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lunedì 20 giugno 2016

Ultima lettura: "Bruges la morta" di Georges Rodenbach

L’uomo si stanca di posseder sempre lo stesso bene. 
Non si apprezza la felicità, così come la salute, 
se non attraverso la sua negazione. 
E l’amore stesso consiste nella propria intermittenza. 

Lo scorso 9 giugno è uscito per Fazi questo classico della letteratura decadente dello scrittore belga Georges Rodenbach, uscito a puntate su Le Figaro nel mese di febbraio 1892, poi in edizione definitiva nel 1914 presso l’editore Ernest Flammarion di Parigi. In Italia è stato pubblicato la prima volta nel 1907 dall’editore Voghera di Roma (edizione non definitiva, perché rivisitata dall’Autore e licenziata definitivamente sette anni più tardi), poi nel 1920 (Milano, editore Facchi) in una versione adattata per il teatro, successivamente da Rizzoli nel 1955.
In realtà non si tratta di una vera e propria novità neanche per Fazi, che lo ha già pubblicato nel 1995, nella collana Le porte, con la cura di Emanuele Trevi e la presentazione di Marco Lodoli, inserita anche in questa nuova edizione, che si pregia di una copertina molto più significativa di quella precedente. Questa sembra essere una delle cifre caratteristiche della casa editrice negli ultimi anni: una cura particolare nella scelta delle immagini di copertina, che spesso –insieme a certi titoli- è di grande richiamo. Tanto più in questo caso, se pensiamo che il romanzo nasce in origine come un esperimento anche visivo, dal momento che l’autore voleva corredare la sua opera con delle fotografie della città (qui le immagini dall’archivio multimediale di Wikipedia) che fossero rappresentative di una certa atmosfera, mirabilmente ricreata con le parole.
Bruges è quindi indubbiamente la protagonista di questo romanzo (“Le città specialmente posseggono ognuna una personalità propria, uno spirito autonomo, un carattere riconoscibile che corrisponde alla gioia, al nuovo amore, o alla rinuncia, alla vedovanza. Ogni città è uno stato d’animo: e quando vi si soggiorna, questo comunica, si trasmette a noi come un fluido che, respirato con l’aria, entra a far parte del nostro corpo”, cap. X): è la città cupa e bigotta, dalle banchine di pietra e dai canali gelati, dalle abitazioni chiuse e dagli argini di muraglia a protezione delle testate dei ponti, dove Hugues Viane si rifugia, per coltivare nella solitudine il ricordo della giovane moglie Ofelia, di cui è rimasto prematuramente vedovo.
Il ricordo della giovane moglie è alimentato dalla venerazione delle sue reliquie, abiti e oggetti appartenuti alla donna, fino addirittura a una treccia dei suoi capelli, conservata in una teca di vetro.
A sconvolgere l’esistenza del vedovo sarà l’incontro fortuito con Jane, giovane attrice le cui fattezze sembrano richiamare esattamente quelle di Ofelia. La somiglianza sorprendente tra Jane e Ofelia si rivela ben presto illusoria e la constatazione di quanto, a differenza della moglie morta, la giovane attrice sia capricciosa e arrivista, bugiarda e frivola, getta Huges in un profondo sconforto, fino all’epilogo tragico del rapporto tra i due.
Molte sono le suggestioni che questo romanzo ispira: nelle bugie di Jane ho ritrovato quelle della cocotte Odette, della quale s’innamora Charles Swann (“Un amore di Swann” nel primo volume del ciclo della Recherche di Marcel Proust “Dalla parte di Swann”, 1913), nello sdoppiamento di Ofelia, quello di Dorian Gray nel suo ritratto (Oscar Wilde pubblicò il suo romanzo nel 1890, due anni prima dell’uscita su Le Figaro di “Bruges la morta”).
Inoltre il tema della morte e dei ‘ritorni’ sotto forme simili rappresentano un topos letterario e cinematografico molto frequentato in ogni tempo, basti ricordare i feuilleton di Carolina Invernizio (le cui opere sono state scritte tra il 1877 e il 1920), “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock (1958), basato sul romanzo “D'entre les morts” di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, la telenovela brasiliana in costume “Marina”, basata sul romanzo della scrittrice Carolina Nabuco “A sucesora” (1934) e si potrebbero richiamare molti altri esempi, tutti riferibili al mito classico di Orfeo e Euridice.
Sicuramente forte di una traduzione agile, il romanzo non risente dell’età, anche se il tema e l’atmosfera torbida e misteriosa certamente richiamano a una letteratura superata.
Colpisce lo stretto legame con la città, che viene quasi personificata dal protagonista che la riconosce come incarnazione dei suoi rimpianti: “Bruges era la sua morta, e la sua morta era Bruges. Tutto era unito da un identico destino: era Bruges-la-morta, anch’essa sepolta nella tomba dei suoi quais di pietra”, cap. II). 



Photo HelenTambo on Instagram



Bruges la morta 
Autore: Georges Rodenbach 
Traduzione: Catherine McGilvary 
Presentazione: Marco Lodoli 
Dati: 2016, 106 p., brossura; ePub 272,7 KB, PDF 911,6 KB 
Editore: Fazi (collana Le strade) 
Prezzo: € 15,00 (eBook € 6,99) 
Giudizio su Goodreads: 4 stelline

domenica 22 marzo 2015

Sul comodino: "Uno, nessuno e centomila" di Luigi Pirandello


Uno, nessuno e centomila

Autore: Pirandello Luigi
Dati: 2003, 190 p., rilegato; I ediz. Bemporad, Firenze 1926
Editore: Rizzoli - Corriere della Sera (collana I Grandi Romanzi Italiani)

Appena mi tocco, mi manco

Sono grata al lavoro che faccio per le possibilità che continuamente mi offre di leggere, rileggere, scoprire e riscoprire autori della nostra storia letteraria che forse molti relegano tra i ricordi studenteschi, senza avere più il desiderio di tirarli fuori dalla naftalina.
E invece i Grandi Scrittori non dormono solo nei manuali di storia della letteratura -analizzati, sezionati, interrogati, scomposti-, ma continuano ad aspettare quei lettori che, per caso o per volontà, abbiano ancora voglia di prendere in mano uno dei loro libri, in edizione integrale e non commentata.
Photo HelenTambo on Instagram

Quest’anno sto sperimentando #unlibroalmese con i miei ragazzi, a scuola: una selezione di libri che leggiamo nell’arco del mese, ognuno con i suoi ritmi e i suoi tempi, e che ‘riscriviamo’ su Twitter, seguendo il metodo TwLetteratura. Tra i libri scelti per coprire l’intero anno scolastico, stiamo leggendo in questo mese di marzo “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello e la cosa forse più stupefacente è che non è stato un titolo proposto da me, l’insegnante, ma da una studentessa, una ragazza di diciotto anni. Non so da dove le sia venuto questo desiderio, cosa sapesse di Pirandello e di questo romanzo, che dello scrittore siciliano, premio Nobel per la Letteratura nel 1934 è stato l’ultimo.
Non voglio dire della storia di Vitangelo Moscarda nulla che non si possa trovare sui libri di letteratura, su Wikipedia o sui siti specializzati, se non che, sintetizzando al massimo, si tratta della lucida e spietata analisi che un uomo, Moscarda appunto, fa di se stesso in quanto scomponibile in tanti Moscarda-Vitangelo-Gengè quanti sono gli sguardi che si posano su di lui, a partire dal suo stesso, guardandosi allo specchio. L’analisi è lucida, ma sfocerà nella follia, quando il protagonista comprenderà che quello stato è l’unico in cui si sente consapevole e libero (ricordando in questo le novelle “La carriola” e “Il treno ha fischiato”, solo per citarne un paio dove il tema della follia come fuga dalla realtà è centrale).
Ciò che in questa lettura mi sta piacevolmente sorprendendo sono le frasi che incontro e che mi fanno pensare a situazioni che mi si presentano con una certa frequenza, in questo periodo
; sarà forse perché quando leggiamo un romanzo abbiamo sempre bisogno di trovare agganci con il nostro vissuto, fatto è che mai come adesso considero una fortuna leggere questa storia.
L’intransigenza che spesso proviamo verso gli altri, più che per noi stessi (mentre è proprio verso di noi che dovremmo essere più severi), si ritrova nelle osservazioni a proposito degli atti compiuti: "quando un atto è compiuto, è quello”, compiamo un’azione che è solo una delle tante che potremmo compiere, vi restiamo agganciati e veniamo per quella giudicati da altri
ed è profondamente ingiusto essere giudicati per un gesto, una battuta, una leggerezza delle tante che potremmo compiere in buona fede. Il problema è che non siamo mai disposti a riconoscere la buona fede negli altri, quanto invece vogliamo che ci sia riconosciuta la nostra.
Moscarda è pazzo perché ne ha coscienza. E gli altri? Tutti quelli che percorrono la stessa strada strada? Si dicono savi, dice Pirandello, non hanno la consapevolezza di non essere quello che credono di essere.
Succede spesso. Ma quanto Pirandello dovremmo leggere tutti noi, che pensiamo di essere gli unici ad aver ragione?

NB: l’edizione a cui fa riferimento la scheda in apertura è quella edita dalle edizioni Rizzoli-Corriere della Sera, per la bellissima collana “I Grandi Romanzi Italiani”, pubblicata ormai più di dieci anni fa, ed è quella che sto effettivamente leggendo.