giovedì 28 aprile 2016

"Chi si applica gode" di Piero Sansò


Chi si applica gode


Passo il tempo a guardare il mondo
ho perso la poesia
da quando frequento i bassifondi
e non vivo più in bacheca
ditemi perché
hanno tutti un cazzo di telefonino
e uozap per scambiarsi due parole
allora sono uscito in bicicletta
- il ciclista per definizione guida
con concentrazione -
e penso a quanto sia meno complicato
pedalare e pensare
che ciattare e telefonare
malgrado il blutut
tanto in bici non si capisce
malgrado il pensiero fisso
che in bacheca scorra impietosa la vita
le foto dell’ultima gita
del pranzo più riuscito
dell’ultima bevuta
e tu lì a pedalare
inutili riflessioni solitarie
ad odorare inutilmente
i fiori di passaggio
a sentirti così libero e bello
e non condividerlo.
Come si sta
a leggermi
su queste fottute bacheche
capite il corto circuito
non posso esistere altrimenti
l’ho declamato al vento
agli animali dei campi
ignavi
senza un profilo su feisbuc
cazzo campano a fare
arriverà il giorno
che getteremo questi corpi
al cesso
mangeremo in wireless
e ci  vedremo tutti
attraverso schermi
in orgiastiche condivisioni
democratiche
a trecentosessanta gradi
lasceremo il cervello
a ingozzarsi di patatine fritte
e altri grassi saturi in wi-fi
mentre i nostri avatar scultorei
si accoppieranno
su instagram
sul ponte dei sospiri
faremo mutui
per nuove applicazioni
indispensabili
per fare cose vecchie
con metodo nuovo
un app per mangiare
un app per scopare
un app per eliminare gli amici
un’altra per farsene di nuovi
con connessioni sempre più veloci
e chi mette troppo tempo
a rispondere alle messaggerie
verrà condannato a morte
come chi andrà a comprarsi un gelato
senza fargli poi una bella fotografia.
Son tempi difficili, questi
son tempi che è ancora possibile
spegnere l’interruttore
e uscire
qualche volta sparire
ma arriverà un giorno
di videosorveglianze felici
dove tutti faranno la coda
per essere ripresi
dove tutti vorranno
un gps che lanci il suo segnale
dove nessuno avrà voglia
di starsene in silenzio
per i fatti propri
se non per finire su youtube
o sull’Isola dei famosi.
Saranno tempi favolosi
e per questo
sin d’ora
ci applichiamo.
21.04.2016

©pierosansò



venerdì 22 aprile 2016

Ultima lettura: "Ruggine" di Anna Luisa Pignatelli


Dalla volgarità nasce la malvagità,
la follia del male che non era
 che ingordigia, egoismo, presunzione.

Gina, detta Ruggine per l’attaccamento che ha al suo gatto Ferro (“So’ attaccata a lui come la ruggine al ferro, è proprio vero”) è un’anziana donna che vive a Montici, in Toscana, in compagnia dell’unica creatura capace di mettersi in relazione con lei, un gatto color fuliggine che sul petto “dava in un rosso aranciato come una patine di ruggine” e che “la guardava meditabondo, come riflettesse su di lei, e passavano lunghi momenti occhi negli occhi, ricavando dalla presenza dell’altro coscienza di sé”. Gina è guardata con sospetto e malvagità dai suoi compaesani, per via di un fatto torbido di cui è stata vittima a causa del figlio Loriano, un giovane disadattato che dopo la morte del padre aveva rivolto verso di lei attenzioni morbose e che per questo era stato allontanato e ora è ricoverato in una casa famiglia.
Il suo essere per niente integrata nella comunità, il suo vivere ai margini, fa di Gina una solitaria suo malgrado, una diversa, una che per poter parlare con qualcuno ha bisogno di fare qualche piccolo acquisto alla bottega del droghiere, amico del padrone di casa che la vuole sfrattare (“Quando entrava in una bottega con l’intenzione di comprare, il padrone lo capiva subito e le sorrideva. Era per lei un’occasione di dire: «Buongiorno». E anche: «Forse oggi pioverà». Sentirsi dire in cambio: «Chissà», oppure: «Di certo pioverà», le dava un senso di potere e di appagamento, quasi fosse riuscita a sedurre l’interlocutore inducendolo a darle una risposta. […] Era sempre Gina a dire per prima «buongiorno», «buonasera» e spesso non le rispondevano, come fossero a conoscenza di qualcosa di grave di cui le attribuivano la colpa. Qualcosa che sentiva latente dentro di lei, come un insetto addormentato pronto a pungerla nell’anima.”).
E quella gente che la respinge è la stessa che passa il tempo a spiare dietro le persiane e a piazzarsi sotto le finestre per sentire cosa succede nelle case degli altri.
Leggere questo breve romanzo significa essere trascinati in fondo a un pozzo nero di tristezza da concetti che si ripetono e che sono i nuclei portanti della vicenda umana di Gina (i dolori fisici, la schiena curva e le gambe che non rispondono come dovrebbero, l’affronto insano del figlio, il cui il disagio psichico e morale è l’origine di tutto il male, il rapporto con il marito morto da anni ma continuamente rievocato, l’emarginazione e la solitudine); tuttavia l’angoscia, il dispiacere e la partecipazione solidale alla storia di Gina non impediscono il piacere della lettura e Anna Luisa Pignatelli offre lo spunto per recuperare un narrare realistico quasi di impronta verghiana, raccontando un mondo arcaico nei modi e nelle dinamiche sociali, eppure non lontano nel tempo e nello spazio. Un riferimento al romanzo di Dino Buzzati "Il deserto dei Tartari" riporta a un’idea di solitudine che però è molto diversa da quella di Gina: mentre il protagonista del romanzo di Buzzati trascorre una vita aspettando invano che accada qualcosa alla Fortezza Bastiani, comunque animato da una speranza, Gina non aspetta nulla, non desidera nulla. E chissà perché Tamara, la figlia del droghiere che ogni tanto passa a farle visita, porta da leggere a Ruggine proprio la storia del tenente Drogo.

(Attualmente l’eBook è disponibile sui principali store online a € 2,99, un’occasione da non lasciarsi sfuggire.)
 
Photo HelenTambo on Instagram


Ruggine
Autore: Anna Luisa Pignatelli
Dati: 2016, 151 p., brossura; eBook 685,9 KB
Editore: Fazi (collana Le strade)
Prezzo: € 16,00 cartaceo; eBook € 7,99
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

lunedì 18 aprile 2016

"La vita vera" di Rita Lopez


La vita vera
 (liberamente tratto da un fatto di cronaca accaduto a New York il 1° maggio 1947)

Fotogramma dal video The Most Beautiful Suicide- Evelyn McHale 1947 YouTube
(Trenton, 66 miglia circa da New York, Casa di Cura psichiatrica,
Aprile 2007)

Rileggo con estenuante fatica le pagine, ormai ingiallite, scritte in quei giorni frenetici e deliranti in cui la mia vita è cambiata in maniera irreversibile, per diventare vita vera soltanto durante il sonno e stato di insopportabile incoscienza durante la veglia.
La mia vista è peggiorata e questo maledetto e costante tremore delle mani, mentre cerco di avvicinare i fogli di carta agli occhi, rende ancora più difficile la lettura.
La mia vita è stata un sogno: così dicono i medici della clinica psichiatrica in cui sono in cura da più di 30 anni.
Nel senso che per vivere ho avuto bisogno di chiudere gli occhi e sognare.
Solo nel sogno vivevo e nel sogno ritornavi a vivere anche tu.
Svegliarmi, essere catapultato in quello che chiamano “stato di coscienza”, rendermi conto della nuova realtà, è sempre stato inconcepibile e intollerabile da allora, da quel giorno che ti ho incrociata per strada, quella mattina del 1 maggio 1947, a pochi metri dall’ingresso dell’Empire State Building.
Non conoscevo neanche il tuo nome.
Solo in seguito ho letto sui giornali che ti chiamavi Evelyn.
Eri tu. Eri Evelyn.
La mia Evelyn.
La donna con cui avrei passato il resto della mia vita sognata.
La “ragazza dei miei sogni”, nel senso più ironicamente tragico e vero della parola.
Tutti pensano che io sia pazzo.
Ma che importa! La mia vita riprende ogni volta che mi addormento e sogno di te, Evelyn.
Sessanta anni di vita con te, oramai.
Sognata? Reale? Che importanza ha?


(New York, 1 maggio 1947)
Stamattina.
Stamattina la mia vita è stata inesorabilmente stravolta. Lo so.
Niente tornerà più come prima. E’ così. Sono perfettamente conscio del fatto che c’era un prima.
E sono perfettamente conscio che d’ora in avanti non sarà mai più la stessa cosa.
Questa vita non sarà mai più la stessa.
Questo mondo non sarà mai più lo stesso.
Né io sarò mai più lo stesso.
No, Robert Wiles non sarà mai più lo stesso.


(N.Y., 2 maggio 1947)
Non ho chiuso occhio stanotte, non sono riuscito a dormire.
Devo riordinare le idee. Devo. Per non impazzire.
Dunque, ieri mattina c’era il sole, aria tersa, niente nuvole, la luce giusta.  
Mi è venuta voglia di andarmene in giro a scattare foto per conto mio, e così avevo sistemato la mia Contax in un sacchetto di tela impermeabile, insieme a due rullini e a un paio di obiettivi. Camminavo a passo spedito sulla 5th Avenue, dopo essere sceso alla fermata della metro in Times Square.
Ricordo che ero diretto al Madison Park. Avevo intenzione di ciondolare là per un po’, tra gli alberi e le aiuole in fiore, scattare foto fino a quando non avessi avuto fame, e poi scroccare il pranzo a Peter, studente del mio stesso corso di fotografia, che abita proprio a due passi dal Gramercy Theatre.
Questo pensavo, Dio mio! Solo questo pensavo.
Ho attraversato la 34esima Strada. Ed è là che l’ho vista.
Stava svoltando l’angolo. Era distratta. Mi è venuta addosso facendomi quasi cadere la sacca di tela con la Contax. Un rullino è scivolato per terra, rotolando verso i suoi piedi.
Ci siamo fermati. Entrambi sorpresi. Ci siamo guardati negli occhi.
Uno-di fronte-all’altra.
I suoi occhi, mio Dio! I suoi occhi azzurri di cielo dentro i miei.
“Mi spiace”, ha sussurrato.
“Si figuri”, le ho risposto.
Mi sono chinato a raccogliere il rullino che aveva cessato la sua corsa proprio accanto al tacco della sua scarpa sinistra.
Ho ammirato le sue caviglie. Sono risalito con lo sguardo su per le gambe, coperte fin sotto le ginocchia da una gonna a pieghe color pesca. E poi più su. La curva leggiadra dei fianchi, la vita sottile, fasciata dalla giacca stretta e sfiancata del tailleur, la lunga collana di perle bianche, il collo immacolato, la bocca rosso cremisi, fino a posarmi inebriato, ancora una volta, sui suoi occhi.
E nei suoi occhi sono finalmente precipitato. Nel baratro azzurro dei suoi occhi.
Sarei rimasto lì per ore; sarei rimasto lì per il resto della mia vita.
Dopo un tempo che non so quantificare, ha distolto improvvisamente lo sguardo, quasi con una rapida scossa nei movimenti, e ha proseguito il suo cammino.
L’ho vista infilarsi come una gazzella sperduta all’interno dell’Empire State Building, velocemente inghiottita dal buio e mastodontico ingresso.
Ho pensato: “Seguila, idiota, seguila! Offrile un caffè. Fai qualcosa, diamine!”
E invece sono rimasto lì, fermo, impalato, ancora ubriacato del suo profumo, ancora stordito dall’azzurro dei suoi occhi.
 “Ok”, mi sono detto, “ok, brutto idiota. Ora aspetti qui, buono buono, fino a quando non esce da quel dannato palazzo e le parli”.
Sono entrato da Heartland Brewery, lì di fronte, e mi sono seduto a bere una birra.
Non staccavo lo sguardo dall’ingresso dell’Empire State Building.
Non sapevo cosa le avrei detto. Ma qualcosa le avrei detto. Oh sì! Mi sarei inventato qualsiasi cosa, questo era certo.
Ho ordinato una seconda birra.
Forse saranno passati 20 minuti. Mezzora. Non di più.
Ero deciso ad aspettare. Anche una vita intera.
Poi un’esplosione tremenda. Un tonfo inconfondibile di lamiere. Vetri frantumati. Un boato agghiacciante.
Dalla vetrata colorata dell’Heartland Brewery, ho visto un mare di gente correre sul marciapiede di fronte.
Anche dal locale si sono catapultati fuori.
Persino il barista dietro il bancone, presso il quale ero seduto. Persino il cassiere.
Sono uscito anch’io. Allibito. Frastornato.
Un folto gruppo di persone era accorso attorno ad una Limousine nera, parcheggiata proprio sotto l’Empire State Building.
Mi sono avvicinato. Il cuore ha iniziato a battermi all’impazzata.
Il tetto della Limousine era completamente accartocciato.
L’impatto tremendo aveva distrutto i vetri dei finestrini.
Sul tetto dell’auto, il corpo di una donna.
Ho riconosciuto subito il suo tailleur color pesca.
Mi si è fermato il cuore.
Ho smesso di respirare.
Mi sono avvicinato ancora di più.
Ho visto la mia vita reale, quella che chiamano “vita reale”, per l’ultima volta, sull’orlo di un baratro senza ritorno.
Era lì. La mia ragazza era lì, adagiata sul tetto lucido della Limousine, spiegazzato come una calda ed accogliente coperta, ad avvolgerle il corpo aggraziato.
Disarmante nella sua calma compostezza, sembrava dormisse.
Sì, sicuramente dormiva.
Alle mani portava dei guanti color panna. Non li avevo notati prima. Le dita della mano sinistra intrecciate nella collana di perle, quasi in una posa studiata e maliziosa. Le caviglie superbamente incrociate. Aveva perso le scarpe.
Così meravigliosamente bella. E quieta. E placida. E composta.
Solo le lamiere contorte facevano presagire la violenza inaudita dell’impatto.
Non ricordo a cosa ho pensato.
Non ricordo per quale motivo ho aperto la sacca di tela, ho afferrato la mia Contax, ho scattato una foto.


(N.Y., 4 maggio 1947)
Non riesco a dormire.
Ho il recondito terrore che, addormentandomi, io debba intraprendere una strada senza ritorno.
Mi serve un medico.
Non riesco a dormire.


(N.Y., 6 maggio 1947)
Evelyn.
Ti chiami Evelyn.
Evelyn McHale.
Ti ho amata dal primo momento Evelyn.


(N.Y., 7 maggio 1947)
Devo sviluppare quel rullino.
Devo trovare il coraggio di sviluppare quel dannato rullino.


(N.Y., 8 maggio 1947)
Sono andato dal dottor Harris.
Mi ha prescritto dei sonniferi.


(N.Y., 9 maggio 1947)
Ti ho sognato Evelyn. Ho sognato come nella mia mente sarebbe dovuta effettivamente andare quella mattina del 1 maggio, quando non ho avuto il coraggio di fermarti ed ho lasciato che tu andassi via invece, determinata, verso il tuo oscuro proposito.
Finalmente dopo averti aspettato per circa mezzora, sei uscita dall’ingresso dell’Empire State Building, fiera e spedita come una regina.
Ti sono venuto incontro e ti ho chiesto timidamente se volevi prendere un caffè con me.
Mi hai sorriso. Hai detto di sì.
Siamo entrati insieme da Heartland Brewery.
Ci siamo seduti e mi hai sorriso di nuovo. Ero felice come un bambino.
Felice come un bambino.


(N.Y., 10 maggio 1947)
Non sopporto il momento in cui mi sveglio dal mio sonno forzato.
Mi sembra di essere proiettato violentemente in una realtà che non mi appartiene più.
Oggi, però, ho deciso di stampare la tua foto. Sono passati dieci giorni ormai.
Ogni volta che mi accingevo a farlo, c’era sempre stato qualcosa di immensamente e potentemente doloroso a impedirmelo.
Ma oggi pomeriggio, quando l’effetto dei sonniferi è passato, ho raccolto le mie forze e l’ho fatto.
Ho acceso la lampada. La luce è passata attraverso il condensatore posto sul negativo.
Ho impostato il diaframma e poi la messa a fuoco. Agivo come in uno stato di trance, quasi fossi sotto ipnosi.
Ho regolato il tempo di esposizione.
Credo che non mi rendessi conto di quello che stavo facendo.
Credo di aver agito come agisce un sonnambulo.
Mi ricordo anche di avere pensato: “Ma dormo o sono sveglio?”
Ho preso infine il foglio di carta e l’ho fatto passare nelle bacinelle. Come in una consueta magia, col passare dei secondi, ho potuto intuire la tua immagine che pian piano sarebbe comparsa.
Con la lentezza e la disperazione acquisita negli ultimi, consapevoli movimenti, di chi è stato condannato a morte e si trova ormai vicino al patibolo, ho preso la stampa e l’ho passata sotto l’acqua corrente.
Non mi restava che metterla ad asciugare.
Ho acceso la luce, ma continuavo a tenere gli occhi chiusi.
Non so dire quanto tempo ho aspettato.
Finalmente mi sono deciso: ho aperto gli occhi.
Evelyn… Mio amore… Evelyn...
Ho pianto. Calde, copiose, inconsolabili lacrime.


(N.Y., 11 maggio 1947)
Continuo a dormire tutto il tempo, grazie alle pillole del dottor Harris.
Sia benedetto il dottor Harris! E’ come aver trovato la strada, la scorciatoia, che mi porta dritto a lei.
Odio risvegliarmi.
Stamattina però, ero ben determinato ad alzarmi dal letto; ho preso la foto di Evelyn e sono andato a Broadway, presso la sede di Life, il giornale.
Che strano! Solo ora mi rendo conto di avere scelto un giornale che si chiama Life, Vita, quasi a voler sbattere in faccia al mondo la vita che per me, e per te Evelyn, non può non continuare.
In qualsiasi dimensione, conscia, inconscia, razionale o irrazionale, essa ci viene offerta.
Alla sede del giornale non credevano ai loro occhi.
Mi hanno guardato sbalorditi mentre me ne andavo con la mia Contax a tracolla.
Sono tornato a casa, ho preso i sonniferi e mi sono rimesso a dormire.


(N.Y., 12 maggio 1947)
Hanno pubblicato la mia foto, Evelyn. La mia foto di te che dormi sul tetto accartocciato della Limousine nera, perché in realtà tu dormi.
Hanno avuto la loro esclusiva, il loro scoop.
Io, invece, mi sono imbottito di pillole e ti ho sognato.
Seduti al tavolino, da Heartland Brewery, mi hai raccontato dei tuoi 23 anni.
Mi hai raccontato di essere nata in California, di essere la sesta di sette fratelli.
Mentre parlavi, nuotavo nei tuoi occhi azzurri.
Ho persino dimenticato il mio caffè, lasciandolo completamente raffreddare.
Le tue labbra rosso cremisi hanno avuto un impercettibile tremore nel momento in cui mi hai detto che, un giorno, tua madre abbandonò te e i tuoi sei fratelli e non si fece più rivedere.
“Se non vuoi parlarne non importa”, ti ho sussurrato con tutta la delicatezza di cui ero capace.
Hai sorseggiato di nuovo il tuo caffè e hai continuato.
Dopo aver peregrinato in lungo e in largo per gli States, con tuo padre e i tuoi fratelli, finalmente sei approdata a New York.
Hai trovato lavoro e anche un fidanzato, che abita a Easton, non lontano da qui, e il giorno prima eri stata da lui, per festeggiare il suo compleanno.
“Dovremmo sposarci a giugno”.
Hai abbassato lo sguardo mentre pronunciavi queste parole.
“Stamattina ho preso il treno”, hai continuato, “e sono tornata a New York”.
“E lo sposerai?”, ti ho chiesto a mezza voce.
Hai abbassato di nuovo lo sguardo. Hai sorseggiato ancora una volta il tuo caffè.

(N.Y., 13 maggio 1947)
Ho letto con grande fatica l’articolo pubblicato su Life.
Mi girava la testa e mi sentivo in preda ad un incubo.
Dice che sei salita all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building, dove è la piattaforma panoramica che guarda a 360 gradi tutta la città di New York.
Che hai piegato con cura il soprabito marrone che indossavi sopra il tailleur color pesca, posandolo sul parapetto della balconata.
Che hai lasciato anche la tua borsetta con alcune foto di famiglia e un taccuino nero.
Che ti sei lanciata nel vuoto.
Che nel taccuino nero era scritto il tuo messaggio di addio.
Che il messaggio diceva:
“Non voglio che nessuno, della mia famiglia o meno, veda alcuna parte di me.
Potete distruggere il mio corpo cremandolo?
Prego voi e la mia famiglia: non voglio nessun funerale o commemorazione.
Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno.
Starà molto meglio senza di me.
Dite a mio padre che ho preso troppe tendenze da mia madre”.
Nessuno di loro, Evelyn, sa che invece sei uscita dall’Empire State Building e sei venuta a prendere un caffè con me.
Nessuno sa che abbiamo chiacchierato insieme, comodamente seduti al tavolino dell’Heartland Brewery.
Nessuno sa che entrambi viviamo nei miei sogni e nei sogni ci parliamo.
Nessuno lo sa, Evelyn.
Ho afferrato le pillole del dottor Harris e ne ho mandate giù due.
Ho scelto di viver con te, anche se in un’altra dimensione.
E in fondo, chi ha mai dimostrato che la vita reale, la vita vera, sia quella che accade durante il  nostro stato di veglia e non invece nel profondo, recondito, misterioso abisso dei nostri sogni?

© RitaLopez

lunedì 11 aprile 2016

Ultima lettura: "Bella era bella, morta era morta" di Rosa Mogliasso


Prudenza, si autoprescrisse.
Meglio non toccare.
Anzi, meglio darsela subito a gambe levate, stabilì.

Sull’argine di un fiume che scorre in città, giace il corpo di una donna, bella ed elegante, inequivocabilmente morta e forse di morte violenta. Se ci si imbatte in un cadavere mentre si porta a spasso il cane, o si va a fare meditazione consapevole in riva al fiume, o ci si muove in quello che è diventato il nostro habitat riparato dai cartoni, o si decide di marinare la scuola e si va con il proprio amore adolescente a rollarsi una canna nel parco, cosa si fa? Si chiama la polizia? E a cosa si potrà andare incontro? Sono le domande che si pongono i protagonisti di questo giallo, che con la donna morta, bella e cadavere, ruotano intorno ad un mistero che non riguarda tanto chi ha ucciso la signora, ma le reazioni e le scelte di chi la trova tra i cespugli, sull’argine del fiume.
Carlotta Bitonti, figlia di macellaio e casalinga, faticosamente assurta agli onori di uno status sociale che la fa vivere vestita solo di seta (fa la commessa da Hermès ed è fidanzata con il rampollo di una famiglia molto in vista); Alfonso Petrucchetti –in arte Karuna-, massaggiatore e pranoterapeuta, fidanzato di Luigi Santacroce – attualmente in carcere- da cui è rimasto folgorato dopo averne soppesato le indubbie doti fisiche (l’incontro casuale è avvenuto con la complicità di un cornetto doppio schizzo, crema e cioccolato, specialità della pasticceria in cui Alfonso lavorava nei fine settimana, servizio notturno, prima di lasciare Roma per seguire Luigi al nord); Valentina e Lorenzo, due fidanzatini che hanno deciso che gli ormoni vanno assecondati e che quella è la mattinata giusta per concedersi l’amore e una canna fumata in santa pace nel loro angolo di parco preferito; il clochard che fa gli origami con le banconote e accetta solo moneta in elemosina: questi sono i personaggi che, come in un minuetto, incrociano il cadavere della donna e di volta in volta decidono di allontanarsene in attesa di decidere cosa fare, per poi ritornare sul luogo del ritrovamento, sempre sfiorandosi e quasi scambiandosi il posto sulla scena del crimine, a turno. E mentre decidono cosa fare, la loro vita scorre e a loro volta si intrecciano con altri personaggi, perfetti e precisi, incastonati in situazioni che non potrebbero essere diverse.
Rosa Mogliasso, con grande ironia, delinea caratteri e ambienti, circostanze e contesti che combinandosi perfettamente, disegnano una storia dal finale sorprendente, del tutto inaspettato.
Credo che uno dei generi letterari più difficili da scrivere sia il romanzo giallo, che deve essere chiaro in tutti i suoi passaggi e plausibile, deve tenere il lettore attento e in tensione e allo stesso tempo deve coinvolgerlo e renderlo spettatore protagonista. Se poi, oltre a uno degli ingredienti tipici del giallo- ad esempio un morto presumibilmente ammazzato-, si aggiunge una generosa dose di umorismo e una scrittura agile e fluida, divertente e trascinante, ci sono ottime possibilità che il romanzo voli. Anche perché, pur concedendo il sorriso e anche qualche risata, Rosa Mogliasso racconta una storia che rispecchia i tempi in cui viviamo, l’epoca in cui, nonostante la velocità con cui ci muoviamo, riusciamo a fermarci per decidere cosa conviene e non cosa è giusto, la società in cui i valori si sovvertono, in nome della difesa di un orticello sempre più angusto sempre più arido.
Due parole sulla collana (bella, bellissima!) ViceVersa le prendo direttamente dal sito di NN Editore e sono firmate da Gian Luca Favetto: “È tempo di scambi, cambi di direzione, andate e ritorni, corsi e ricorsi, inversioni e reciprocità: tempo di ViceVersa. Non più l’epoca per vizi e virtù impigliati in una scultorea definizione una volta per sempre: rigidi esatti rassicuranti.
Nella società contemporanea, dove tutto è più fluido, liquido, mutevole e rapido, anche i vizi e le virtù cambiano di posto, di faccia, di forma e di sostanza. Ma il loro motore rimane la passione. Ed è lì che andiamo a frugare. Da lì partono e ritornano i nostri ViceVersa, con le loro storie che sono specchi in cui osservarsi – riflettersi e riflettere, riconoscersi e sorprendersi.
L’idea è di assumere lo schema antico dei vizi e delle virtù, capitali e cardinali, come una sorta di Tavola di Mendeleev. E poi verificarla attraverso racconti del tempo presente. Ciascun autore scrive a partire da una virtù o un vizio, e nel corso del racconto lo modella, gli dà forma, delinea i sentimenti che lo nutrono. È un modo, anche, per mappare il sentire contemporaneo, e le sue ragioni. Per comporre una geografia dell’anima, a più voci.
Leggete questo libro e meditate, gente, meditate.

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Bella era bella, morta era morta
Autore: Rosa Mogliasso
Dati: 2015, 138 p., brossura
Editore: NN Editore (collana ViceVersa)
Prezzo: € 13,00
Giudizio su Goodreads: 5 stelline

lunedì 4 aprile 2016

#LeggoNobel: "Lo straniero" di Albert Camus


“Lei è giovane, e immagino che questo tipo di vita possa piacerle.”
Ho detto che sì ma in fondo per me era lo stesso.
Allora mi ha chiesto se non m’interessasse cambiare vita.
Ho risposto che non si cambia mai vita,
che comunque una vita vale l’altra
e che la mia lì non mi dispiaceva affatto.

Mi sono avvicinata ad Albert Camus con una sorta di timore reverenziale, quello che si ha per gli Autori importanti, che bisogna aver letto. Tanto più che ne rimandavo l’incontro da quando al ginnasio ne sentii parlare per la prima volta dalla  mia insegnante di Lettere
a proposito de “La peste”, libro che non ebbi il coraggio di leggere allora e che ancora non ho letto, a distanza di oltre trent’anni. Il primo tentativo di leggere Camus l’ho fatto con  "L'uomo in rivolta" , breve saggio che ben si adattava ad una lettura collettiva -.quella promossa dal gruppo di lettura Scratchmade su Facebook, all’indomani della strage parigina al Bataclan, rivendicata dall’Isis. Ma non era il mio momento per Camus e la lettura del libro scelto dalla maggioranza del gruppo di Maria Di Biase non era evidentemente adatto ad un primo approccio con questo autore, che quindi ho scoperto successivamente con “Lo straniero”, scelto per il progetto  #LeggoNobel.
Anche per questo romanzo ho risposto a un input esterno, per così dire, che poi è stata la curiosità derivata dalla citazione in “Atti osceni in luogo privato” di Marco Missiroli, e che poi ha guidato, almeno per il contributo che ne ho dato io, la scelta del titolo di Camus da proporre per #LeggoNobel, e che per il protagonista del romanzo di Missiroli rappresenta una lettura indispensabile nel suo percorso di maturazione.
Stavolta l’approccio è stato estremamente facile: “Lo straniero” si legge agilmente, si tratta di poco più di 150 pagine, per di più in un’edizione che presenta caratteri grandi che agevolano la lettura a chi comincia ad avere qualche problema di presbiopia (aspetto questo affatto trascurabile e motivo che ormai mi fa scartare a priori certe edizioni tascabili di difficile leggibilità). La sintassi è frammentata, la paratassi privilegiata, il discorso è a tratti quasi sincopato, anche se il ritmo costringe spesso a irritate soste, di effetto e (immagino) volute dall’Autore, il quale delinea la figura di un inetto nichilista, che si lascia vivere senza partecipare alla sua stessa vita.
Il protagonista, Meursault, vive ad Algeri e racconta in prima persona le vicende che lo investono, a partire dalla morte della madre in un ospizio e fino all’accusa di omicidio di cui deve rispondere in tribunale, per la morte di un arabo durante una lite in spiaggia. In mezzo c’è la narrazione di un periodo della vita dell’uomo, in cui si avvicendano persone e luoghi, senza che egli ne sia in qualche modo impressionato. Ciò che colpisce di Meursault è la sua continua dichiarazione di non essere interessato a discorsi, situazioni. Tutto gli è indifferente, nulla riveste importanza ai suoi occhi (“mi mancava il tempo di interessarmi a ciò che non mi interessava”), tutto è lo stesso per lui, che prova un senso di estraneità rispetto a ciò che gli succede, la sensazione di essere un intruso, di essere di troppo persino durante il processo che lo riguarda, infatti assiste al dibattimento come se fosse qualcosa che non lo riguarda, da spettatore passivo e solo in un momento avverte quanto “tutte quelle persone” lo detestino. Nemmeno quando comprende di essere al centro di un processo come imputato, sente la necessità di parlare, di dire qualcosa, magari di difendersi, per poi arrendersi (“Ma, a pensarci bene, non avevo niente da dire.”). Durante il processo il procuratore parla dell’anima di Meursault, dice che in lui si riscontra un’assenza di cuore che “diventa un baratro nel quale la società può sprofondare”; lo fa anche l’avvocato difensore (un avvocato d’ufficio, ché l’imputato non si è preoccupato neanche di trovare un avvocato che lo possa difendere al meglio da un’accusa per la quale rischia la pena capitale), che invece sostiene di aver letto nell’anima di Meursault, come in un libro aperto.
Questo personaggio indispone e respinge il lettore per la sua indifferenza e per la sua incapacità di esprimere un’opinione, un’idea qualunque, fosse anche il sentimento che potrebbe legarlo a Maria, una ex collega con la quale intreccia una relazione (“mi è parsa bellissima ma non sono riuscito a dirglielo”); d’altronde, come ricorda l’amico Céleste durante la sua testimonianza al processo, lui è uno che “parlava soltanto se aveva qualcosa da dire”.
Allo stesso tempo Meursault attira, si arriva alla fine del romanzo alla ricerca di un motivo, nella speranza di un rigurgito di coscienza e di un riscatto in un uomo che è straniero alla vita.
Un lungo saggio di Roberto Saviano introduce il romanzo, quasi sproporzionato a una prima impressione: tuttavia la lunghezza del testo si giustifica per la passione convincente che Saviano mette nel descrivere il ruolo che “Lo straniero” può avere nella vita di tutti.
Ora resto in debito con “La peste”, che recupererò.

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Lo straniero
Autore: Albert Camus
Traduttore: Sergio Claudio Perroni
Introduzione di Roberto Saviano
Dati: 2015, 157 p., brossura (prima edizione 1942, Gallimard)
Editore: Bompiani (collana Grandi Tascabili Bompiani. I libri di Albert Camus)
Prezzo: € 12,00
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

venerdì 1 aprile 2016

Cambio veste, la casa resta dov'è

“Mi piace aprile. 
Ha molti varchi e fessure, 
e puoi infilarci dentro molte cose, 
un biglietto, un avviso, 
una speranza minima"
(E. Seminara, "Atlante degli abiti smessi", Einaudi 2015)

Dopo tre anni e mezzo di vita, "Io e Pepe (e libri e altro)" cambia aspetto.
Ne sentivo il bisogno, avevo voglia di aprire le finestre e cambiare aria.
Al momento ho solo ritinteggiato le pareti e per questo devo ringraziare Sergio Tamborrino del DesignBlu di Firenze. Altri cambiamenti arriveranno, altre novità si annunciano nella mia testa e devono solo trovare sostanza, visto che la forma, anche parecchio bella, a mio avviso c'è.
Arriveranno altre rubriche, qualcuna sparirà o cambierà nome.
Le uscite dei nuovi post non avranno cadenza fissa perchè non amo sentirmi legata, costretta a impegni che magari non sempre posso mantenere, visto che ho anche una vita fuori dal blog.
Le schede recensive avranno qualche dato in più, come il prezzo dei libri e il punteggio di gradimento assegnato su Goodreads per ogni lettura qui presentata.
Insomma, non è finita qui, continuate a leggermi e... non chiamatemi bookblogger.