“Signora, è suo il gatto?”
“Quale gatto? Io non ho
gatti.”
“Non so, gironzola qui dall’altro
ieri, pensavo fosse suo”
Il giardiniere lavorava a
casa nostra da tre giorni, c’era molto da fare, siepi che avevano perso la
linea, rinvasi di piante ormai troppo cresciute, rinnovo delle stagionali con i
fiori. Impossibile accorgersi che nel giardino si era introdotto un gatto in
particolare, in genere andavano e venivano, i gatti del vicinato e quelli di
strada la facevano un po’ da padroni, bastava non dar loro troppa confidenza,
non offrire cibo e non si fermavano mai, si limitavano un po’ a scorrazzare sul
prato e ad arrampicarsi su viburno o sul finto pepe, poi se ne andavano. Non
diedi peso quindi a quanto diceva Paolo, sicuramente si trattava del solito
micio di passaggio.
La mattina successiva
-giardino silenzioso, lavori conclusi, finalmente un po’ di ordine- uscii a
stendere i panni, ero di fretta e dovevo correre a lavorare: ebbi l’impressione
di sentire un miagolio flebile, come un richiamo abbastanza vicino, ma non
abbastanza da poter capire da dove provenisse. Andavo di corsa, non potevo
mettermi certo a cercare e poi anche se fosse stato un gatto nascosto sotto
qualche cespuglio, che poteva mai volere? Se ne sarebbe andato.
Tornai da lavoro, misi su
un pranzo veloce, mentre aspettavo che l’acqua arrivasse a bollore per calare
la pasta, andai a sistemare le stanze da letto, feci partire una lavatrice,
svuotai la lavastoviglie e uscii in giardino a raccogliere la biancheria dai
fili da cui sventolavano dalla mattina. Il miagolio non si fece attendere,
sembrava proprio che un gatto mi chiamasse, forse mi aveva visto e voleva
attirare la mia attenzione. Sempre di fretta, non potevo perdere tempo a
cercarlo e poi non si dice sempre che i gatti sono autonomi, non hanno bisogno
di nessuno?
Dopo pranzo mi sbrigai a
caricare la lavastoviglie, la feci partire e misi su un caffè. Con la tazza
fumante uscii nuovamente in giardino: ora avevo tempo e mi sedetti sui gradini
che portavano al prato.
Ed eccolo. Si avvicinò
lentamente, dapprima guardingo e poi sempre più audace. Piccolo, bianco con
qualche macchia grigia che sfumava nel marroncino, gli occhi gialloverdi. Lo
guardai, si sentì forse incoraggiato, allungai una mano e non si ritrasse. Mi si
avvicinò e cominciò a girarmi attorno, strusciandosi contro i miei fianchi,
sulla schiena: seduta, lo seguivo con lo sguardo fin dove arrivavo quando mi svoltava
dietro la schiena e con gli occhi lo ritrovavo dalla parte opposta, mi cercava
anche lui con lo sguardo, facendo le fusa. Le fusa? Così forti? Si sentono così
forti le fusa di un gatto? Gli do qualcosa da mangiare? Non ho mai avuto un
gatto, cosa mangia un gatto? Tonno? Può andar bene?
“Andrea corri, vieni, io
adesso lo prendo in braccio, vediamo se è maschio o femmina.”
Maschio. Adesso dobbiamo
dirlo a papà, dici che ce lo farà tenere?
Al telefono: “Gianni, è
arrivato un gattino in giardino, secondo me ce l’hanno buttato, ho provato ad
ignorarlo, non se ne vuole andare, mi sta sempre intorno, appena esco mi viene
incontro, vuole carezze!” “Non se ne parla, giusto il gatto manca a casa nostra…”
“Ti prego dai, è bellissimo, vedrai che, quando torni domani e lo vedi, te ne
innamori!” “Non farlo entrare in casa.”
Senti, intanto ti scelgo
un nome: “Andrea, troviamogli un nome.” “Cerco su Google…” “Certo, il
calendario non si addice per un gatto.”
Diventò Pepe ed ebbe la
sua cesta, una notte fuori casa, sulla veranda della cucina, poi dentro. E la
sua ciotola. Perché Gianni, tornando il giorno dopo a casa, lo prese in braccio
e se ne incantò.
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