Partigiano
Inverno
Autore:
Verri Giacomo
Dati: 2012, 240 p., brossura
Editore: Nutrimenti (collana Greenwich)
Dati: 2012, 240 p., brossura
Editore: Nutrimenti (collana Greenwich)
... Diretti
come certe littorine all'entropia emmoragica delle verità.
A
volte capitano letture che ci lasciano perplessi, che non riescono a
conquistarci, o che più semplicemente non ci piacciono e non ne salviamo
niente. I motivi possono essere vari: la storia non ci appassiona, è scritta
male, lo stile non ci attira. La colpa non è di nessuno, spesso è solo
questione di gusti, difficilmente un romanzo è assolutamente bello o
assolutamente brutto per tutti.
Il
caso di questo romanzo di Giacomo Verri è particolare. Il titolo promette una
storia che si intravede come continuatrice di una tradizione che nel
neorealismo ha visto la sua espressione maggiore e ci si aspetta che l’autore
abbia fatto proprie le lezioni dei racconti di Resistenza fatti da Calvino,
Cassola, Fenoglio, Pavese (che però di quegli anni difficili sono stati
protagonisti). Giacomo Verri invece è giovanissimo e quella Storia può solo
averla studiata a scuola e sentita narrata da un nonno. In realtà l’occasione
gli viene dalla notizia di un romanzo, che però non ha mai visto la luce, di
tale Remo Agrivoci, il quale avrebbe voluto scrivere una storia vera -a lui
contemporanea- e aveva annunciato di essere in procinto di farlo. Verri bene lo
spiega nella postfazione a “Partigiano Inverno”: fa sua l’intenzione di Remo e scrive al suo
posto. Probabilmente però ha tradito quello che doveva essere il primo
narratore di questa storia: se Agrivoci avesse scritto il suo romanzo, forse la
sua voce sarebbe stata somigliante a quelle di Calvino, Cassola, Fenoglio o
Pavese, ma siamo nel campo delle ipotesi e questo non lo sapremo mai.
Abbiamo
questo romanzo, di questo giovane scrittore, che ha colto l’occasione per fare
un esperimento stilistico che però paradossalmente rappresenta il più grande
limite della sua opera.
Intanto
la storia: siamo in Valsesia nel dicembre del 1943, Natale si avvicina e Italo
prepara il suo presepe, aiutato dal nipote Umberto, dieci anni. Jacopo, un
giovane partigiano, vive la sua Resistenza a fianco del comandante Cino, sulle
montagne. Questi sono i tre protagonisti le cui vicende si intrecciano tra il
sogno del piccolo Umberto di unirsi un giorno ai partigiani, la scelta di
Jacopo di vivere la Storia in prima persona e l’affronto di un arresto
immotivato per il maturo Italo. In realtà questa storia l’ho desunta della
lettura della sinossi del libro: avendo letto la versione in ebook, nessun
risvolto di copertina mi ha aiutato a orientarmi sul tipo di trama che avrei
incontrato, quindi mi sono affidata al solo titolo.
Ho
cominciato a leggere, ma immediatamente mi sono scontrata con una lingua
ostica, volutamente criptica, ricercata, ardua, provocatoria: dire che la
lingua in “Partigiano Inverno” è usata in modo ardito equivale a usare un
eufemismo. Il lessico si fa sempre più complesso; all’inizio le parole
‘difficili’ sono in una quantità quasi accettabile, sembrano dare ricercatezza
al testo, via via che si procede nella lettura, aumentano in un climax sempre
più ripido e faticoso. Mi sono ritrovata concentrata più sulle parole (che
andavo appuntando su un foglio) che sulla storia, di cui non stavo capendo granché
(e questo a scapito della storia stessa). Qui c’è di tutto: dialetto, lessico
familiare, arcaismi, hapax, neologismi, tecnicismi che distraggono il lettore e
lo allontanano dalle vicende narrate. L’autore si compiace di involversi in un
esercizio stilistico di cui però non si comprende lo scopo: il romanzo sfugge a
qualsiasi definizione e forse è questo l’obiettivo di Verri, non farsi
incasellare in un genere. Espressioni come piede
sifulo, sogni ustolati, bogomili, onninamente, stissa di ruggine,
non aiutano la storia, dalla quale si finisce con l’allontanarsi, senza
riuscire a partecipare di vicende umane che invece tanto potrebbero
appassionare il lettore.
Può
essere che il fatto di non essere riuscita a farmi prendere dalla musicalità
dell’insieme sia un mio limite, anzi sicuramente lo è, però penso anche che un
libro, una storia, sia scritto per chi lo leggerà, quindi anche per me che l’ho
acquistato.
Inoltre
ho pensato all’immediata ricaduta sul lettore ‘debole’, sui giovani di cui lamentiamo
la scarsa attitudine alla lettura: se in Italia legge solo una persona su due
(e parliamo di poco più di una decina di libri all’anno per essere considerati
lettori ‘forti’, quando in Germania ce ne vogliono una cinquantina), proporre
ai ragazzi una lettura del genere significa disamorarli completamente,
respingerli. Un esempio su tutti: l'espressione termopili valsesiane è, secondo me, fortemente selettiva, poichè
oggi, con la storia che si fa a scuola, le Termopili si incontrano forse una
sola volta (se, pure), un giovane non capisce la citazione.
Il
sospetto che questo esercizio di stile resti fine a se stesso è fortissimo:
frasi come cunato dal ramificare lento
della voce avuncula, cioè ‘cullato dalla voce dello zio’, tolgono efficacia
alla scena, che invece è semplicissima, intima, familiare e non richiede alcun
preziosismo lessicale per essere descritta. Si sfiora il ridicolo in
espressioni come piedi sorbettati invece che ‘congelati’, alla
ricerca forse dell’effetto sorprendente: a chi giova tanta leziosità?
Questo libro va al di là delle intenzioni stesse del suo
autore: è un libro che innamora o che si fa odiare. L’ho letto fino in fondo,
contravvenendo al terzo dei diritti imprescrittibili del decalogo di Pennac,
cioè quello di non finire un libro, perché volevo vedere fino a che punto la
sfida tra scrittore e lettore si spingeva, fino a che livello l’asticella si
sarebbe alzata. Il risultato finale è che mi sono sentita svuotata, affaticata,
delusa da un esercizio di lettura inutile. Peccato.
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