giovedì 26 dicembre 2013

Ultima lettura: "La cena di Natale" di Luca Bianchini


La cena di Natale di “Io che amo solo te”

Autore: Bianchini Luca
Dati: 2013, 183 p., brossura
Editore:  Mondadori (collana Libellule)

«Mamma mè… nevica» disse, e per un attimo tornò bambina.
Si ricordò di quell’anno in cui la scuola aveva chiuso una settimana
e lei se n’era restata in casa a guardare la finestra dicendo:
«Ma al mare non si appiccica».

Photo HelenTambo on Instagram
Che la Puglia sia entrata nel cuore di Luca Bianchini è ormai chiaro a tutti. Si capisce già dalla curiosità attenta con cui in “Io che amo solo te” ha narrato i preparativi di una tipica cerimonia nuziale pugliese, con quel misto di tradizione e trash barocco già a partire dal servizio fotografico comprensivo di filmino prematrimoniale, per finire al menù del ricevimento, passando dalle prove dell’abito e del trucco-e-parrucco della sposa.
Per quanto Bianchini dica che i due romanzi possono essere letti indipendentemente l’uno dall’altro e che il secondo non è da intendersi come sequel del primo, in sostanza sono complementari e ne “La cena di Natale” i personaggi, già compiuti in “Io che amo solo te”, qui trovano un’ulteriore progresso: Ninella, nonostante la nuova tinta ‘biondo Kidman’ clamorosamente sbagliata da Lucia Coiffeur, è sempre più consapevole della sua autonomia di scelta; Matilde, eterna rivale, si mette in competizione indirettamente con Ninella, sfidando addirittura la nuora Chiara, alla prova del suo primo pranzo di Natale; Orlando, che abbiamo conosciuto insicuro e fragile nel suo amore impossibile per l’Innominato, qui acquista fiducia  e autorevolezza; don Mimì, diviso tra la moglie e la donna della sua vita, è sempre più confuso; Chiara e Damiano vivono un’evoluzione del loro rapporto, ignaro per lei, consapevole per lui, colpevole di un tradimento che potrebbe portare sviluppi tragici per la loro vita matrimoniale. Sullo sfondo continuano a muoversi i personaggi che già conosciamo e che qui hanno l’occasione di uscire più compiutamente: la signora Labbate, regina di Mondo Mocassino, ormai amica di Ninella e intimamente solidale con lei; Nancy, ‘Aretha Franklin del Sudest barese’, che ha ripreso i chili persi in occasione del matrimonio della sorella ed è ancora alle prese con la sua verginità; la zia Dora sempre più bizzarra nel suo sentirsi estranea ormai da Polignano, ma in realtà intrinsecamente legata al paese che le ha dato i natali.  E poi Mariangela, Pascal, lo zio Modesto…
Bianchini racconta con divertito stupore le nevrosi e le manie della provincia: lo shatush, il Bimby, le luminarie delle feste, il supplì con la cozza tarantina incorporata, i gioielli da esibire insieme allo status economico, i pranzi e le cene da organizzare in un tripudio di ostentazione. E il divertimento di Bianchini diventa spasso per il lettore, che si riconosce (anzi no, riconosce ‘gli altri’) e di quei tic sorride, accompagnato da una prosa curata e semplice.
La Puglia e le sue tradizioni contaminate dalla TV sono state una miniera di idee per l’autore che dice “non sarei mai riuscito a riprendere in mano Ninella e don Mimì, se non fossi stato investito da un’onda gigante di affetto da parte dei lettori”: credo che tutti noi lettori pugliesi, che abbiamo incontrato più volte Luca nel suo Gaga-tour di promozione, abbiamo fornito materia sufficiente per aiutarlo a raccontare ancora di questa ultra famiglia meridionale, stretta tra il mare di Polignano e le Murge dell’entroterra, in mezzo al profumo di focaccia barese e di cozze gratinate, di pittule e di brodo di Natale.

martedì 17 dicembre 2013

Letture passate: "Nessuna terra al mondo" di Raffaello Bovo


 
Nessuna terra al mondo

Autore   : Bovo Raffaello
Dati: 2009, 284 p., brossura
Editore: Albatros Il Filo

Caro Raffaello,
fine pena mai. Questo ho pensato finendo di leggere il tuo romanzo.
Photo Elena Tamborrino
Fine pena mai per Singapore, un personaggio che hai disegnato con una sapienza, con un realismo, con una partecipazione davvero straordinari.
Durante la lettura ho visto quella faccia, tutte le facce, di Angelo Diotallevi, di Nicandro e i suoi figli, prima ragazzini poi uomini, di Amelia, di Teresa e di Armida e di Clelia. E la Clelia che donna! Una cagna in calore? Forse o forse no, una innamorata, come solo di certi uomini e di certe situazioni ci si può innamorare, di qualcuno che non sarà mai completamente tuo e pure lo sarà fino all'ultima delle fibre, senza volerlo. Maledicendo il momento anzi in cui sa che potrebbe cedere e invece no, perché il suo destino è quello di soffrire e di scavarsi la fossa da solo. Quello che fa Singapore, fine pena mai.
Avrei voluto per la Clelia un destino diverso e anche per Singapore e per l'Ermanno. Invece no, tu hai dato la giusta conclusione a tutta la storia, sarebbe stato troppo facile il lieto fine, forse una cosa più frequente nella realtà di quanto non si immagini. Il lieto fine, chimera ma anche no. La Clelia è coraggiosa, lei rinuncia al suo uomo, quello che sarà sempre suo comunque, ma che non la guarderà mai mentre dorme.
Non so che dirti altro, Raffaello. Per qualche giorno ho visto quei bricchi, ho camminato su quelle strade, ho salito le scale dell'albergo per andare a trovare l'Armida con Singapore, mi sono distesa sulla radura nel bosco, dove ho fatto l'amore con Singapore.
Grazie Raffaello, soprattutto sono contenta di averti conosciuto attraverso il tuo libro. E di potermi fregiare della tua amicizia, vera anche se virtuale (ma le due cose possono non escludersi).
Ciao
Elena

giovedì 12 dicembre 2013

Ultima lettura: "I quattro canti di Palermo" di Giuseppe Di Piazza


I quattro canti di Palermo

Autore: Di Piazza Giuseppe
Dati: 2012, 213 p., brossura; ePub con DRM 2,0 MB
Editore: Bompiani (collana Narratori italiani)

“Antonio, dovresti saperlo: a Palermo non c’è mai un sì pieno,
e neanche un no diretto. Le cose si dicono a trasi e nesci, a entra e esci.
Un po’ avanti e un po’ indietro: mai nettamente in una direzione.”

Photo HelenTambo on Instagram
Quando tutte le occasioni, che siano frammenti di tempi morti in attesa di qualcosa o di qualcuno, oppure momenti scelti apposta e pregustati in anticipo, sono buone per aprire un libro, significa che quello è un libro giusto.
Ho un discreto senso critico, almeno secondo i parametri che seguo quando esprimo un giudizio sulle mie letture, ma nonostante mi accada di imbattermi in passaggi o stilemi che a volte mi lasciano qualche perplessità (e questo mi succede più spesso da quando ho letto "L'importo della ferita e altre storie" di Pippo Russo), se la vicenda che sto leggendo mi prende, lascio correre, continuo a farmi trascinare dalle situazioni narrate.
Questo è ciò che mi è accaduto con “I quattro canti di Palermo”: con l’ereader sempre in borsa per approfittare di ogni momento buono per avanzare nella lettura, mi sono lasciata trasportare dal protagonista, un giovanissimo cronista di nera negli anni Ottanta della mattanza mafiosa a Palermo, in luoghi conosciuti e meno conosciuti, che poi convogliano tutti nel cuore della città, i famosi Quattro Canti, crocevia dei quartieri storici Castellammare, Tribunali, Palazzo Reale, Monte di Pietà. Un quinto canto, dice Di Piazza nei ringraziamenti, è invisibile agli occhi ma è percepito forte in chi se n’è andato da Palermo, ed è il canto dell’assenza.
Quattro quindi sono gli spigoli di questa piazza, cuore pulsante di Palermo a due passi dalla Cattedrale, come quattro sono le storie violente attraversate dal protagonista, che racconta in prima persona i limiti di un mondo crudele e spietato, che alimenta bugiarde illusioni, che nutre falsi valori. Marinello è un predestinato, un mafioso che non vuole diventare killer; Sophie una modella francese che si lascia fagocitare da un mondo tossico; Vito è un padre che fa scomparsi i suoi figli, in una spirale di odio cieco e frustrazione; Rosalia vuole capire perché suo padre, un ladro ‘pezzo di pane’ che però rubava ‘onestamente’, è finito decapitato nel bel mezzo di una faida mafiosa, capire le serve per riprendersi la dignità, altrimenti “chi se la prende la figlia di uno che gli hanno scippato la testa?”. A fare da connettivo è il racconto a distanza di tempo del muoversi del protagonista, tra corse in Vespa per arrivare in tempo sul luogo del delitto, la redazione fumosa di MS, le compagnie femminili sempre nuove, tutte diverse, il sesso e il cibo, il disordine della casa e il suo coinquilino, Fabrizio. Ancora da collante è la mappa della città, tramite i suoi locali di culto, le pasticcerie famose, la Favorita, il teatro Massimo, i bar, il tribunale, il mare di Mondello. Il racconto è quello di chi ricorda da lontano, dopo aver portato la propria vita altrove, verso altre storie da raccontare, ma senza dimenticare il proprio essere profondamente palermitano.
Se almeno una volta si è stati a Palermo, è difficile non lasciarsi incantare dalla città e dai suoi contrasti, dalle sue contraddizioni fatte di splendore e degrado insieme; è impossibile non amare questa città dalla storia affascinante e dolorosa che se è stata generosa da una parte, rendendola culla della splendida civiltà federiciana, dall’altra l’ha percossa e violentata.
Il caso ha voluto che proprio il giorno che finivo di leggere il libro di Di Piazza, andavo a vedere al cinema il film di Pierfrancesco Diliberto Pif, “La mafia uccide solo d’estate”, le cui vicende si svolgono in parte negli stessi anni di “I quattro canti di Palermo”, coincidendo in alcuni fatti: mi è sembrato il giusto complemento, mi ha dato un respiro più ampio, mi ha fatto capire cosa significa essere nati a Palermo e imparare a convivere con il male, come se fosse normale.

sabato 7 dicembre 2013

Lettera al mio stalker #FF #stalkingstalkersday di Gaia Conventi

Eccezionalmente ospito sulle pagine del mio blog la lettera aperta ad uno stalker. La vittima, Gaia Conventi, scrittrice e autrice del blog Giramenti, ha deciso di rendere pubblica la sua esperienza, con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica.
Per l'occasione, sui social network la giornata di ieri è stata dedicata alla denuncia e alla lotta contro lo stalking: su Twitter se n'è parlato sotto l'hashtag #stalkingstalkersday, su Facebook qui.

Poichè penso che un giorno per fare chiasso e urlare la propria rabbia sia utile, ma due, tre o quattro lo siano ancora di più, eccomi oggi con la lettera di Gaia su Giramenti, un'accusa coraggiosa che molti non riescono a fare, anche perchè purtroppo le denunce spesso restano inascoltate.


venerdì 6 dicembre 2013

SapereSapori: li pipirussi siccati e la vigilia dell’Immacolata


Peperoni e zucchine secchi, tagliati a strisce e a fette spesse e lasciati al sole durante i mesi più caldi dell’estate, gli sponzali (una varietà di cipollotti invernali la cui parte verde, le cosiddette code, essenziale) e il concentrato doppio di pomodoro: questi gli ingredienti della peperonata invernale che non mancava nelle tavole dei salentini, nei mesi in cui il prodotto fresco non era disponibile. Una volta era così, si conservavano le verdure estive per il periodo in cui non ce n’era tanta varietà, giacché i prodotti della terra sono da sempre alla base della cucina mediterranea, in territori a spiccata vocazione agricola.
Photo Elena Tamborrino

Oggi i pipirussi siccati sono una pietanza che si conserva e si tramanda per puro amore di tradizione e non è un caso se il suo consumo è concentrato soprattutto il giorno della vigilia della Madonna Immacolata, insieme alla puccia.
Per me, bambina cresciuta al nord che passava solo le vacanze estive dalla nonna, in Salento, anche questa è stata una scoperta golosa, fatta quando in provincia di Lecce sono andata a viverci, estate e inverno.
Gli sponzali (o spunzali), messi a stufare in abbondante olio di oliva per molto tempo, con l’aggiunta di acqua calda qualora si vadano ad asciugare troppo rapidamente (mentre invece è necessaria una cottura prolungata affinché risultino digeribili, restando comunque una bella lotta per gli stomaci delicati), sprigionano un profumo intenso e pungente, che immediatamente inonda la casa. Immagini immediatamente fette fragranti di pane di grano duro, magari cotto nel forno a legna, grondanti di olio rosso, colorato dalla conserva di peperoni piccante e dal concentrato di pomodoro. Un pasto povero una volta, almeno finché la verdura veniva essiccata in famiglia, sfruttando i frutti del proprio orto; oggi una leccornia che è diventata di lusso, poiché essiccare i peperoni e le zucchine richiede un lavoro attento e paziente. Bisogna esporre al sole la verdura nelle ore più calde, disposte distanziate su graticci, e metterle al riparo poco prima del tramonto, avanti che cali l’umidità. E quante corse se scoppia all’improvviso un temporale! Per di più la resa è sempre ridotta rispetto al volume iniziale di verdure fresche. Tuttavia continua ad essere un piatto tradizionale irrinunciabile.

Quando la zia Maria li faceva, era necessario spalancare porte e finestre in casa, creare un minimo vortice di aria che mandasse via quel forte profumo che poi, stagnando, si sarebbe rivelato fastidioso. Dopo averla cotta a lungo e seguendo precise istruzioni (minti li spunzali ne l’ojo -tocca eggi generosa-, intanto faci fferve l’acqua e minti nu pugnu de pipirissussi siccati, li faci bollire per tre minuti, poi aggiungi le cucuzze e spegni: lassa tutto nell’acqua pe’ nu picchi, fintanto nu se mmollane, poi li strizzi e li cali intra li spunzali, aggiungi lu sale, la cunzerva mara e lu concentrato e poi teni pazienza, per la traduzione, guardare la foto), la zia metteva la peperonata in una coppa di porcellana che risaliva alla notte dei tempi, ormai sbeccata e singata (crepata), facente parte di un servizio da tavola della nonna. Quella coppa continua a sopravvivere, ce l’ho io ormai, ci metto i miei pipirussi siccati, quando li faccio per la puccia dell’Immacolata.