venerdì 28 giugno 2013

Ultima lettura: "Atletico Minaccia Football Club" di Marco Marsullo


Atletico Minaccia Football Club

Autore: Marsullo Marco
Dati: 2012, 212 p., brossura
Editore: Einaudi  (collana Einaudi. Stile libero big)


"Non importa quanti gol prendi in una giornata storta,
ma quanti potevi prenderne se la partita non fosse finita." (terza regola)

Ci sono degli uomini di carta ai quali è facile affezionarsi, se non capita addirittura di innamorarsi. Dove per uomini di carta intendo ovviamente personaggi letterari, protagonisti di storie in cui si muovono come fulcro: intorno a loro avvengono delle vicende impresse di un carattere che sarebbe diverso in loro assenza, perché si tratta di personaggi di spessore, spesso dalla fisicità prorompente, dalle battute e dai pensieri che in bocca e nella testa di altri non potrebbero stare.  Mi è già capitato con l’avvocato Malinconico inventato da Diego De Silva e più recentemente con Igor Attila , creatura di Paolo Foschi.
Ora sono vittima del fascino di Vanni Cascione, allenatore dell’Atletico Minaccia Football Club, nato dalla penna (come si diceva una volta) di Marco Marsullo. Ora, ragioniamo: come si fa ad innamorarsi di Cascione? Allenatore disoccupato (fino all’incontro con l’improbabile procuratore Magia) e pluriespulso, che beve a canna direttamente dalla bottiglia (e solo questo basterebbe a squalificarlo, ha ragione quel ‘facocero in pantacollant’ di sua moglie Lina), un po’ sovrappeso (“Afferrai ai due alti quell’ammasso di grassi saturi che mi sporgeva dal ventre e rimasi così, a fissarmi disgustato per un lunghissimo minuto”), va in giro con una vecchia Opel Kadett che, appunto, kadett a pezzi. Convinto che barba di due giorni, camicie Pignatelli e cravatta regimental rappresentino il look dell’allenatore vincente modello José Mourinho, il suo idolo, si accontenta intanto di indossare il gessato acquistato quattro anni prima, in occasione del matrimonio di suo fratello. Eppure… Cascione ha l’eloquio affascinante (sarà forse l’uditorio con il quale si confronta che ne innalza notevolmente il livello?), una sua filosofia sintetizzata nelle regole de ‘il calcio secondo Cascione’, un suo modo di osservare e descrivere la realtà circostante che è irresistibile: poiché mi prendo le cotte più di chi mi fa ridere che dei belli, eccomi persa per Cascione. Il quale Cascione in realtà è inconsapevolmente comico, perché a dire il vero lui si prende molto sul serio, crede fermamente nella missione impossibile di portare alla salvezza la squadra di provincia che gli è stata affidata, anche se è più un’accozzaglia di dilettanti o di calciatori ormai in declino, che un vero team sportivo. Ed è questa sua fede incrollabile, unita alle sue ‘regole’ e alla disperazione dei suoi giocatori, che lo riscatteranno in qualche modo.
I personaggi che ruotano intorno a Mister Cascione sono tutti caratterizzati in modo inequivocabile: riconoscibili in tipi comuni, eppure con peculiarità che li rendono unici, affollano la fauna umana che circonda Vanni, dal manager Lucio Magia, al guardiano del campo Mimì, ai giocatori (vabbè, giocatori…), alla già citata Lucia, alla figlia Chiara, cuore di papà, nata per contraddire la quarta regola del calcio secondo Cascione, quella che recita ‘le donne non capiscono un cazzo di calcio’. Proprio Chiara, biondina dagli occhi chiari in cui papà Vanni si perde di tenerezza, è la figura che più colpisce, non tanto in se stessa quanto nell’effetto che fa sul padre: le parole più belle sono per lei, il sentimento forte di padre traspare in tutti gli sguardi e in tutti i pensieri del protagonista. Il fatto che uno scrittore giovane come Marsullo (ha appena ventotto anni!) sia stato capace di sentire e far sentire al lettore l’amore di padre e figlia che emerge ogni volta che Vanni e Chiara sono in scena, è sorprendente.
Com’è sorprendente in generale questo esordio letterario, battezzato da un editore importante come Einaudi (in realtà non si tratta proprio di un esordio, Marsullo ha già pubblicato nel 2009 per l’editore Noubs la raccolta di racconti “Ho Magalli in testa ma non riesco a dirlo”). Da lettrice sostengo da tempo che per essere uno scrittore non basti saper scrivere: bisogna avere le storie perfette, i personaggi speciali, l’intuizione per la circostanza particolare, i luoghi e i tempi giusti. Mi sembra di percepire che questo sia il caso di Marco Marsullo: la sua scrittura brillante, precisa, curata nei minimi dettagli sembrano più un dono naturale che perizia studiata. Insomma, sembra che scrivere così a Marsullo venga naturale. Con queste premesse il peso di una ulteriore prova narrativa può essere insopportabile, ma confidiamo, da lettori, nella sua freschezza e anche un po’ nella sua incoscienza.

lunedì 24 giugno 2013

Per #letturecondivise: "Dono dunque siamo"


Dono, dunque siamo. Otto buone ragioni per credere in una società più solidale

Autore   : AA.VV.
Dati: 2013, 142 p., brossura
Editore: UTET (collana Dialoghi sull'uomo)


"A un uomo la signora regali una gamma di sorrisi,
ma di più sostanzioso nulla, nemmeno se è suo marito"
(Elena Canino, “La vera signora. Guida pratica di belle maniere”, Longanesi 1952)

Simona Scravaglieri (@LeggendoLibri, qui un suo commento) ed io ci siamo recentemente misurate con la lettura contemporanea del saggio “Dono dunque siamo”, edito da Utet, che raccoglie lo spirito degli interventi del festival antropologico Dialoghi sull’Uomo di Pistoia, edizione 2012. Sotto l’hashtag #letturecondivise abbiamo sintetizzato, nei canonici 140 caratteri di Twitter, le parti che dei vari saggi pubblicati ci hanno più colpito, ridisegnandone contorni e stimoli di riflessione; alla discussione (partita l’11 giugno u.s. e che, sintetizzata, si può trovare qui) hanno partecipato @UtetLibri, @DialoghiPistoia, @IsaInghirami, @FramariaTedesco, @LunaOrlandoG, @unblogdiclasse, @lukogene.
Una raccolta di saggi, in realtà, questo “Dono dunque siamo”: e sono saggi accessibili a tutti, caratterizzati da un’argomentazione fluida, facile da seguire, nonostante gli autori siano diversi, tanto che sembra evidente l’intento di uniformità stilistica, con l’obbiettivo comune di raggiungere molti lettori, anche i meno avvezzi alla saggistica. Ulteriore aiuto viene dal tema trattato, quello del dono, e già una scorsa all’indice dà l’idea dei punti fondamentali in cui l’argomento viene sviscerato: dono come nodo, dono come futuro della solidarietà, come  perdono, dono vs obbligo della reciprocità con tutto ciò che ne consegue. Non mancano le curiosità: in particolare il saggio di Stefano Bartezzaghi ci conduce attraverso sonetti monovocalici, incursioni tra Eco e Calvino, filosofia e regole che il bon ton impone(va) in materia di regali, facendo ricorso a Elena Canino, giornalista e scrittrice scoperta da Leo Longanesi, autrice di “La vera signora. Guida pratica di belle maniere” del 1952. Attraverso i contributi di economisti, filosofi, antropologi, psicanalisti (Marco Aime, Zygmunt Bauman, Laura Boella, Salvatore Natoli, Marino Niola e Stefano Zamagni), si scopre il dono come forma di solidarietà, come volontariato e gratuità, come lievito della vita (non solo in senso metaforico, ma anche come base dell’alimentazione, topos ideale del ruolo femminile, da sempre portatore di nutrimento come amore), come punto nevralgico di dinamiche di scambio, come bene economico, come possibilità di remissione, tema mai così attuale come adesso che racchiude l'ansia di rigenerazione e di rinascita spirituale.
Una lettura scorrevole e appassionante, ricca di spunti di pensiero che arricchiscono il lettore: un autentico dono, insomma. 

martedì 11 giugno 2013

Ultima lettura: "Io che amo solo te" di Luca Bianchini

Io che amo solo te

Autore: Bianchini Luca
Dati: 2013, 262 p., brossura
Editore:  Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri) 


Questo romanzo di Luca Bianchini è garbato. Non semplicemente nel senso di gentile, cortese; ma come lo direbbe mia madre, che è originaria di Fasano, poco distante dalla zona tra Polignano a Mare e Monopoli dove si svolge la storia raccontata da Bianchini, e cioè ‘per bene’. Capisco che sia difficile capire cosa significhi ‘per bene’ attribuito a un romanzo, ma è la prima definizione che mi è venuta in mente mentre lo leggevo e appena ho chiuso il libro sull’ultima pagina.
La vicenda si concentra in tre giorni, quelli della vigilia e del matrimonio di Chiara e Damiano, figli rispettivamente di Ninella e Mimì, innamorati a loro volta da giovani e separati dalle famiglie, in una sorta di conflitto tra Montecchi e Capuleti.
La vera protagonista è Ninella, la sarta più brava del paese, vedova giovanile e piacente madre della sposa e di Nancy, diciassettenne in attesa di perdere peso e verginità che “per lei avevano quasi la stessa importanza”. Gli altri (gli zii arrivati dal Veneto, Vito Photographer, Pascal parrucchiere della sposa e regista del ricevimento di nozze, Orlando e l’Innominato, Giancarlo Showman e tutti gli altri), pur dando vita a quadri autonomi in cui si esprimono personalità variegate, impegnate in dialoghi frizzanti e scene anche esilaranti, sono tutti in secondo piano rispetto a lei e ai suoi colpi di sole, opera di Lucia Coiffeur, all’abito di rosso chiffon che indosserà al matrimonio della figlia, alla fermezza del suo carattere, al suo fare diplomatico, al suo essere disincantata e allo stesso tempo al suo camminare per strada come una ragazzina, stando attenta a pestare le fughe tra le ‘chianche’ della pavimentazione del centro storico dove vive, davanti al mare. Ninella si confronta con i ricordi senza indulgere al rimpianto, cosa che invece fa Mimì, il re delle patate, ricco imprenditore agricolo costretto a sacrificare la sua felicità e quella della donna che amava a vent’anni. Lei spavalda si offre alla comunità del paese, cammina a testa alta, bella e fiera, facendo impallidire la figura di Mimì.
A fare da contraltare a Ninella è Matilde, la First Lady moglie di Mimì, fissata con le cialde aromatiche di caffè (la vecchia moka è decisamente demodé e denota un tenore di vita mediocre, non degno di quello che gli Scagliusi hanno raggiunto), vero direttore artistico del matrimonio di Chiara e Damiano: dal vestito della sposa alle bomboniere, dal menù del ricevimento alla gestione dei rapporti con la consuocera, che però dal confronto esce sempre splendidamente vincente.
E il mare è l’altra presenza importante in questa storia, smeraldo fuso davanti al terrazzino sferzato dal vento di maestrale, dove Ninella si rifugia a fumare, in solitudine per sfuggire alla presenza a volte soffocante di tutti coloro che affollano la sua casa, alla vigilia del matrimonio di Chiara. E come il mare, gli ulivi, il paesaggio di quella striscia pugliese, stretta tra Adriatico ed entroterra, dove l’azienda di Mimì produce le patate che esporta in tutto il mondo.
Per chi conosce i luoghi che Bianchini racconta è vederli: vedi i colori (il bianco delle case assolate, il rosso della terra, il verde azzurro del mare), non li immagini. Senti gli odori e i rumori della strada, le persiane che si aprono per spiare chi passa nella controra.
La scrittura di Bianchini è fluida, gli inserti in dialetto, poche espressioni perfettamente comprensibili, colorano le scene, le rendono realistiche esattamente come i riferimenti di tipo mediatico fanno sentire la vicenda come accaduta a nostri vicini di casa: Clio Makeup, Kate Middleton (la sposa del secolo, almeno fino alla prossima) solo per citarne un paio.
Un libro che si fa leggere con divertimento e partecipazione, questo “Io che amo solo te”: un romanzo che rispecchia la personalità di chi lo ha scritto.

domenica 9 giugno 2013

Pier Paolo Pasolini e i suoi “Scritti corsari”: ancora twitteratura.


“Abbiamo perso prima di tutto un poeta
e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo,
ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo.
Quando sarà finito questo secolo,
Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeti.
Il poeta dovrebbe esser sacro.”
(Alberto Moravia, dall’orazione funebre per Pier Paolo Pasolini,
Casarsa della Delizia, 6 novembre 1975)

Una nuova operazione di riscrittura tramite tweet è in partenza, grazie all’iniziativa di Pierluigi Vaccaneo, Hassan Bodgdan Pautàs e Paolo Costa. 
il tweet segnale orario del giorno 8 giugno

Stavolta è il turno di “Scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini. Tra il 1973 e il 1975 lo scrittore friulano collaborò con il Corriere della Sera scrivendo una serie di articoli su argomenti di politica e società, raccolti in seguito in due volumi: uno, questo “Scritti corsari” al centro della nuova esperienza di twitteratura (#Corsari sul #Corsera!), prima della morte dello scrittore avvenuta nel novembre 1975, l’altro, “Lettere luterane”, uscito postumo nel 1976.
Il progetto è stato presentato dagli ideatori a Torino lo scorso 19 maggio, in occasione del Salone del Libro, in una cornice di festa a cui hanno partecipato numerosi Titani e riscrittori di #Leucò, riuniti per un bilancio dell’esperienza appena conclusa con le scritture pavesiane.
Pierluigi Vaccaneo, Paolo Costa, Michele Aquila, Hassan Bogdan Pautàs
 Si prevedono venticinque sessioni di riscrittura tramite tweet, ciascuna della durata di due giorni. Ogni sessione sarà avviata, da domani e fino al 29 luglio, da uno starter tweet, curato dal Corsaro che avrà adottato ciascun articolo: la riscrittura, nel suo farsi, sarà seguita e coordinata quindi da una persona, che poi raccoglierà i tweet sulla piattaforma Tweetbook, applicazione che permette di creare e condividere libri basati su Twitter, ideata da U10 nel febbraio 2012. Le differenze con l’esperienza precedente di #Leucò sono tutte qui: la durata delle sessioni, accorciata di un giorno per favorire la sintesi e la concentrazione, evitando possibili sfrangiature -inevitabili quando tutto o quasi è stato detto-, e la piattaforma di raccolta dei tweet (abbandonato Storify, si sperimenta appunto Tweetbook).
Ma perché Pier Paolo Pasolini? Dopo Cesare Pavese forse i riscrittori di #LunaFalò e #Leucò si aspettavano un autore vicino allo scrittore delle Langhe, ad esempio Fenoglio, o ancora einaudiano, ad esempio Calvino. E invece cinguetteremo in 140 caratteri su Pasolini.
Una scelta coraggiosa da parte di Pierluigi Vaccaneo, Hassan Bodgdan Pautàs e Paolo Costa: già avvicinare i lettori ad un testo difficile come i “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese (e averne poi uno straordinario riscontro popolare che ha dato loro ragione) è stata una grande sfida, adesso si alza l’asticella, il salto è se possibile più alto, soprattutto perché ci misureremo con testi che andranno innanzitutto contestualizzati nell’epoca in cui furono scritti, anni politicamente intensi e difficili, i primi Settanta del secolo scorso. Solo dopo sarà possibile astrarne le regolarità, gli universali ancora oggi riconoscibili nella società.
Forse dovremmo partire dalle parole di Laura Betti: “Ecco perché decisi - insieme a lui, come sempre - di non accettare, di disobbedire, di dare scandalo, di denunciare cosa può accadere ad un uomo pulito ‘in un paese orribilmente sporco’. E cominciai a raccogliere tutte le condanne a morte che gli erano state decretate con l’accordo delle destre nere e delle sinistre nere che stavano dietro la rete, tra i morti viventi.” L’esigenza può essere quella di aiutarci reciprocamente ad aprire gli occhi su alcune realtà politiche e sociali, sconosciute a molti per questioni di età, attraverso la riflessione intensa e continua sulle parole di Pasolini, testimone appassionato di un periodo che forse solo adesso possiamo studiare in una dimensione storica, a distanza di quaranta anni e nonostante molte ferite ancora aperte che quella stagione ha provocato.
Trasformare testi argomentativi di tanta intensità e passione, articolati e complessi pur nella loro linearità (Pasolini sentiva la missione civile dell’educazione e per questo non poteva essere che chiaro, rigoroso e limpido per poter raggiungere tutti) in un serio gioco letterario, modello di divulgazione culturale attraverso un social network, sembrerà azzardato. Noi Corsari e tutti i riscrittori che vorranno cimentarsi nella lettura collettiva e nella riscrittura degli “Scritti corsari” siamo sicuri che anche stavolta la sfida sarà vinta e molte persone che hanno conosciuto Pasolini per i suoi versi e i suoi romanzi, avranno finalmente un approccio completo alla sua opera.
Da domani seguiremo il primo Corsaro, @atrapurpurea, sotto l’hashtag #Corsari.
 
Qualche approfondimento qui:

mercoledì 5 giugno 2013

Ultima lettura: "Ti prego lasciati odiare" di Anna Premoli


Ti prego lasciati odiare

Autore: Premoli Anna
Dati: 2013, 318 p., rilegato
Editore: Newton Compton (collana Anagramma)

Come funziona il #passaparola: se un amico ti dice di leggere un libro importante,
quel libro va di parola in parola @nazioneindiana #SalTo13
(dal mio Twitter, detto da Francesco Forlani di NazioneIndiana,
a BookToTheFuture, Salone del Libro di Torino 2013)

Confesso, ho un passato di lettrice di romanzi rosa. Con una zia ‘signorina’ (all’epoca si diceva così) che ne comprava a pacchi, quelli che arrivavano in abbonamento o si prendevano in edicola e prima degli Harmony, di cui anche ho fruito in modo consistente, sempre grazie alla zia. Molto prima degli Harmony, ci sono stati i romanzi di Liala e di Delly. E poi la serie dei Romanzi Rosa mensili della Mondadori, la zia li conservava dagli anni Sessanta in uno scaffale della sua libreria nello studio: d’estate saccheggiavo quei libretti, i nomi delle autrici ritornavano spesso, forse erano pseudonimi, il direttore responsabile era Paolo Emilio D’Emilio. In appendice la piccola posta dei “Rosa” con la “piccola borsa nera dei Rosa” che ospitava gli scambi tra le lettrici; in chiusura giochi enigmistici. Si trattava di romanzi veloci ma intensi, con storie articolate, personaggi ben delineati, situazioni verosimili, ovviamente molto romantiche. Sorprendentemente, forse, nessuno stereotipo. Qualcuno di quelli li ho letti più volte, in particolare quello della foto che pubblico qui, “Il male che ti ho fatto” di Elisa Trapani, sottratto alla zia e gelosamente conservato nella mia libreria.

Indubbiamente il genere rosa risponde da sempre ad una esigenza precisa, quella di nutrire di fantasie schiere di giovani e meno giovani donne, sia che attraversino l’età delle trasformazioni, in cui si diventa donne e si immagina di essere protagoniste di storie d’amore eccezionali, sia che la vita vera abbia già fatto capire che i sogni sono desideri non sempre si realizzabili. Convinta che la moda degli Harmony et similia fosse in declino, mi sono ultimamente imbattuta in un paio di romanzi piuttosto sconcertanti, che mi hanno obbligato a riflettere sul fenomeno del tam tam via web che genera spesso mostri letterari, che crescono a dismisura tra l’incredulità dei lettori più critici e l’entusiasmo di chi forse ha davvero bisogno di letture tanto banali quanto approssimative.
Il caso più eclatante forse è quello di “Ti prego lasciati odiare” di Anna Premoli, una giovane signora che, per distrarsi da una gravidanza un po’ difficile durante la quale è costretta al riposo, si mette a scrivere una storia d’amore. Suo marito si entusiasma e le confeziona un ebook che lancia in rete. In breve tempo, tramite il passaparola, il romanzo conosce uno straordinario successo popolare, finché non viene intercettato da Newton Compton che lo promuove in grande stile, come in ogni favola che si rispetti. Bastava essere a Torino all’ultimo Salone del Libro per rendersi conto del battage pubblicitario allestito intorno a questo romanzo, peraltro in precedenza presentato in diverse altre sedi, compresa Radio2 (nella trasmissione“Ventotto minuti” di Barbara Palombelli, che ha intervistato l’autrice provocando la mia curiosità). In questo, solo dopo aver letto il romanzo, mi sono chiesta se a determinare il successo di un libro autopubblicato conti il numero dei download più che la qualità oggettiva della scrittura.
Gli ingredienti sono semplici: una giovane donna fisicamente incolore, ma bravissima e agguerritissima sul lavoro (ovviamente prestigioso), in contrasto con un bellissimo ricchissimo collega (manco a scommetterci, nobile) con il quale sarà costretta a lavorare gomito a gomito loro malgrado per un importante progetto e del quale nemmeno a dirlo si innamorerà, nonostante strenui tentativi di resistenza. Ma si sa, amor vincit omnia, quindi il lieto fine è scontato dalla seconda pagina. Un po’ Cenerentola, un po’ Bridget Jones (ma molto meno simpatica, nonostante la comunanza di biancheria intima dozzinale che dovrebbe farcele sentire entrambe vicine, come se portare le mutande della nonna fosse norma assai diffusa tra le donne comuni), Lei si muove tra la City londinese, la campagna circostante, dove vive la sua famiglia (vegani fanatici che dicono frasi del tipo “Noi non parliamo mai di argomenti frivoli”, fortemente razzisti nei confronti dei ‘ricchi’ che disprezzano apertamente), e il maniero di famiglia di Lui.
Non si capisce la necessità di un’ambientazione simile: non ci sono particolari che giustifichino Londra, che rendano riconoscibile il paesaggio britannico, la vicenda si potrebbe svolgere tra Milano e la Brianza e nulla cambierebbe, anzi forse l’autrice avrebbe reso con più convinzione il contesto in cui far muovere i suoi protagonisti (sempre meglio parlare di ciò che si conosce bene).
La trama è esile, più che altro si tratta di quadri che si susseguono, punteggiati da dialoghi piccati e pungenti, in una schermaglia noiosa e scontata, che non consente scarti. I personaggi sono stereotipati (le amiche impiccione, la possibile futura suocera snob, la famiglia invadente), con caratteri contraddittori, che evidenziano scarsa coerenza del testo: il fratello di Lei, intransigente e assolutamente contrario ad una possibile relazione della sorella con quel Lui, al ritorno da un periodo di lavoro all’estero, inaspettatamente le diventa solidale, senza che niente giustifichi il suo nuovo atteggiamento.
Quindi torno alla considerazione iniziale, sulla necessità del genere rosa di rispondere a bisogni precisi di un’utenza però assai meno delineabile di quanto non potesse essere trenta/quaranta anni fa. Basta fare un giro sul web per imbattersi in commenti entusiasti (molti) o fortemente critici (decisamente di meno, anche se non li ho contati), non esistono vie di mezzo. Quindi mi chiedo, e chiedo, quali lettrici (e non a caso restringo il campo alle sole donne) accolgono con favore un romanzo come questo? Che tipo di donne sono, che sogni nutrono, soprattutto che standard hanno in quanto lettrici? Cosa si aspettano da una storia d’amore?
E se le domande sulle lettrici (o, in generale, i lettori) salgono prepotentemente, cosa dire degli scrittori? Cosa fa di uno scrittore un vero scrittore? Come orientarsi nella giungla del selfpublishing, in cui si muove una fauna variegata, dove distinguere i veri talenti rischia di essere difficilissimo? E ancora: che lavoro fanno gli editori oggi? Possono ancora contare su una selezione che premi chi davvero merita, per originalità di contenuti e/o di trovate stilistiche, salvo prendere anche qualche granchio o fare clamorosi errori di valutazione (a questo proposito un interessante contributo è quello di Simona Scravaglieri nel suo blog [...]Non domandarci al formula che mondi possa aprirti[...])?

Postilla 1: io voglio solo storie d’amore infelici, vicende tristemente tormentate, altrimenti non riesco a tifare per nessuno dei protagonisti, nel bene e nel male.
Postilla 2: l’altro romanzo sconcertante in cui mi sono imbattuta è dell’esordiente Vittoria Coppola, “Gli occhi di mia figlia”, lanciato on line dalla rubrica del Tg1 “Billy” e successivamente proclamato libro dell’anno 2012. Nel frattempo l’autrice ha dato alle stampe il suo secondo romanzo “Immagina la gioia”. Di “Gli occhi di mia figlia” non riesco a dire nulla.