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venerdì 14 aprile 2017

"La vita sconosciuta" di Crocifisso Dentello

Una delle lezioni spaventose che si sperimentano dopo un lutto
è che il dolore non è sempre un grumo nero 
che il tempo riesce a diluire. 

Quel dolore, quel grumo nero, dice Crocifisso Dentello nel suo “La vita sconosciuta”, “può restare intatto e semmai lievitare, occupare sempre più spazio e irrompere improvviso proprio quando ci si illude di averlo tenuto a bada”; è ciò che succede a Ernesto, che si accompagna a uno strazio senza soluzione dopo la morte della moglie Agata: non è solo il dolore per una morte improvvisa, imprevedibile, ma per il protagonista è la pietra tombale sulla sua solitudine, che era tale anche prima della scomparsa della moglie, una donna inaridita dalla fatica e dalla delusione. 
Il romanzo racconta la doppia vita dell’uomo e il suo malcelato equilibrismo tra omosessualità vissuta con famelica frenesia e frustrato legame matrimoniale con Agata: la vicenda, racchiusa in pochi giorni, si sposta su più piani temporali, alla continua ricerca di un passato che possa spiegare le ragioni dell'oggi. 
In quel passato si addensa una passione politica, sfociata per una stagione nei contatti con il terrorismo che aveva infiammato l’Italia degli anni di piombo, quella della lotta armata e delle Brigate Rosse; il periodo dell’impegno politico clandestino è da tempo sepolto nella coscienza di Ernesto, ma non lo era stato in quella di Agata, che in quel credo politico si era spesa totalmente e che per anni aveva alimentato il rancore e la rabbia di non aver visto compiersi la rivoluzione così come tra compagni l’avevano immaginata, desiderata, criminalmente perseguita. 
La divisione e le incomprensioni tra moglie e marito erano passate anche da questo, ma ciononostante Ernesto continua a tenere presente il legame forte con la compagna di una vita, che già da molto prima che lei morisse mal si conciliava con il sesso mercenario consumato dall’uomo nei parchi periferici di Milano e che ancora di più alimenta il senso di colpa, dopo che lei muore. 
Ho letto questo romanzo appena uscito, in un giorno e mezzo, e ne avrei potuto parlare immediatamente, dimostrando di saper stare sul pezzo; le cose non sono andate così, anche per una mia tendenza al non inseguire per forza l’onda mediatica -che pure è lunga e persiste ancora-, tuttavia da quando l’ho chiuso sull’ultima pagina ho sempre rimuginato sulla storia che Dentello narra in questo romanzo duro e spietato, una storia raccontata senza sconti, con un linguaggio crudo e realista, testimonianza di un dolore infinito e senza redenzione. 
Pensavo, tra l’altro, che avrei dovuto scriverne e che sarebbe stato un peccato lasciar passare troppo tempo, com’è successo con il romanzo di Elena Stancanelli, “La femmina nuda”, di cui ho parlato frettolosamente alla fine dell'anno scorso. Non è un caso se associo il romanzo di Dentello a quello di Elena Stancanelli, che a sua volta ho definito vicino a “La separazione del maschio” di Francesco Piccolo, perché entrambi colgono spaccati di vita, narrati nella più confidenziale quotidianità, accomunati dallo stesso senso dell’intendere il sesso, l’amore, il dolore. Quei due romanzi sono in qualche modo fratelli (ricordo che a candidare allo Strega “La femmina nuda” lo scorso anno è stato proprio Piccolo); il romanzo di Dentello si avvicina a loro (“La vita sconosciuta” e il romanzo della Stancanelli sono entrambi editi da La nave di Teseo, il che mi ha fatto pensare a una certa sensibilità dell’editore verso gli argomenti che i due Autori nei loro libri indagano), raccontando un ulteriore aspetto, ancora una sfaccettatura di un modo di vivere le relazioni intime e anche quelle estranee, quelle che ci rendono sconosciuti a noi stessi. 
Per questo motivo, non mi sorprende che l’autore sia incappato in un incidente di percorso, peraltro da lui stesso denunciato dopo che il critico Stefano Gallerani aveva riscontrato una sospetta coincidenza in un brano de “La vita sconosciuta”, fin troppo somigliante –quasi identico- ad uno stralcio de “La separazione del maschio”. Se errore ha fatto Dentello, è stato quello di non annotarsi la fonte di questo brano che tanto lo aveva colpito leggendo il romanzo di Piccolo: il tempo poi ha fatto il suo lavoro, consultando gli appunti di pensieri sparsi, citazioni raccolte, non se n’è ricordata più l’origine e se non se n’è ricordata più l’origine, significa che quel sentire, già scritto e già letto, è identico al suo. Un incidente, sul quale non vale la pena dilungarsi, ma che nemmeno si può far finta che non sia accaduto. 
Piuttosto mi sembra importante rilevare altro: la capacità di spogliare totalmente il personaggio principale della pelle, renderlo così intimamente scoperto e vulnerabile tanto da provocare nel lettore il moto di pietà destinato ai perdenti, o il disprezzo che si riserva ai rinunciatari, agli inetti. 
In ogni caso, qualunque sia il sentimento che si agita nel lettore, l’importante è che un’emozione si manifesti, che una domanda ce la si ponga, che si chiuda il libro con una sensazione, qualunque. Finché un romanzo è capace di smuovere qualcosa dentro chi lo legge (e prima in chi lo scrive), per quel poco che il mio parere può contare -non sono certo un influencer!-, per me è un buon romanzo. 

 
Photo HelenTambo on Instagram

La vita sconosciuta 
Autore: Crocifisso Dentello 
Dati: 2017, 120 p., brossura 
Editore: La nave di Teseo (collana Oceani) 
Prezzo: € 16,00 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

lunedì 11 luglio 2016

#LeggoNobel: "Bellezza e tristezza" di Yasunari Kawabata

Il viola del tramonto svanì presto, 
e il cielo prese un colore gelido, di un azzurro grigiastro. 
La primavera alle soglie pareva retrocedere 
cedendo di nuovo il posto all'inverno. 
Da poco era calato il sole, 
lasciando un punto roseo nel cielo, dietro la foschia. 

Siamo arrivati al quinto appuntamento con #LeggoNobel, il progetto di lettura condivisa degli scrittori che sono stati insigniti del premio Nobel per la letteratura. Si tratta di un’occasione per leggere e commentare insieme autori che forse difficilmente avremmo avvicinato nella nostra vita di lettori. 
Stavolta è toccato a Yasunari Kawabata (Saka, 1899-1972), cui il Nobel è stato assegnato nel 1968 “per la sua abilità narrativa, che esprime con grande sensibilità l'essenza del pensiero giapponese”. La stessa abilità narrativa e la stessa sensibilità accomunano Kawabata e Yukio Mishima, forse lo scrittore giapponese più tradotto e conosciuto nel mondo, uniti anche da profonda amicizia interrotta solo dal suicidio di Mishima. 
E proprio leggendo “Bellezza e tristezza” mi sono sentita avvolgere dalla stessa atmosfera torbida e tragica di “Trastulli di animali” (1961) di Mishima, che come il romanzo di Kawabata è soffuso di una luce idilliaca e immerso in una natura pura e semplice. 
Questo mi ha fatto pensare che, come gli scrittori russi sono “i Russi”, riconoscibili in tutto il panorama della narrativa europea tra fine Ottocento e inizi Novecento, come la letteratura americana della beat generation si riconosce perché c’è un filo rosso che lega tutte le opere così come quelle dei minimalisti statunitensi, come i sudamericani hanno i loro paesi colorati e profumati di caffè e cacao e l’indolenza della siesta o la passione della ribellione, così gli scrittori e i registi orientali, giapponesi in particolare, sono accomunati da uno stile unico: i loro colori, pastello e trasparenti, sono gli stessi per tutti e quando si infiammano, diventano rosso sangue. E il rosso del sangue, sui fiori di Phalaenopsis, spicca. 
La storia che racconta Kawabata in “Bellezza e tristezza” riguarda un ritorno, il rinnovo inutile di un incontro e del ricordo di un amore passato: il primo personaggio che incontriamo è Oki, lo scrittore che nel romanzo “La sedicenne” ha narrato la sua relazione con Otoko, che da quell’amore è uscita profondamente cambiata. È lei che l’uomo desidera rivedere, dopo che ventiquattro anni sono passati dalla loro forzata separazione e le passioni e i rancori sembrano sopiti. Il cambiamento di Otoko, diventata nel frattempo una famosa pittrice, è il risultato di una vita pazientemente ricostruita: questo non le impedisce di ricordare quella passione, per la quale lei ha pagato il prezzo più alto e di affrontare, con un distacco superiore, maturato in anni di autodisciplina, l’incontro con l’uomo che si è preso la sua giovinezza per sprecarla e consegnarla al pubblico senza nessuna attenzione per il dolore della ragazzina che Otoko era all’epoca del loro amore. 
La vicenda è ambientata tra Tokio e Kyoto, in epoca contemporanea. Tra le due città si muovono i protagonisti, Oki e Otoko, e i comprimari che svolgono tutti ruoli fondamentali nel paesaggio dei sentimenti disegnato dall’Autore: la moglie e il figlio dell’uomo e Keiko, bellissima allieva della pittrice. Sarà Keiko, legata a Otoko da un rapporto di amore saffico e di profonda ammirazione, il motore delle vicende che vedranno svelare la vera personalità della giovane, una specie di vampiro di linfa vitale, capace di piegare ai suoi capricci, alla sua passione e alla sua vendetta anche un ragazzo ingenuo e appassionato come Taichiro, il figlio di Oki. 
Le atmosfere sono rarefatte e i colori tenui per una storia che è fatta di sentimenti violenti che contrastano con altri ormai stanchi, fino a un epilogo forse prevedibile, proprio per le caratteristiche della narrazione orientale, non solo letteraria ma anche cinematografica –penso ad esempio a “L’impero dei sensi” (1976) del regista Nagisa Oshima- di cui dicevo prima. 
Il libro mi è piaciuto, forse perché mi ha fatto provare dei sentimenti verso i protagonisti, al di là della storia. Ho considerato Oki un inetto incapace di prendere decisioni in modo autonomo, ho sentito compassione per suo figlio Taichiro e per sua madre, una donna che ha soffocato il dolore di moglie delusa nella cura ossessiva della casa, ho provato ammirazione per la compostezza e la saggezza di Otoko, nonché antipatia per l’arrivista Keiko. 
Anche i temi trattati da Kawabata mi hanno attratto, proprio per il modo in cui lo scrittore ne parla: l’amore adulterino, l’omosessualità, la morte, anche nei passaggi più scabrosi sono affrontati dallo scrittore con somma delicatezza. 
Il prossimo appuntamento con Kawabata è con “La casa delle belle addormentate” (1961), per cercare di conoscere meglio questo scrittore dai paesaggi delicati e dalle passioni assolute. 

Photo HelenTambo on Instagram


Bellezza e tristezza 
Autore: Yasunari Kawabata 
Traduttore: Atsuko Suga 
Dati: 1985 e 1993, 171 p.; 2007, 176 p., brossura; ePub con DRM 823,1 KB 
Editore: Einaudi (collana Einaudi Tascabili Scrittori) 
Prezzo: € 10,50 (eBook € 6,99) 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

domenica 22 novembre 2015

Ultima lettura: "Anna" di Niccolò Ammaniti


Anna

Autore: Ammaniti Niccolò
Dati: 2015, 275 p., brossura
Editore: Einaudi (collana Stile Libero Big)


L’amore sai cos’è solo quando te lo levano.
L’amore è mancanza.

Anna Salemi è una ragazzina di tredici anni che vive vicino a Palermo. Siamo in un futuro non troppo lontano, nel 2020, e la Sicilia è annientata da un virus, la Rossa, che ha falcidiato tutti gli adulti. I sintomi della malattia sviluppata da questo virus sono inequivocabili: si manifesta con l’apparizione di chiazze rosse sulla pelle, difficoltà respiratorie e febbre altissima e ciò che si sa di sicuro è che non colpisce nessuno prima dei quattordici anni e perciò l’isola è ormai abitata solamente da bambini che si muovono in un paesaggio distopico, desolato, carbonizzato a causa dei frequenti incendi, arido, distrutto, sporco, crudele come solo accade quando i bisogni tornano ad essere quelli primordiali, quelli che ti ributtano indietro in una condizione quasi preistorica, dove la lotta è per la sopravvivenza, il cibo e, in questo caso, le medicine.
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Anna è rimasta sola con il fratellino Astor: per un po’ si sono fermati al Podere del gelso, dove vivevano con la mamma Maria Grazia, morta anche lei e conservata sul letto della sua camera dopo precise disposizioni lasciate alla primogenita, poi Anna capisce che deve muoversi da lì e andare verso Messina per passare lo Stretto, raggiungendo la Calabria e quel continente dove la Rossa sicuramente non c’è.
Anna attraverserà pericoli, dovrà prendere decisioni, mangerà (e farà mangiare ad Astor) quello che riuscirà a trovare nei negozi devastati e saccheggiati, nelle case semidistrutte e abbandonate: si tratterà per lo più di cibo scaduto, conservato male, ammuffito a volte, il che dimostrerà la forza di questi ragazzini, non solo psicologica ma anche fisica, visto che la loro resistenza sfiderà qualunque veleno saranno in grado di mettersi nello stomaco (e spesso di rigettare seduta stante). In questo percorso accidentato, Anna farà incontri importanti e cambierà, fino a diventare la donna che già si percepisce dalle prime pagine, da quando è intenta a consultare il quaderno delle Cose Importanti che sua madre, nell’imminenza della morte, ha preparato per aiutarla a affrontare le difficoltà pratiche che i figli avrebbero trovato nella loro vita senza adulti, fino a quando comincerà a cavarsela da sola, in completa autonomia. Per questo forse si può pensare a questo romanzo come a un romanzo di formazione.
“Anna” è un libro duro che all’inizio ho fatto fatica a leggere: le descrizioni dettagliate e crude delle lotte fisiche, della morte, della malattia mi rendevano difficile andare avanti, mi sembrava tutto troppo esasperato. A convincermi che dovevo proseguire sono stati due motivi: il primo è sicuramente l’Autore, di cui ho apprezzato sempre tutto, compresi gli aspetti splatter della sua scrittura; il secondo è la protagonista, Anna appunto, un personaggio fortissimo, indimenticabile, uno dei più belli di Ammaniti.
Ho avuto ragione a non scoraggiarmi, perché man mano che procedevo nella lettura, entrando sempre di più nella storia e partecipando alle vicende di Anna e di suo fratello, ho potuto soffermarmi sugli aspetti più caratteristici della scrittura di Ammaniti, come la sua capacità di rendere i pensieri e le parole dei bambini e degli adolescenti, quel suo regredire a livello del personaggio tanto da renderlo vivo e reale. Era stato così per “Io non ho paura” e “Io e te”: oggi, con questo nuovo romanzo, si aggiunge un altro importante tassello al mosaico della psicologia infantile e adolescenziale a cui Niccolò Ammaniti si dedica da tempo.
Alla fine del libro –cosa che mi è successa raramente e non mi capitava comunque da tanto tempo- ho pianto di commozione e non per come termina la storia, in realtà con un finale aperto, ma per tutto quello che ho trovato nelle pagine, per la forza e la bellezza di questa guerriera, Anna, che mi porterò sempre dentro.
Consiglio fortemente la lettura di questo romanzo: Anna vi entrerà nelle vene.

lunedì 2 marzo 2015

Ultima lettura: "Accabadora" di Michela Murgia


Accabadora

Autore: Murgia Michela
Dati: 2014, 166 p., brossura; prima ed. 2009
Editore: Einaudi (collana Super ET)

Le colpe, come le persone,
iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge.

L'ho letto voracemente, incantata da una storia d'altri tempi eppure neanche troppo lontana, trovandolo bello e commovente. Gli ho dato una valutazione di cinque stelle su Goodreads, trascurando una riflessione più profonda a cui mi sono dedicata in un momento successivo al primo entusiasmo, a lettura appena conclusa.
Come nessuno nasce da solo ma ha bisogno di chi lo aiuti a venire al mondo, a uscire dal ventre materno, a farsi recidere il cordone ombelicale, allo stesso modo abbiamo bisogno di aiuto per andarcene all’altro mondo e per farlo serve innanzitutto che non ci sia niente e nessuno a trattenerci. Lo sa bene Bonaria Urrai, che aiuta chi se ne deve andare a slacciare gli ultimi legami con la terra, per alcuni matrigna.
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E a proposito di ‘terra matrigna’, al concetto di maternità è legata buona parte del romanzo, che vede la vecchia Tzia Bonaria, la sarta di Soreni, prendere con sé la piccola Maria, togliendola da un ambiente familiare deprivato e dandole cibo e istruzione, oltre a un forte affetto autentico, solido e privo di fronzoli. Fili'e anima, così si chiamava chi veniva adottato senza tribunali dei minori e senza carte bollate che lo sancissero: Bonaria per Maria sarà una madre severa e attenta, sia pure rispettosa della sua individualità.
Bonaria Urrai non è solo madre di Maria, ma è l’ultima madre per tanti, la femina abbacadora (o
femina agabbadòra, dal sardo s'acabbu, "la fine"), cioè la donna che si metteva a disposizione per uccidere gli anziani ormai prossimi alla morte, in una forma di eutanasia pietosa fuori dalle leggi umane e religiose. Questo Maria non lo capisce subito, ma ad un certo punto comincerà a mettere insieme alcuni indizi, alcuni movimenti notturni, alcuni comportamenti misteriosi che le sveleranno la vera natura della donna che amorevolmente l’ha cresciuta.
Il racconto di Murgia mette insieme una storia di tradizioni antiche, fatte di riti e cibo e credenze e superstizioni. Ci consegna una Sardegna arcaica, incastonata in un tempo tra gli anni Cinquanta e Sessanta e tuttavia apparentemente immobile: sembra che in quell’angolo sperduto dell’isola il tempo si sia fermato, sempre uguale a se stesso, con il solo avvicendarsi delle stagioni, di vendemmia in vendemmia.
Tra la Sardegna aspra, rozza e arretrata di Grazia Deledda e quella magica di Salvatore Niffoi, l’Autrice presenta la sua terra caricandola di un’ambientazione chiusa e ostile, forse fedele alla natura di un popolo generoso eppure diffidente, schiacciato nel momento storico in cui è ambientato “Accabadora”, tra civiltà pastorale e sviluppo dei consumi;  allo stesso tempo la priva dell’elemento più naturale e spontaneo, la lingua materna, relegata qui al solo lessico del cibo e di qualche aspetto più strettamente etnografico. Proprio questa scarsa aderenza al realismo linguistico, che forse l’argomento e l’ambientazione avrebbero imposto, giustifica il giudizio di chi conosce bene la Sardegna e non vi si è riconosciuto.
Ma a chi come me della Sardegna ha un’immagine forse stereotipata ma comunque affascinante, questo romanzo può piacere molto.