mercoledì 17 aprile 2013

Frequentando salotti letterari: "Partigiano Inverno" di Giacomo Verri


Partigiano Inverno

Autore: Verri Giacomo
Dati: 2012, 240 p., brossura
Editore: Nutrimenti (collana Greenwich)



... Diretti come certe littorine all'entropia emmoragica delle verità.


A volte capitano letture che ci lasciano perplessi, che non riescono a conquistarci, o che più semplicemente non ci piacciono e non ne salviamo niente. I motivi possono essere vari: la storia non ci appassiona, è scritta male, lo stile non ci attira. La colpa non è di nessuno, spesso è solo questione di gusti, difficilmente un romanzo è assolutamente bello o assolutamente brutto per tutti.
Il caso di questo romanzo di Giacomo Verri è particolare. Il titolo promette una storia che si intravede come continuatrice di una tradizione che nel neorealismo ha visto la sua espressione maggiore e ci si aspetta che l’autore abbia fatto proprie le lezioni dei racconti di Resistenza fatti da Calvino, Cassola, Fenoglio, Pavese (che però di quegli anni difficili sono stati protagonisti). Giacomo Verri invece è giovanissimo e quella Storia può solo averla studiata a scuola e sentita narrata da un nonno. In realtà l’occasione gli viene dalla notizia di un romanzo, che però non ha mai visto la luce, di tale Remo Agrivoci, il quale avrebbe voluto scrivere una storia vera -a lui contemporanea- e aveva annunciato di essere in procinto di farlo. Verri bene lo spiega nella postfazione a “Partigiano Inverno”:  fa sua l’intenzione di Remo e scrive al suo posto. Probabilmente però ha tradito quello che doveva essere il primo narratore di questa storia: se Agrivoci avesse scritto il suo romanzo, forse la sua voce sarebbe stata somigliante a quelle di Calvino, Cassola, Fenoglio o Pavese, ma siamo nel campo delle ipotesi e questo non lo sapremo mai.
Abbiamo questo romanzo, di questo giovane scrittore, che ha colto l’occasione per fare un esperimento stilistico che però paradossalmente rappresenta il più grande limite della sua opera.
Intanto la storia: siamo in Valsesia nel dicembre del 1943, Natale si avvicina e Italo prepara il suo presepe, aiutato dal nipote Umberto, dieci anni. Jacopo, un giovane partigiano, vive la sua Resistenza a fianco del comandante Cino, sulle montagne. Questi sono i tre protagonisti le cui vicende si intrecciano tra il sogno del piccolo Umberto di unirsi un giorno ai partigiani, la scelta di Jacopo di vivere la Storia in prima persona e l’affronto di un arresto immotivato per il maturo Italo. In realtà questa storia l’ho desunta della lettura della sinossi del libro: avendo letto la versione in ebook, nessun risvolto di copertina mi ha aiutato a orientarmi sul tipo di trama che avrei incontrato, quindi mi sono affidata al solo titolo.
Ho cominciato a leggere, ma immediatamente mi sono scontrata con una lingua ostica, volutamente criptica, ricercata, ardua, provocatoria: dire che la lingua in “Partigiano Inverno” è usata in modo ardito equivale a usare un eufemismo. Il lessico si fa sempre più complesso; all’inizio le parole ‘difficili’ sono in una quantità quasi accettabile, sembrano dare ricercatezza al testo, via via che si procede nella lettura, aumentano in un climax sempre più ripido e faticoso. Mi sono ritrovata concentrata più sulle parole (che andavo appuntando su un foglio) che sulla storia, di cui non stavo capendo granché (e questo a scapito della storia stessa). Qui c’è di tutto: dialetto, lessico familiare, arcaismi, hapax, neologismi, tecnicismi che distraggono il lettore e lo allontanano dalle vicende narrate. L’autore si compiace di involversi in un esercizio stilistico di cui però non si comprende lo scopo: il romanzo sfugge a qualsiasi definizione e forse è questo l’obiettivo di Verri, non farsi incasellare in un genere. Espressioni come piede sifulo, sogni ustolati, bogomili, onninamente, stissa di ruggine, non aiutano la storia, dalla quale si finisce con l’allontanarsi, senza riuscire a partecipare di vicende umane che invece tanto potrebbero appassionare il lettore.
Può essere che il fatto di non essere riuscita a farmi prendere dalla musicalità dell’insieme sia un mio limite, anzi sicuramente lo è, però penso anche che un libro, una storia, sia scritto per chi lo leggerà, quindi anche per me che l’ho acquistato.
Inoltre ho pensato all’immediata ricaduta sul lettore ‘debole’, sui giovani di cui lamentiamo la scarsa attitudine alla lettura: se in Italia legge solo una persona su due (e parliamo di poco più di una decina di libri all’anno per essere considerati lettori ‘forti’, quando in Germania ce ne vogliono una cinquantina), proporre ai ragazzi una lettura del genere significa disamorarli completamente, respingerli. Un esempio su tutti: l'espressione termopili valsesiane è, secondo me, fortemente selettiva, poichè oggi, con la storia che si fa a scuola, le Termopili si incontrano forse una sola volta (se, pure), un giovane non capisce la citazione.
Il sospetto che questo esercizio di stile resti fine a se stesso è fortissimo: frasi come cunato dal ramificare lento della voce avuncula, cioè ‘cullato dalla voce dello zio’, tolgono efficacia alla scena, che invece è semplicissima, intima, familiare e non richiede alcun preziosismo lessicale per essere descritta. Si sfiora il ridicolo in espressioni come piedi sorbettati invece che ‘congelati’, alla ricerca forse dell’effetto sorprendente: a chi giova tanta leziosità?
Questo libro va al di là delle intenzioni stesse del suo autore: è un libro che innamora o che si fa odiare. L’ho letto fino in fondo, contravvenendo al terzo dei diritti imprescrittibili del decalogo di Pennac, cioè quello di non finire un libro, perché volevo vedere fino a che punto la sfida tra scrittore e lettore si spingeva, fino a che livello l’asticella si sarebbe alzata. Il risultato finale è che mi sono sentita svuotata, affaticata, delusa da un esercizio di lettura inutile. Peccato.



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