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lunedì 12 giugno 2017

"Pastorale americana" di Philip Roth

Riattaccò sopra la scrivania il ritratto senza vetro di Conte e poi, 
come se ascoltare persone che ciarlavano di questo o di quello 
fosse il compito assegnatoli dalle forze del destino, 
lasciò l’inferno in cui si era avventurato 
per tornare alla solida e metodica buffonata della cena. 
Era tutto ciò che gli restava per non perdere il controllo: una cena. 
L’unica cosa cui poteva aggrapparsi 
mentre la grande impresa che era stata la sua vita 
continuava a sfrecciare verso la distruzione: una cena. 
E alla terrazza illuminata dalle candele fece doverosamente ritorno, 
sempre portando con sé tutto ciò che non riusciva a capire. 

Per IBS, questo è il romanzo più venduto di Philip Roth, seguito da "Lamento di Portnoy" e “La macchia umana”: non so se questo è vero, di sicuro credo che sia arrivato il tempo di riprendere “La macchia umana”, interrotto non ricordo per quale motivo anni fa, forse solo perché facevo fatica a leggerlo. 
Quel che ho capito, anche da quest’ultima lettura, è che leggere Roth non è proprio una passeggiata di salute e forse è in questo che risiede la resistenza ad affrontarne anche i titoli più celebrati. So anche però che leggere Roth è esperienza fortemente coinvolgente, che costringe a fare i conti con il proprio modo di vivere alcune situazioni emotive, che non hanno nulla di eccezionale perché magari sono comuni, ma che nel modo in cui sono descritte e narrate diventano uniche e riconoscibili come nostre. 
Insomma, credo che leggere certi romanzi, ad esempio questo, getti una luce sulla vita -sulla propria e su quella degli altri- che poi costringe a riflettere su alcuni temi in particolare: qui direi, sul senso del dovere e sull’essenza dell’amore paterno. 
Questo romanzo, pubblicato nel 1997 (in Italia, da Einaudi nei Supercoralli, l’anno successivo) è il primo della cosiddetta trilogia di Nathan Zuckerman, il narratore alter ego di Roth, che apparirà anche in “Ho sposato un comunista” (1998) e nel già citato “La macchia umana” (2000). 
Il protagonista è Seymour Levov, detto lo Svedese, uomo apparentemente incrollabile, la cui vita perfetta fatta di successo nel lavoro, bellezza, ricchezza, virtù e amore, si sgretola davanti al disastro causato dalla sedicenne figlia Merry, grassottella e balbuziente, che mette una bomba nell’ufficio postale di Newark, avendo sposato la causa di un’associazione terroristica di estrema sinistra, negli anni in cui gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra del Vietnam. L’attentato dinamitardo compiuto da Merry diventa la cerniera che divide il tempo dello Svedese e di sua moglie Dawn, ex reginetta di bellezza del New Jersey, perché dopo la bomba e la fuga della ragazza, nulla sarà più come prima e da quel momento in poi sarà un susseguirsi di “dopo”. 
L’attività imprenditoriale di Seymour, la produzione di guanti in pelle della Newark Maid, piccola fabbrica in rapida espansione fondata da suo padre, è la metafora della perfezione e del dovere, del sentimento di responsabilità: ogni piccolo dettaglio di un guanto, dal tipo di pellame scelto, dal taglio dei pezzi e dalle sfumature di colore che devono armonizzarsi, da ogni minima cucitura, dalla misura e dalla morbidezza, rappresenta un tassello imprescindibile che porta alla massima realizzazione nel lavoro, come nella vita. Nessuna imperfezione è concessa, ogni coppia di guanti è un gioiello di accuratezza, l’aspirazione agli obiettivi più alti è il faro che guida ogni azione dello Svedese, intriso di senso del dovere fino al midollo, “naturalmente rispettoso”, che precipita nell’abisso del dolore più cupo lì, dove l’azione criminale di Merry incontra il suo amore incondizionato. Tutto il romanzo ruota sulle domande che lo Svedese si fa, sul tentativo di comprendere cosa sia successo a Merry, e quindi alla loro famiglia, con dolore e con rabbia. Dietro la vita perfetta di Seymour si accumulano scorie: la figlia “imperfetta”, ma anche -e forse proprio per questo- amatissima, così diversa dai suoi bellissimi e seducenti genitori, e gli inciampi della vita che portano Dawn, così tenace e capace di tenere testa a quello che sarebbe diventato suo suocero (che aveva contrastato la relazione tra suo figlio e quella ragazza cattolica che “non era mai stata così testarda come quando voleva far dimenticare il suo ruolo di ex regina di bellezza” e si era poi messa in testa di allevare mucche e tori), a scegliersi un amante che è l’opposto del suo affascinante marito. Succede anche a lui, a Seymour di prendersi un’amante, e sarà anche questa faccenda una macchia che si andrà ad aggiungere al resto delle disfatte e che però non intaccherà la forza del suo desiderio di essere coppia ancora con Dawn, nonostante tutto e perché per lui la vita senza di lei è inconcepibile. 
L’altro grande tema che io vedo in “Pastorale americana” è quello dell’amore paterno, che per me resta un mistero. Riferendomi alla genitorialità naturale, non adottiva, mi sono sempre chiesta di cosa è fatto l’amore di un padre; se è quasi scontato capire di cosa è fatto fisicamente, visceralmente, quello di una madre che ha portato in grembo un figlio e quindi lo sente per legge di natura parte della propria carne, in cosa si sostanzia quello di un padre? Di cosa è fatto, come un uomo riconosce un figlio, a parte le possibili somiglianze? Roth, attraverso la figura di Seymour Levov si avvicina a farlo capire: lo Svedese sente che Merry ha bisogno di lui, soprattutto nella latitanza, la vuole riportare a casa, forse più di quanto lo desideri sua moglie Dawn e in questo risiede la straordinaria figura di padre che ha fallito, pur amando la propria figlia alla disperazione e sentendola parte di sé. 
Ho trovato questo romanzo molto toccante, ho sofferto per quella richiesta di perfezione che la vita rivolge a Seymour, per il quale mi sono commossa, riconoscendo i limiti imposti dalle convenzioni sociali, che poi sono la prigione, spesso dorata, di molti di noi. 

 
Photo HelenTambo on Instagram


Pastorale americana 
Autore: Philip Roth 
Traduzione: Vincenzo Mantovani 
Dati: 2013, 458 p., brossura; 
Editore: Einaudi (collana Super ET); 
Prezzo: € 14,00 
Giudizio su Goodreads: 5 stelle

domenica 26 ottobre 2014

Ultima lettura: "Lamento di Portnoy" di Philip Roth


Lamento di Portnoy

Autore: Roth P. (traduzione di Roberto C. Sonaglia)
Dati: 2005 (edizione originale Portnoy’s Complaint, 1967), p. 234, brossura
Editore: Einaudi (collana Scrittori)

Dottore, forse gli altri sognano le cose... a me capitano tutte.
Ho una vita senza contenuti latenti.
Le cose da sogno succedono!

Ma veramente penso di poter scrivere la recensione di “Lamento di Portnoy”?
Veramente penso di poter parlare (io!) di uno dei romanzi più belli che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, un monumento al complesso di Edipo -ma che dico?- un monumento e basta, un dramma terribile intriso di frustrazione e sensi di colpa atavici, di sesso e ossessioni, il tutto impastato di sarcasmo e ironia (e autoironia) graffiante, irresistibile, fantasiosa, dissacrante, al limite della comicità pura (tempi perfetti!), capace nel contempo di ispirare veri sentimenti di pietà e partecipazione verso il povero protagonista, Alex Portnoy?
Photo HelenTambo on Instagram
Veramente penso (io, io!) di poter parlare di uno scrittore che non si sa per quale motivo non si vede attribuito il Nobel per la Letteratura, dopo aver collezionato molti prestigiosi premi (Pulitzer Prize compreso, per “Pastorale americana”) e la cui opera omnia è stata pubblicata definitivamente dalla Library of America?
Certo che no. Non posso proprio, non saprei da che parte cominciare.
Mi limiterò a dire che il mio incontro con i romanzi di Philip Roth è stato contraddittorio: sulla scorta del film “La macchia umana” (2003) di Robert Benton con Anthony Hopkins e Nicole Kidman, avevo deciso di leggere il romanzo omonimo, senza però riuscire a finirlo. Poiché però le sollecitazioni verso Roth da parte di suoi adoranti estimatori erano continue, ci ho riprovato con “Il teatro di Sabbath”, un’autentica rivelazione, un romanzo che considero un discrimine tra un prima e un dopo della mia vita di lettrice.
A “Lamento di Portnoy” sono arrivata senza fretta, dopo averlo acquistato molti anni fa a seguito di una conversazione telefonica con Massimo Cervelli e Roberto Gentile, ai tempi conduttori della trasmissione radiofonica “Gli spostati” (Radio2, dal 2006 al 2010), che ne decantavano la superiorità rispetto ad altri titoli di Roth, secondo il loro parere, considerandolo lettura irrinunciabile. Tuttavia ero indecisa, combattuta tra il timore di una delusione come mi sembrava fosse stato con “La macchia umana” e il desiderio di entusiasmarmi ancora come con “Il teatro di Sabbath”: alla fine l’occasione è arrivata con #letturecondivise, l’hashtag lanciato su Twitter che ogni tanto mi fa incontrare con Simona ScravaglieriValentina Accardi, oltre che con altri lettori che si accodano volentieri.
A loro e a #letturecondivise sarò grata per avermi fatto recuperare da uno scaffale un po’ nascosto questo romanzo indimenticabile. E ci riproverò con “La macchia umana”.