martedì 16 giugno 2015

Ultima lettura: "Cassandra al matrimonio" di Dorothy Baker


Cassandra al matrimonio

Autore: Baker Dorothy (trad. Stefano Tummolini; postfazione Peter Cameron) ediz orig. 1962
Dati: 2014, 274 p., brossura
Editore: Fazi (collana Le strade)

[…] e ho pensato a quanto dev’essere difficile
mantenersi ligi al proprio dovere,
quando si è schiacciati tra l’ironia di alcuni
 e lo zelo di altri

Photo HelenTambo on Instagram
Leggere un libro usato, quindi acquistato e letto da qualcuno prima di te, è spesso un’esperienza alla scoperta delle umane sensibilità altre da noi. Capita così, quando trovi tra le pagine alcuni passi sottolineati, quelli che evidentemente hanno colpito il lettore che ti ha preceduto. Dopodiché sei lì a riconoscerti, oppure a chiederti che cosa in una certa frase, in un certo periodo, abbia potuto dar da pensare a chi ha letto prima di te quella frase, quel periodo. Bello, mi piace, perché il più delle volte si tratta di sentirti in qualche modo unito a qualcuno che non conosci -e non conoscerai mai, probabilmente-, in una corrispondenza che non potrai verificare a fondo ma che c’è stata in un certo momento, a distanza, anche quando i sentimenti non combaciano[1].
Come a volte accade, romanzi scritti in un tempo lontano e mai pubblicati in Italia, vengono scovati da editori assai sensibili e proposti al pubblico con la certezza di offrire una bella storia. Fazi lo ha già fatto con “Stoner” di John Edward Williams, contribuendo a creare un caso letterario, con “Il lungo sguardo” di Elizabeth Jane Howard e con “Cassandra al matrimonio”, con cui rischia di replicare il successo di storie che, nonostante siano ambientate -e soprattutto siano state scritte- in un passato abbastanza lontano, si affermano oggi per la loro attualità. Ciò che accomuna queste opere infatti è da una parte la modernità dei temi trattati, e dall’altra una freschezza di stile e di linguaggio, il cui merito è da ascrivere anche al lavoro dei traduttori (Stefano Tummolini per Williams e Baker e Manuela  Francescon per Howard), che ce le rende vicine.
Questa è la storia di Cassandra che, obtorto collo, torna da Berkeley -dove studia all’università- al ranch di famiglia per partecipare come damigella d’onore al matrimonio della sua gemella Judith. Non che non si fossero già separate fisicamente, l’una appunto a Berkeley e l’altra a New York, ma il matrimonio è un’altra cosa, il matrimonio significa separare ciò che la ragazza considera un tutt’uno, un’entità indivisibile, un connubio che non può essere dissacrato da un estraneo che si insinua e si porta via una metà indispensabile alla sopravvivenza dell’altra. Questo è il sentimento che accompagna Cassandra mentre torna a casa e nei tre giorni di permanenza al ranch, durante i quali cadono tutte le barriere, forzatamente tenute su dalla nonna e dal padre (la madre Jane è morta tempo prima) che conducono la loro esistenza e si preparano all’evento nuziale coerentemente con il loro modo di essere e incuranti del cataclisma che tutto questo comporterà nella vita della più debole delle due gemelle. Sì, perché malgrado l’ostentato cinismo, Cassandra è fragile (anche se Judith dice “c’è sempre stato un che di tigre, in Cassandra” p. 213), ha necessità di sostegno e di riconoscimento da parte di una sorella che ormai, matura, è interamente proiettata nel futuro (ma Cassandra confonde la maturità della sorella con una forma di mancanza di tatto e addirittura spietatezza, arriva anche a definirla ‘molto convenzionale’ e proprio per questo destinata ad essere felice, come se la felicità potesse risiedere nell’ordinarietà e viceversa come se l’originalità fosse l’anticamera dell’infelicità).
Cassandra è irrisolta, non sa immaginarsi fuori dalla coppia che fin dalla nascita ha formato con Judith, da cui la distanziano solo undici minuti, nel momento della nascita, e dalla quale ha viceversa sempre voluto distinguersi, a partire dal rifiuto di vestirsi in modo identico alla sorella, come vezzosamente avrebbe desiderato la loro nonna materna, salvo poi acquistare inconsapevolmente lo stesso abito, della stessa marca e dello stesso colore, già scelto dalla sua gemella per il giorno delle nozze. L’‘incidente’ dell’abito per la cerimonia di Judith sembra quasi minare la profonda e convinta esigenza delle gemelle di essere distinguibili almeno nell’abbigliamento, visto che fisicamente possono essere confuse facilmente: “Essere come noi non è facile, richiede una costante attenzione al dettaglio. Ci ho riflettuto tantissimo, ci abbiamo riflettuto entrambe. Come ho cercato di spiegare alla mia psicologa, si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile: perché, affinché ci possa essere un ponte, prima dev’esserci uno spazio da attraversare. E il vero progetto è il ponte.” (p. 124), ovvero la possibilità e la capacità di essere legate, mantenendosi a distanza. Anche questo (si distinguono? Non si distinguono? Da cosa si distinguono?) è uno dei cliché che il ‘mondo esterno’ rovescia addosso ai gemelli. Ed è quel cliché che Cassandra avrebbe voluto da sempre rovesciare, rispedire ai mittenti, mantenendo il legame intimo con quella parte di sé, sua sorella, che invece ora se ne sta andando per la sua strada.
Il racconto di questi tre giorni di preparativi psicologici al grande evento sono raccontati alternativamente dalle due sorelle, in tre parti (parla cassandra, parla judith e di nuovo parla cassandra), dove la voce di Cassandra è quella che prevale. E lo stile che caratterizza le parti in cui le voci delle gemelle si cambiano il turno rispecchia il temperamento delle due ragazze, tanto indistinguibili fisicamente quanto nettamente identificabili caratterialmente.
Ho trovato la sintassi di Dorothy Baker molto moderna (non dimentichiamo che l’Autrice, originaria del Montana, è nata nel 1907), ma non so quanto questo si debba alla traduzione: i periodi sono molto ritmati, c’è una prevalenza di frasi brevi e la paratassi è preponderante, soprattutto nei soliloqui di Cassandra. Anche i dialoghi occupano una parte importante della narrazione, tanto che si potrebbe pensare a una sceneggiatura già quasi costruita.
Molto di Cassandra, del suo carattere e della sua storia viene analizzato da Peter Cameron nella postfazione al romanzo, ma lui lo può fare proprio perché il suo commento si legge alla fine, a carte scoperte. Lo scritto di Cameron rappresenta quindi un motivo in più per leggere questa storia, anche perché offre ulteriori spunti di riflessione rispetto a quelli che si maturano ad una prima lettura del romanzo di Dorothy Baker, con interessanti incursioni nell’unica prosa di Sylvia Plath, il romanzo “La campana di vetro” del 1963 la cui tormentata protagonista tanto ricorda la nostra Cassandra Edward (che nasce un anno prima, nel 1962).


[1] E questo è per dire dei vantaggi degli acquisti di libri su circuiti dell’usato, di cui gli studi di mercato non tengono abbastanza conto quando si parla di quanto si legge/non si legge in Italia (quando poi sono proprio i lettori più forti che si orientano verso il mercato del libro usato, per ovvi motivi di sopravvivenza economica, in prima istanza).

2 commenti:

  1. Questo libro mi incuriosisce da quando è uscito, ho la sensazione che sia il mio genere. Prima o poi lo farò mio!
    La Fazi ultimamente ci sta regalando grandi cose: oltre a Stoner (stupendo), devo ringraziarla per avermi fatto conoscere Elizabeth Strout, amore a prima lettura per quel che mi riguarda.
    Il lungo sguardo ce l'ho in eBook e devo ancora leggerlo.
    E sempre a proposito di Fazi in questi giorni sto leggendo Eureka Street di Robert McLiam Wilson: un altro motivo per essere grata a questa casa editrice preziosissima!

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    1. Credo che Fazi sia attualmente tra le case editrici più audaci: scava nel passato e trova chicche imperdibili!

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