domenica 8 maggio 2016

"In viaggio con lo sconosciuto" di Erika Pucci


 
In viaggio con lo sconosciuto

Photo ©️erykaluna

Erano in sei, venuti da molto lontano. L'appuntamento era in piazza, davanti al consueto caffè. Ero in anticipo, come sempre, giusto il tempo di leggere un messaggio dell' agenzia per avvisarmi che Serena, la mia collega, mi aveva dato buca. “Accidenti, con sei tedeschi da sola a raccontare le langhe, un po' di Pavese e un po' di Barolo… sai che esperienza!” Dalla sera prima mi domandavo cosa cercassero i turisti tedeschi di interessante nella casa di Nuto. Si prospettava una giornata pesante, afosa e priva di grandi dialoghi e mi inquietavo perché nei silenzi iniziavo a frullare i pensieri, a sminuzzarli, analizzarli, costruendomi gironi infernali di introspezione. Il sole d'agosto scintillava già sulla piazza di S. Stefano, l'aria era immobile quando arrivò la vettura con la quale saremmo andati in giro per vigneti, sentieri e colline a parlare di letteratura e vino. Era nuovissima con vetri oscurati che la connotavano di mistero, la portiera si aprì e scese lui, l'autista. Non era il buon Sandro, un arzillo signore di una certa età che di solito mi assisteva in queste trasferte e che aveva sempre storie interessanti per intrattenere i nostri viaggiatori: aneddoti di campagna, amicizie, stagioni, ritmi del corpo e del cuore nella semplicità della saggezza contadina che si tramanda inzuppata di buon barbera. Lo sconosciuto si presentò, si chiamava Manuel. Aveva una camicia blu con piccoli pois bianchi, alla moda e fresca, il capello ribelle sulla fronte, abbronzato, senza subbio un tipo affascinante, fattore che mi predispose diversamente verso una giornata nata storta. Ci stringemmo la mano, lo fissai per un attimo di troppo e imbarazzata abbassai lo sguardo. Poco dopo arrivarono i nostri ospiti, tre uomini e tre donne, con zaini enormi come se dovessero scalare tutte le Alpi. Si sistemarono dietro e io accanto allo sconosciuto dal nome esotico. Aggiornammo i documenti, gli orari erano tutti sballati ma Manuel sembrava avere in mano la situazione e questo mi rilassava, potermi affidare era un dolcissimo lusso. Iniziammo il giro delle cantine. Prima degustazione di bianchi con spiegazione da sommelier: alle 10 di mattina con l'afa delle langhe, il rumore delle cicale, il giallo delle ore, avevamo già gustato tre calici di vino. Sarà per quello che riuscivo a raccontare del Partigiano Johnny e della resistenza con molta naturalezza nonostante i sei tedeschi in auto e il mio inglese al moscato: di solito mi metteva sempre a disagio il confronto con loro sui nostri combattimenti perché dovevo trattenermi, essere asettica e molto professionale. In auto tacevano e contemplavano il paesaggio. Il silenzio insopportabile della domenica mattina scorreva tra le vigne e i chilometri fino ai cieli tappezzati di nuvole chiare e fantasiose. Ruppi il ghiaccio senza difficoltà e iniziai un'accurata intervista a Manuel. Esordimmo ovviamente parlando del tempo, del troppo caldo, del freddo che è ancora peggio del troppo caldo, poi domande a raffica  sui chilometri, sui suoi turni, sui viaggi, rapidamente ci sciogliemmo come se ci conoscessimo da sempre, ironizzando con complicità. Nel frattempo le colline ci guardavano, ogni tanto ci fermavamo a degustare altro vino, a raccontare le strade di Alba e dei suoi 23 giorni, ormai i tedeschi erano solo comparse e le Langhe un grande palcoscenico. La nostra pelle era madida di sudore, piccole gocce brillavano sul mio collo e sulla sua fronte, le labbra umide di vino schiudevano parole, sottintendevano desideri, un'alchemia non solo di carne, un'adrenalina che scavava più in profondità della stessa pelle. Era strana l'attrazione che provavo: guardavo lo sconosciuto con desiderio, rassicurata dal fatto che lui fissasse la strada, senza accorgersene, eppure percepivo l'elettricità nella sua voce morbida che mi graffiava piacevolmente. Scoprii un lato di me sconosciuto, addirittura strabiliante l'attimo in cui tornando in auto abbassai lo specchietto sistemandomi il trucco per “civettare” con lo sconosciuto, pratica del tutto nuova e sorprendente. Immaginai le mie mani fra i suoi jeans, scoprii il gioco della seduzione, meglio tardi che mai, e ne ero cosciente. Nella casa di Nuto lessi ad alta voce alcuni passi del romanzo in italiano, i tedeschi ascoltavano con attenzione e osservavano meticolosamente gli attrezzi presenti nel laboratorio, chissà cosa stavano provando. Mi faceva sempre un effetto strano entrare lì, mi accade ancora oggi: avverto l'odore del fuoco con cui Santina è stata bruciata, mi prende una stretta allo stomaco. Ricominciammo a muoverci. Le mani dello sconosciuto sul volante facevano volare la mia fantasia erotica mentre le nostre parole scalpitavano lontano nel viaggio di città e luoghi. “Tornerei sai a ogni anno vissuto” mi disse con la sua voce suadente e velluta, decisamente sexy e al contempo rassicurante. “Io no” risposi ”io sto bene adesso. Forse tornerei all'infanzia perché ero felice, ma non a 14, forse a 20, 30 e via così perché preferisco la felicità di adesso anche se meno spensierata e più consapevole piuttosto che quella di ieri”. Nel frattempo notai una vistosa cicatrice sul dorso della mano sinistra, mille ipotesi avevano stimolato la mia indole investigativa che accantonai, volevo fluire senza ragionamenti contorti, volevo lasciarmi andare in quella parte di altrove che mi ero ritagliata. “E invece io sì. Rivivrei ogni anno indietro, anche quelli difficili, anche quelli dell'adolescenza, perché ormai è solo un procedere per inerzia come se ci si potesse aspettare soltanto di sopravvivere. So che è così, è il ciclo della vita, e quindi non resta che essere felici per ogni giorno che c'è”. Aveva un retrogusto di nostalgia e di amarezza il suo discorso, sentivo farsi spazio dentro di me, il suo dolore era il mio. Bevemmo coi tedeschi del Moscato a Cannelli, il vino si scioglieva sul palato mentre stavamo annusando l'anima. Nel pomeriggio i nostri ospiti erano molto allegri, forse il formaggio, le storie di Pavese, le vigne avevano riempito i loro pensieri. Vollero sapere diverse cose di me, dei miei studi perché avevano apprezzato la presentazione. Eravamo uno strano gruppo ambulante. Nella casa di Pavese comprarono numerosi libri in italiano, io consigliai le poesie. Nel giardino antistante Manuel mi raccontò del Messico, di come sarebbe voluto tornare lì per vacanza ma di come assolutamente in quel momento e chissà per quanto tempo non avrebbe ancora potuto. Avrei voluto chiedere il perché, tacqui. Mi prese nostalgia per Cuba, per il rum bianco, per certi amori e per certi anni, per l'Argentina e per miei nonni e per altre passioni che non sarebbero mai tornate nemmeno con un nuovo viaggio. Quell'uomo raccontandomi di sé mi leggeva dentro. Nel rientro le nostre braccia si sfiorarono ed io sentivo mille brividi e mille immaginazioni percorrermi e per distrarmi parlavo senza tregua, sentivo il suo sorriso abbracciarmi, invisibilmente, mi scrutava senza guardarmi. Avevo le labbra secche. Arrivammo al tramonto nella piazza del paese, l'ultima corriera stava partendo e ci congedammo, i tedeschi mi regalarono una bottiglia di Barolo per ringraziare della compagnia e mi stupirono. Strinsi la mano di Manuel ed era strano, come salutare colui che per un giorno era stato un amico, un confidente, un complice. La collina dei mari del Sud ci guardava, mi fermai ancora un'oretta con i bambini che schiamazzavano nei paraggi, il rumore dei primi fuochi che si allestivano. Cosa fare? Non ero attrezzata per la seduzione. Come funzionava? Quale mossa, strategia, istinto, seguire? Sperai che in qualche modo ci rivedessimo per caso o non per caso, mi erano estranei motivi, aspettative, ero incapace di incorniciare tutto ciò e in fondo non era essenziale. Si stava facendo buio. Scrissi allo sconosciuto un messaggio per ringraziarlo, mi rispose affettuosamente. Sentii dentro di me tutte le lune e tutti i falò incendiarsi in un momento.
©️ErikaPucci

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