Visualizzazione post con etichetta tradizioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta tradizioni. Mostra tutti i post

giovedì 9 febbraio 2017

"Occhio di capra" di Leonardo Sciascia

SAPIDDRU (ma dai più pronunciato «sopiddru»). 
Sapi iddru: sa lui. 
Tra il «non lo so» e il «lo sa Iddio». 
E «iddru» è forse Lui, che tutto sa. 
Noi nulla sappiamo. 

Il mio primo libro di Sciascia, letto da ragazzina, è stato “A ciascuno il suo”, in un’edizione Einaudi, collana Letture per la scuola media, che non so nemmeno se esista ancora. A seguire lessi “Il giorno della civetta”, sempre Einaudi, per la stessa collana che negli anni Settanta ha avuto il merito di far leggere opere fondamentali a tanti adolescenti, in virtù anche di quella “ora di narrativa” che, alle scuole medie, regalava uno spazio settimanale importante: per molti della mia generazione, che aveva molti meno stimoli rispetto a quelli che hanno oggi i ragazzi, è stata un trampolino considerevole verso la conoscenza di tanti autori della nostra letteratura contemporanea e quella collana di Einaudi ha svolto un ruolo importante, con proposte editoriali efficaci, molte delle quali rappresentano i primi esemplari di quella che nel tempo sarebbe diventata la mia ricca biblioteca personale. 
Oggi le occasioni per leggere a scuola autori contemporanei si riducono alle scelte antologiche operate dagli insegnanti e dall’editoria scolastica (un racconto che si incontra spesso nelle antologie di primo biennio è “Il lungo viaggio”, tratto dalla raccolta “Il mare colore del vino”, che narra del viaggio pieno di speranza di un gruppo di contadini che sperano di poter emigrare in America, a Nuovaiorche, ai primi del Novecento, e pagano un individuo equivoco per un trasporto che durerà undici notti e che li vedrà sbarcare a Gela, dopo aver praticamente girato a vuoto nel mare), oppure a progetti particolari: scomparsa in pratica l’ora di narrativa, per una contrazione del tempo che si concentra quindi su attività di analisi testuale gradatamente sempre più complesse, piuttosto che alla lettura per il piacere della lettura, le opportunità di incontrare romanzi importanti del secondo Novecento si riducono al nulla, quasi, con l’aggravante che, anche negli anni successivi, lo studio della storia letteraria esclude gli autori più vicini alla nostra epoca, relegandoli a letture episodiche. Posso dunque affermare, con buona pace dei legislatori e dei pedagogisti che nel corso dei decenni hanno lavorato affinché il tempo dedicato allo studio dell’Italiano fosse sempre più ridotto, di aver avuto la buona fortuna di aver frequentato “le medie” nel pieno degli anni Settanta, prima che iniziasse l’opera di smantellamento della scuola pubblica. 
I miei primi approcci con Leonardo Sciascia sono quindi da attribuire alle sue opere più importanti, o almeno alle più note, e prendono origine dall’esperienza scolastica. Nel frattempo le storie e lo stile dello scrittore di Racalmuto mi avevano conquistato e negli anni mi sono trovata spesso ad acquistarne i libri, che sono andati a incrementare il mio “palchetto Sciascia”. Pensavo di averne letti tanti, di essere una buona conoscitrice della narrativa di Sciascia, ma mi sono resa conto che la sua produzione in realtà conta molti titoli che mi erano del tutto sconosciuti, non avendoli mai sentiti nemmeno citare. Così mi sono data il compito, per questo 2017, di acquistare i libri che non possiedo ancora e di leggerne uno al mese, proprio come dovere civile, considerando i temi che Sciascia ha trattato nei suoi romanzi, la mafia in primis, le sue collusioni con la politica, la corruzione, spesso scegliendo la struttura narrativa tipica del romanzo giallo, e senza dimenticare la sua produzione saggistica. 
Il primo dei libri che ho scelto di leggere nel mese di gennaio, scelto assolutamente a caso senza avere la minima idea di cosa trattasse, non è un romanzo e anche come saggio diventa difficile etichettarlo. Direi che “Occhio di capra” è un omaggio, un atto d’amore che Leonardo Sciascia ha fatto alla sua terra e più precisamente al luogo in cui è nato, quella Racalmuto dell’entroterra agrigentino, tanto vicina ai luoghi di Pirandello e di Rosso di San Secondo, della quale esplora la lingua nei suoi detti popolari. 
“Isola nell’isola” è Racalmuto (l’antico villaggio arabo Rahal-maut), al pari di altre “isole” dentro l’isola Sicilia, lontana dal mare, desolata e allo stesso tempo sorgente di notizie, coacervo di esperienze umane, centro di varia umanità che rappresenta, agli occhi del suo forse più illustre figlio, la fonte delle storie che egli racconta nello spiegare l’origine di alcune parole dialettali o di certi modi di dire popolari. 
Sciascia afferma, nella “notizia” che apre il volumetto, di conoscere il suo paese da prima di sempre, un po’ come dice di se stesso -e di Buenos Aires- lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. E alla “storia minima” di Racalmuto, Sciascia dedica la sua attenzione (“Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande”, scriveva a proposito di “Occhio di capra”).
In ordine alfabetico, l’Autore riporta la traduzione e l’origine -a volte anche strettamente etimologica più spesso da ravvisare in un episodio, un personaggio, un’arguzia- di parole e unità fraseologiche dialettali: tra lessico e etnografia, Sciascia delinea ipotesi strettamente linguistiche, ricostruisce e attribuisce alla cultura popolare il radicarsi di espressioni tipiche in epoche diverse, e lontane nel tempo tanto da perdersi forse nella memoria collettiva, così da esigere che qualcuno le restituisca al patrimonio di ricordi che identificano una comunità di parlanti. 
Divertente e acuto, “Occhio di capra” è un viaggio nella lingua, anzi in una delle lingue della Sicilia. Di particolare interesse per i linguisti, a titolo di mera curiosità, è la nota finale sulla grafia, spesso insufficiente a rappresentare certi suoni come la cacuminalizzazione della laterale intensa in nessi come –ll- > -dd-, ma dice Sciascia solo perché manca il segno a rappresentare una “remora della glottide”. 
Una buona idea è acquistare adesso questo libro, approfittando dello sconto del 25% che Adelphi applica in questo periodo per i tascabili: in questo caso il prezzo scende a soli 9 euro, davvero ben spesi. 

Photo HelenTambo on Instagram



Occhio di capra 
Autore: Leonardo Sciascia 
Dati: 1990, 150 p., brossura 
Editore: Adelphi (collana Piccola Biblioteca) 
Prezzo: € 12,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

lunedì 2 marzo 2015

Ultima lettura: "Accabadora" di Michela Murgia


Accabadora

Autore: Murgia Michela
Dati: 2014, 166 p., brossura; prima ed. 2009
Editore: Einaudi (collana Super ET)

Le colpe, come le persone,
iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge.

L'ho letto voracemente, incantata da una storia d'altri tempi eppure neanche troppo lontana, trovandolo bello e commovente. Gli ho dato una valutazione di cinque stelle su Goodreads, trascurando una riflessione più profonda a cui mi sono dedicata in un momento successivo al primo entusiasmo, a lettura appena conclusa.
Come nessuno nasce da solo ma ha bisogno di chi lo aiuti a venire al mondo, a uscire dal ventre materno, a farsi recidere il cordone ombelicale, allo stesso modo abbiamo bisogno di aiuto per andarcene all’altro mondo e per farlo serve innanzitutto che non ci sia niente e nessuno a trattenerci. Lo sa bene Bonaria Urrai, che aiuta chi se ne deve andare a slacciare gli ultimi legami con la terra, per alcuni matrigna.
Photo HelenTambo on Instagram
E a proposito di ‘terra matrigna’, al concetto di maternità è legata buona parte del romanzo, che vede la vecchia Tzia Bonaria, la sarta di Soreni, prendere con sé la piccola Maria, togliendola da un ambiente familiare deprivato e dandole cibo e istruzione, oltre a un forte affetto autentico, solido e privo di fronzoli. Fili'e anima, così si chiamava chi veniva adottato senza tribunali dei minori e senza carte bollate che lo sancissero: Bonaria per Maria sarà una madre severa e attenta, sia pure rispettosa della sua individualità.
Bonaria Urrai non è solo madre di Maria, ma è l’ultima madre per tanti, la femina abbacadora (o
femina agabbadòra, dal sardo s'acabbu, "la fine"), cioè la donna che si metteva a disposizione per uccidere gli anziani ormai prossimi alla morte, in una forma di eutanasia pietosa fuori dalle leggi umane e religiose. Questo Maria non lo capisce subito, ma ad un certo punto comincerà a mettere insieme alcuni indizi, alcuni movimenti notturni, alcuni comportamenti misteriosi che le sveleranno la vera natura della donna che amorevolmente l’ha cresciuta.
Il racconto di Murgia mette insieme una storia di tradizioni antiche, fatte di riti e cibo e credenze e superstizioni. Ci consegna una Sardegna arcaica, incastonata in un tempo tra gli anni Cinquanta e Sessanta e tuttavia apparentemente immobile: sembra che in quell’angolo sperduto dell’isola il tempo si sia fermato, sempre uguale a se stesso, con il solo avvicendarsi delle stagioni, di vendemmia in vendemmia.
Tra la Sardegna aspra, rozza e arretrata di Grazia Deledda e quella magica di Salvatore Niffoi, l’Autrice presenta la sua terra caricandola di un’ambientazione chiusa e ostile, forse fedele alla natura di un popolo generoso eppure diffidente, schiacciato nel momento storico in cui è ambientato “Accabadora”, tra civiltà pastorale e sviluppo dei consumi;  allo stesso tempo la priva dell’elemento più naturale e spontaneo, la lingua materna, relegata qui al solo lessico del cibo e di qualche aspetto più strettamente etnografico. Proprio questa scarsa aderenza al realismo linguistico, che forse l’argomento e l’ambientazione avrebbero imposto, giustifica il giudizio di chi conosce bene la Sardegna e non vi si è riconosciuto.
Ma a chi come me della Sardegna ha un’immagine forse stereotipata ma comunque affascinante, questo romanzo può piacere molto.






venerdì 6 dicembre 2013

SapereSapori: li pipirussi siccati e la vigilia dell’Immacolata


Peperoni e zucchine secchi, tagliati a strisce e a fette spesse e lasciati al sole durante i mesi più caldi dell’estate, gli sponzali (una varietà di cipollotti invernali la cui parte verde, le cosiddette code, essenziale) e il concentrato doppio di pomodoro: questi gli ingredienti della peperonata invernale che non mancava nelle tavole dei salentini, nei mesi in cui il prodotto fresco non era disponibile. Una volta era così, si conservavano le verdure estive per il periodo in cui non ce n’era tanta varietà, giacché i prodotti della terra sono da sempre alla base della cucina mediterranea, in territori a spiccata vocazione agricola.
Photo Elena Tamborrino

Oggi i pipirussi siccati sono una pietanza che si conserva e si tramanda per puro amore di tradizione e non è un caso se il suo consumo è concentrato soprattutto il giorno della vigilia della Madonna Immacolata, insieme alla puccia.
Per me, bambina cresciuta al nord che passava solo le vacanze estive dalla nonna, in Salento, anche questa è stata una scoperta golosa, fatta quando in provincia di Lecce sono andata a viverci, estate e inverno.
Gli sponzali (o spunzali), messi a stufare in abbondante olio di oliva per molto tempo, con l’aggiunta di acqua calda qualora si vadano ad asciugare troppo rapidamente (mentre invece è necessaria una cottura prolungata affinché risultino digeribili, restando comunque una bella lotta per gli stomaci delicati), sprigionano un profumo intenso e pungente, che immediatamente inonda la casa. Immagini immediatamente fette fragranti di pane di grano duro, magari cotto nel forno a legna, grondanti di olio rosso, colorato dalla conserva di peperoni piccante e dal concentrato di pomodoro. Un pasto povero una volta, almeno finché la verdura veniva essiccata in famiglia, sfruttando i frutti del proprio orto; oggi una leccornia che è diventata di lusso, poiché essiccare i peperoni e le zucchine richiede un lavoro attento e paziente. Bisogna esporre al sole la verdura nelle ore più calde, disposte distanziate su graticci, e metterle al riparo poco prima del tramonto, avanti che cali l’umidità. E quante corse se scoppia all’improvviso un temporale! Per di più la resa è sempre ridotta rispetto al volume iniziale di verdure fresche. Tuttavia continua ad essere un piatto tradizionale irrinunciabile.

Quando la zia Maria li faceva, era necessario spalancare porte e finestre in casa, creare un minimo vortice di aria che mandasse via quel forte profumo che poi, stagnando, si sarebbe rivelato fastidioso. Dopo averla cotta a lungo e seguendo precise istruzioni (minti li spunzali ne l’ojo -tocca eggi generosa-, intanto faci fferve l’acqua e minti nu pugnu de pipirissussi siccati, li faci bollire per tre minuti, poi aggiungi le cucuzze e spegni: lassa tutto nell’acqua pe’ nu picchi, fintanto nu se mmollane, poi li strizzi e li cali intra li spunzali, aggiungi lu sale, la cunzerva mara e lu concentrato e poi teni pazienza, per la traduzione, guardare la foto), la zia metteva la peperonata in una coppa di porcellana che risaliva alla notte dei tempi, ormai sbeccata e singata (crepata), facente parte di un servizio da tavola della nonna. Quella coppa continua a sopravvivere, ce l’ho io ormai, ci metto i miei pipirussi siccati, quando li faccio per la puccia dell’Immacolata.