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giovedì 8 dicembre 2016

"Salento" di Lucio Causo

 
Photo Mauro Minutello

Si era nel pieno dell’estate e l’assenza di impegni scolastici ci lasciava completamente liberi del nostro tempo. Ed ora era la caccia delle lucertole lungo i muri a secco delle campagne, ora la puntata fino al mare di Mancaversa per un bagno collettivo, ora qualche altro passatempo: ogni volta qualcosa veniva fuori. Quella sera, mentre il bar della piazza spegneva la sua vecchia insegna, decidemmo che l’indomani saremmo andati verso la strada ferrata per Gallipoli
Lo stormire degli ulivi era per noi la musica più dolce, quella musica che ci aveva accompagnati fin dalla nascita, per i giorni, i mesi e gli anni della nostra vita. Risentirla lungo la ferrovia era ancora più dolce, aveva un che di magico, era come il suono che accompagnava il nostro sogno di partenze, di viaggi verso l’ignoto, un ignoto che per noi però aveva sempre un cielo: quel nostro, azzurrissimo cielo del Salento, steso su quello stormire soave, atavico di fronde d’ulivi. 
Il sole saliva e si faceva sempre più caldo, e più calde faceva le sbarre delle rotaie dei binari, la cui superficie luccicava secondo il nostro saltellare sulle traversine. Poi mettevamo l’orecchio aderente alla calda rotaia, si cercava di captare il rumore del treno che si avvicinava. Chi per primo l’avvertiva esplodeva in un grido vittorioso e allora cominciava per tutti l’attesa del nero mostro fumante, attesa tanto più colma d’ansia e quasi di paura quanto meno si riusciva a prevedere da dove sarebbe apparso. E poi eccolo! E allora tutti giù per la scarpata brecciosa per vedere il treno passare veloce fischiando. Poi si sciamava pei vasti uliveti e si gridavano i nostri nomi che duravano a lungo nell’aria, procurandoci una strana paura, di essere esposti chissà a quale oscura punizione. 
Spesso si camminava così fino al tramonto, quando si sostava presso lo stagno e s’osservavano i verdi ranocchi saltare dai galleggianti sterpi limacciosi sugli umidi sassi a riva e viceversa, e noi li stuzzicavamo per sentirne il roco gracidio. Dallo stradone giungeva il rullare dei carri, i traini, che rientravano al paese e allora anche noi tornavamo verso le basse case bianche del paese che il crepuscolo già avvolgeva del suo tenero blu opaco. 
D’inverno si stava più rinchiusi in casa, ma ugualmente s’usciva il pomeriggio, con le labbra livide, le mani intirizzite, paralizzate quasi dal freddo, che non si riusciva neanche ad avviare la trottolina di legno. Per la campagna, squallida, spoglia, dai neri alberi senza vita, non si andava più, se non per raggiungere una casupola abbandonata, caseddhu, dove ci si raccoglieva quando fuori pioveva.
Allora, dopo avere acceso un focherello scoppiettante, si raccontavano storie di santi e di banditi, di buffoni e d’eroi. Quando l’ombra calava si tornava alle case, come gli uccelli al nido. 

Febbraio portava i primi avvisi della primavera. S’aprivano sugli alberi le prime gemme, la campagna intorno al paese si chiazzava via via di pallidi rosa. 
In aprile, poi, l’aria fattasi più dolce galleggiava su onde di limpido verde nei campi di grano e noi riprendevamo a sedere, la sera, sui gradini della chiesa, fino a che l’Angelus non spargeva i suoi rintocchi d’argento sulle basse case bianche del paese.
©Lucio Causo

Soundtrack: Ben E. King, "Stand by me"

giovedì 17 marzo 2016

Ultima lettura: "La pioggia prima che cada" di Jonathan Coe


La pioggia prima che cada

Autore: Coe Jonathan
Traduttore: Vezzoli Delfina
Dati: 2007, 222 p., brossura
Editore: Feltrinelli (collana I Narratori)

“Be’, a me piace la pioggia prima che cada”
[…] “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada.
Deve cadere, altrimenti non è pioggia”
[…]”Certo che non esiste una cosa così, “disse.
“È proprio per questo che è la mia preferita.
Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.”

Capita di dover fare un viaggio in treno di un paio di ore o poco più, capita di aver finito di leggere il libro che ci si era portato dietro, capita di aver lasciato a casa il proprio eReader. Capita di trovarsi in una stazione dove non c’è una libreria, capita che i negozi nei suoi dintorni siano ancora chiusi, capita che il treno che si aspetta sia in fortissimo ritardo, capita di avviarsi decisi verso il corso principale dove si sa esserci una libreria ben fornita che sicuramente farà orario continuato (altrettanto sicuramente è una mera speranza, ma avendo tempo da perdere…). Capita, camminando sul viale della stazione, di imbattersi in una bancarella di libri usati e di trovarci il Bengodi del lettore. Capita di non proseguire per la libreria e di fermarsi invece a spulciare tra i libri esposti («Signora, io sono qui tutti i giorni il pomeriggio da lunedì a venerdì, presto porto altri libri Feltrinelli», peccato che io sia qui a Foggia solo di passaggio, ma stai tranquillo che se torno ti vengo a trovare di nuovo). Capita di scorgere, tra le tante belle edizioni, una Einaudi intonsa di “Feria d’agosto” di Pavese e questo romanzo di Jonathan Coe, “La pioggia prima che cada”.
Photo Helentambo on Instagram
Se per Pavese si è trattato di incrementare il numero dei suoi volumi presenti nella mia libreria, per Coe invece è stato un primo acquisto, a scatola chiusa, non avendo mai letto prima nulla di lui né sapendo nulla di questo romanzo in particolare. Non so cosa possa avermi spinto a comprarlo (il prezzo di soli cinque euro? La copertina? Il titolo? Il fatto di conoscere Coe almeno di fama?), fatto è che –una volta sul treno- ho iniziato una lettura piacevole e appassionante che mi ha accompagnato per i tre giorni successivi e che mi ha fatto riflettere ancora una volta sul fatto che spesso i libri belli ti raggiungono senza che tu li cerchi, per puro caso.
La zia Rosamond è morta nella casa dove viveva sola, dopo la morte di Ruth, la sua compagna. Il cadavere viene trovato dal suo medico: la morte ha sorpreso (ma non più di tanto, nel senso che lei era consapevole che l’ora estrema si stava avvicinando) l’anziana donna seduta in poltrona, mentre stava ascoltando un disco e aveva un microfono in mano, con un album di fotografie accanto. A doversi occupare del funerale sarà Gill, la nipote prediletta, che avrà anche la sorpresa di un testamento che destina a lei un terzo degli averi di zia Rosamond, un terzo a suo fratello David e un terzo a Imogen, di cui nessuno conserva memoria, se non molto vagamente. Bisogna tuttavia trovarla e la ricerca sarà possibile solo ascoltando le audiocassette che zia Rosamond ha registrato, lasciando l’ultima evidentemente interrotta dalla morte. Quelle cassette, registrate con un apparecchio antidiluviano, sono destinate a Imogen e raccontano la vita di Rosemond, delle persone che hanno attraversato la sua vita, Imogen compresa, attraverso la descrizione dettagliata di venti fotografie, considerate le più rappresentative di un’esistenza vivace e anticonformista.
Si tratta di un racconto in prima persona, incastonato nella cornice della narrazione che riguarda Gill e la scomoda gestione di questa eredità: la struttura del racconto nel racconto consente l’incursione volta per volta nel presente di Gill e nel passato di Rosamond. A rendere appassionanti le vicende sono da una parte lo svelamento del mistero che riguarda Imogen, della quale Gill scoprirà il destino dalle parole di sua madre Thea (quella che, da bambina, amava “la pioggia prima che cada”), dall’altra i tasselli della vita di Rosamond che si spiegano davanti al lettore a ricostruire un mosaico di rapporti, sentimenti, incomprensioni, scelte anticonformiste, tra Inghilterra e Canada, dal secondo dopoguerra ai pieni anni Settanta del Novecento.
Una bella sorpresa, questo romanzo, che mi ha fatto scoprire un autore prima a me sconosciuto e del quale proprio oggi esce “Numero undici”, presentato a Firenze proprio in questo momento, mentre scrivo a oltre novecento chilometri di distanza.
Che sia la prossima lettura?