lunedì 4 luglio 2016

"La mia eredità" di Lorenzo De Donno


Photo Lorenzo De Donno

Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il suo coltello svizzero richiudibile. Cercò l'intacca giusta e, spingendo con l'unghia spessa del pollice, ne estrasse la lama più lunga, assecondando lo scatto della molla interna. L'acciaio brillante fece balenare, per un attimo, il riflesso della luce del sole. Quel coltello era l'oggetto al quale teneva di più, insieme al suo orologio e al rasoio “con la sicurezza”, che si apriva e richiudeva svitando e avvitando una rotellina alla base dell'impugnatura. 

 - Questo, un giorno, sarà tuo...- Mi aveva detto una volta, indicandomi il suo bel rasoio d'argento, mentre si faceva la barba seduto al tavolo da pranzo. - Sarà tuo, insieme al coltello svizzero e al mio orologio da taschino-. 

Lui l'aveva sempre fatta così, la barba, anche quando il progresso gli aveva portato in casa l'acqua corrente, e poi quella calda: con il catino appoggiato sul tavolo della cucina, apparecchiato con un asciugamano di lino spesso, tessuto al telaio, e un piccolo specchio rotondo, posto di lato. Intingeva il pennello nell'acqua, poi lo roteava nella ciotolina del sapone fino a quando non si sviluppava una schiuma densa, con la quale spennellava e massaggiava il viso per lunghi minuti. Poi si radeva con altrettanta lentezza, per non tagliarsi, chinandosi sul piccolo specchio per controllare, sciacquando di tanto in tanto il rasoio nel catino. Era l'unico momento in cui potevo vederlo fare delle smorfie. Per il resto della giornata rimaneva serio, come lo era anche nel giorno del suo matrimonio, raffigurato nella foto color seppia che era appesa al muro, montata in una cornice di noce chiaro e filtrata da un vetro dallo spessore irregolare. 

Quei tre oggetti rappresentavano il suo testamento, un testamento “virile” che non aveva potuto fare al figlio maschio, del quale porto lo stesso nome, morto tragicamente all'età di 10 anni. Pur essendo io ancora più piccolo di quello zio mai conosciuto, lui aveva sentito l' urgenza (forse prima di diventare troppo vecchio) di trasferirmi subito qualcosa, anche solo l'idea – perché ne fossimo convinti entrambi - che io rappresentavo la sua discendenza, anche se non portavo il suo cognome. Mi era piaciuta quella “promessa” che, valutata secondo i miei parametri di bambino, si traduceva nel fatto che il nonno mi avrebbe, prima o poi, regalato il suo coltello con il manico rosso. Il rasoio e l'orologio a cipolla mi lasciavano, all'epoca, francamente indifferente. Non avevo ancora gli strumenti per capirne il valore simbolico. 

Frugò nel fogliame lucido e verdissimo, schivando le spine aguzze ed interrompendo il frinire ossessivo di una cicala, mentre le altre continuarono, come un'eco che rimbalzava da un albero all'altro. Afferrò un piccolo limone tondeggiante e lo strappò dal picciolo, ruotando il polso. - Ecco – mi disse – sapevo che c'era, anche se siamo fuori stagione, fiorisce e fruttifica tutto l'anno. Questa pianta prende l'acqua in abbondanza perché ha buttato le radici nella cisterna lesionata che sta di lato-. 

Quel piccolo albero di limone cresceva a ridosso di una casupola disabitata, lontano dall'agrumeto, insieme a due cipressi, quasi coperto dalle fronde invadenti di un vecchio noce, nel campo che confinava con il nostro orto. L'affittuario che lo conduceva era buon amico del nonno e avevamo il permesso, peraltro reciproco, di scavalcare il muro a secco che divideva le due proprietà, nel punto ove era stato aperto nu quataru. Bastava fare attenzione al vecchio scurzune, un serpente nero senza coda, che diventava aggressivo e soffiava solo se si trovava messo alle strette, se non gli si lasciava una via di fuga. 

Controllò che il frutto non fosse guasto, allontanandoselo un po' dagli occhi azzurri, ormai presbiti, e lo strofinò fra le mani per ripulirlo da qualche residuo di polvere. Poi lo tagliò a metà e da ogni parte ne ricavò una fetta, buttando via le calotte di “pane” spugnoso, prive di polpa. Si portò una delle fette alle labbra, la assaggiò e poi la mangiò con gusto senza far trasparire alcuna smorfia. 

-Tieni - mi disse, porgendomi l'altro pezzo di limone - Mangia tutto insieme, scorza e polpa! - 

Esitai, immaginavo già il succo acidulo aggredirmi la lingua e scendermi nella gola, anzi ne ebbi la percezione, come se avessi già addentato quella fetta spessa. Tante volte avevo succhiato il limone, per gioco o per sfida, ma non sarei riuscito a mangiarne. Lui mi guardò contrariato e rifece il movimento di porgermi la fetta, la sua espressione decisa non mi dava scampo. Chiusi gli occhi e morsi. La sorpresa fu scoprire che era un limone dolce, dolcissimo, dal profumo intenso e il sapore delicato. Mangiarne la polpa così dolce insieme alla buccia, che rimaneva acre, mi sembrò una forzatura, strana ed incomprensibile. 

- Se chiama lima, sciamu... camina! -. Pulì il coltello con il fazzoletto e fece rientrare la lama lunga nel manico rosso, avviandosi verso il varco del muretto. 

©LorenzoDeDonno
Soundtrack: Anima Lunae, "Lu tiempu delle cirase"

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