), di bellezza diseguale: si può affermare, credo, che ciascuno di essi può suggerire sensazioni diverse a ciascun lettore che sarà particolarmente reattivo verso un racconto più che verso un altro, fino a contemplare la possibilità che alcuni possano non piacere per niente. Ciò che accomuna tutte le storie è il particolare intorno al quale si condensa tutto un racconto e sarà quel particolare a fare la differenza, a colpire o a lasciare indifferente il lettore, capace di una sua personale classifica di gradimento.
Personalmente ad esempio ho trovato particolarmente belli i racconti “Casa occupata”, “Lettera a una signorina a Parigi” e “Circe”, tutti accomunati dal sentimento del disagio, della paura di vivere e della precarietà dell’esistenza. Nel primo racconto, un fratello –voce narrante- e una sorella consumano solitudine e comuni consuetudini in una casa che progressivamente, stanza dopo stanza, è invasa da creature misteriose che si appropriano degli spazi vitali, fino a costringerli ad abbandonarli e quindi alla resa. L’ho vista come un’attualissima (lo avrebbe mai potuto immaginare l’Autore quando scriveva, sessanta anni fa?) metafora dell’esistenza umana, sempre più compressa e costretta dalle violazioni e dalle prepotenze esterne che arrivano a impadronirsi di spazi e pensieri, contro le resistenze passive (come dire: non abbiate paura, reagite alle invasioni, altrimenti dovrete abbandonare il campo al nemico).
Di “Lettera a una signorina a Parigi” mi hanno appassionato i coniglietti che l’autore di questa lunga lettera ad Andrée (della quale per un certo periodo occupa l’appartamento finché questa si trova a Parigi) vomita periodicamente e, da un certo momento in poi, più frequentemente. Ma cosa significa che ‘vomita coniglietti’? Significa che improvvisamente, nel bel mezzo di una qualunque attività, di tanto in tanto un coniglietto gli sale su per la gola e, aiutato da due dita che opportunamente egli si infila in bocca, spunta all’esterno e “sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo”. Non è facile convivere con questo problema, ma l’uomo ritiene che non sia “una buona ragione per vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere”; così basta seminare del trifoglio in un vaso sul balcone e lasciare che i coniglietti crescano felici, per quanto nel momento in cui gli episodi si intensificano, per di più in concomitanza con un trasloco, presenti innegabili difficoltà. È evidente che anche qui il senso va oltre, è un’onda surrealista che travalica l’immaginazione, l’allegoria di un disagio complesso che può trovare sollievo solo in modo drastico e definitivo, l’unico dato realistico di questa storia, la morte.
Anche “Circe” mi ha conquistato: vi ho rintracciato alcune atmosfere che già avevo trovato in “La casa degli spiriti” di Isabel Allende (romanzo che ovviamente arriva molto dopo il “Bestiario” di Cortázar, trenta anni dopo per la precisione), nelle pagine iniziali dedicate alla morte per avvelenamento della bellissima Rosa del Valle, fidanzata del protagonista Esteban Trueba. Nulla accomuna le due storie, ma sarà forse l’aria appestata che si respira, nonostante Delia, la protagonista di “Circe”, sia sempre impegnata nella preparazione di profumati pasticcini che a volte hanno il retrogusto salato delle lacrime, a suggerire le medesime sensazioni di oppressione di quelle prime scene descritte dalla Allende.
Adesso dovrei dire se secondo me questo libro va letto, se lo consiglio, ecc ecc. Quelle cose che fanno i bookblogger seri. Ecco sì, credo che sia un libro da leggere. Non mi viene da dirlo meglio. A questo aggiungo che, come già è successo e succederà, il confronto con altri lettori è uno stimolo importante per potersi avvicinare ad autori che magari non avevamo mai preso in considerazione. Per questo personalmente devo ringraziare Maria Di Biase e il gruppo Scratchbook.

venerdì 3 luglio 2015

Ultima lettura: (alcune) Scritture animali (Giulio Mozzi, Giuseppe Genna, Vanni Santoni)


Della collana Zoo di :duepunti edizioni ho già detto qui, in occasione della Fiera della piccola e media editoria PiùLibriPiùLiberi2014 di Roma del dicembre scorso. È arrivato il momento di scrivere degli autori che ho incontrato tra le pagine ecologiche di questa giovane e coraggiosa casa editrice palermitana.

La stanza degli animali

Autore: Mozzi Giulio
Dati: 2010, 62 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

Non ce ne facciamo niente di tutto questo.
Non era meglio dimenticare?

Banalizzo, se cerco di raccontare cosa c’è in “La stanza degli animali” di Giulio Mozzi.
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Una trama fatta di pochi ingredienti: una casa che si chiude e si mette in vendita, la morte violenta di una madre per mano di un padre ora in carcere, il tutto quando ormai la vita sembra essere accomodata in una tranquilla vecchiaia, fatta di consuetudini. In mezzo, i ricordi di un figlio, che si disfano come gli animali conservati sotto formalina della strana collezione paterna, intrisa di odore di morte e disinfettante. E questo odore mortifero per anni, sempre più intensamente, ha avvolto la vita degli abitanti della casa, divenendo tutt’uno con i muri, la mobilia, i gesti, le parole.
elementi essenziali e un po’ macabri, Giulio Mozzi fa un piccolo gioiello. Un recitativo apre a un prosimetro in cui si alternano sequenze di versi liberi a brevi componimenti strutturati più rigidamente sul piano metrico e retorico, a brani narrativi di puro racconto, con una gestione dello spazio grafico originale, con interruzioni di righe e a capo repentini.
Giulio Mozzi non scrive solo parole: dà immagine alle parole che quindi non si susseguono in serie di grafemi, ma fanno vedere altro, oltre.
Suggestivo, questo libretto.

Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari

Autore: Genna Giuseppe
Dati: 2010, 61 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

I Cammelli Polari si direbbero angeli,
se lo fossero.

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I Cammelli Polari: qualcuno li ha visti, ma non lo dice. Sembrano pattinare sul ghiaccio del Polo, eppure ondeggiano come anche i cammelli del deserto, ché tanto è lo stesso, si muore di sete anche al Polo, dove l’acqua è ghiaccio. Però sono più eleganti dei loro simili che si possono osservare tra le steppe dell’Anatolia. Sanno parlare, anzi per la precisione sussurrano, quindi ci vogliono orecchie che possano sentirli e che soprattutto vogliano sentirli. Appaiono e scompaiono, possono anche essere ubiqui, insomma lapalissianamente si potrebbero dire angeli, se fossero angeli. Se nessuno ne ha mai parlato finora è perché non ha voluto farlo e questo è grave, dai Cammelli Polari si possono trarre un po’ di insegnamenti, o almeno la possibilità di soffermarsi su ciò che noi umani siamo, senza saperlo. Perché loro lo sanno bene invece, ci osservano da sempre. E non pensiate che siano fantasie, queste: ne ha parlato prima di tutti Duarte Lopes nel suo trattato “Relazione del regno di Congo”, come puntualmente riporta Giuseppe Genna in una nota esplicativa, a proposito della disposizione con la quale si devono ascoltare le parole non pronunciate ma appena sussurrate dai Cammelli Polari.
E cosa sussurrano i Cammelli Polari agli ‘uomini privi di potere ovvero no’? Da loro sappiamo del ‘petroso rovinare del tempo’, in cui la lingua fa sì che lo spazio si tramuti in cronologia. E quello stesso tempo per loro non ha importanza, loro non ci pensano, soprattutto non pensano a quando finirà, come invece facciamo noi umani. Nessuna tempesta li infastidisce, loro sono fatti dello spazio che c’è tra un’idea e l’altra, non sono materia corruttibile come noi, pur non essendo eterni. Quindi il tempo esiste anche per loro e trascorre anche per loro. Ma l’indifferenza con la quale passano e osservano senza provare moti particolari dell’animo, li rende distaccati dalle miserie che invece caratterizzano la vita nostra, di noi umani imprigionati in un carcere in cui volutamente ci siamo infilati e da cui guardiamo la realtà attraverso lenti affumicate che molto nascondano alla nostra vista.
Ricco di teorie affascinanti, questo libretto.

Tutti i ragni

Autore: Santoni Vanni
Dati: 2012, 62 p., brossura
Editore: :duepunti edizioni (collana Zoo)

La tela nobilita il ragno.

Questa è la storia di un bambino, poi ragazzino, poi giovane uomo, poi adulto alle prese con la sua passione/fobia per i ragni.
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In realtà i ragni, tutti i ragni della vita della voce narrante, sembrano quasi un pretesto per raccontarsi; infatti la narrazione si snoda attraverso il ricordo degli incontri più o meno fortuiti, ovvero più o meno cercati, con le specie più diverse di aracnidi, ma è anche la ricostruzione di ciò che una certa generazione, quella nata più o meno alle soglie degli anni Ottanta dello scorso secolo (fa un po’ effetto dirlo così, eh?), è stata. Quindi sono i ragazzini che ancora giocavano all’aperto, con gli amici che conoscevano sul luogo di vacanza -amicizie destinate a durare lo spazio di una stagione ma non per questo meno importanti di quelle in città, con i compagni di scuola-, sono i ragazzini dei Transformers e dell’Amiga, delle Micromachines e delle Hot Wheels, dei cartoni animati giapponesi, degli Iron Maiden e di Bon Jovi versus Francesco Salvi di "C'è da spostare una macchina"  e il Jovanotti di  "Ciao mamma". Sono gli adolescenti di King of Dragons e di Doom, i videogiochi dove andarsi a cercare i ragni anche virtuali, pur consapevoli della propria aracnofobia (anzi, proprio per quello, spesso infatti cerchiamo ciò che temiamo).
Sono i giovani universitari che scoprono i fumetti giapponesi (dopo i cartoni animati dell’infanzia), sono i giovani che viaggiano dove devono viaggiare.
I ragni in tutto questo ci sono sempre.
Questo libretto mi ha fatto sorridere e mi ha dato tenerezza.