domenica 4 agosto 2013

SapereSapori: la cialledda di Mammà


Ho una fotografia in bianco e nero impressa nella mente, la ricordo e provo a descriverla a memoria. Si vede il piazzale di Villa Elena ad Abbella, sotto si stende Fasano e sull’orizzonte c’è il mare, perché la giornata è limpida e si vede fino a lontanissimo; ci sono le sorelle di mia madre, zia Leo e zia Mara, pronta a uscire, la borsa di cuoio a tracolla, forse qualcuno la stava aspettando, e poi mia madre con Sergio che era piccolo in braccio, infine nonna Elena, anzi Mammà, come la chiamavano i figli e come anche noi nipoti avevamo imparato a identificarla.
Nonno Tonino doveva essere morto da poco, lasciandola vedova a cinquanta anni e con cinque figli ancora da sistemare, e Mammà non si tingeva più i capelli, cosa che riprese a fare più tardi, restituendoci la sua figura alta ed elegante, raffinata nel suo biondo cenere scuro.
In quella foto indossa una vestaglia nera a fiori grandi celesti e bianchi, trapuntata. Faceva freddo lassù ad Abbella, anche se era ancora agosto. Per noi che dovevamo tornare in Toscana dopo le lunghe vacanze salentine trascorse a casa dell’altra nonna, Abbella era un po’ la camera di decompressione, dove cominciavamo ad abituarci a temperature diverse, dopo la canicola della piena estate.
Nonna Elena sembrava essere passata lì per caso e fermata a margine del gruppo per entrare anche lei nella foto, gli immancabili giornali sotto il braccio. Vegliava la notte, mentre tutti dormivano, leggendo e scrivendo i suoi versi, e andava a dormire all’alba, così la sua mattina non cominciava prima delle 11. Di conseguenza gli orari in quella casa erano tutti sballati, il pranzo non era mai prima delle 14, spesso non si sapeva nemmeno quanti saremmo stati a tavola, è così nelle case dove ci sono molti figli e anche quelli che sono andati via poi tornano portandosi dietro consorti e prole.
Photo HelenTambo on Instagram
Associo quel piazzale ai tavolini di ferro rotondi e alla cialledda, che rappresentava la colazione della tarda mattinata. Non si buttava nulla, tanto meno il pane raffermo, anche per una specie di rispetto quasi religioso verso quel cibo divino, la base dell’alimentazione e della Fede: pane ammollato nell’acqua e strizzato, pomodori maturi a pezzetti, olio di oliva, origano e aglio. Il tutto in una capiente coppa da cui si mangiava con le mani, con l’acqua e l’olio che scolavano lungo la mano e l’avambraccio e allora dovevi avere qualcosa per asciugarti, uno strofinaccio, e intanto ti sporcavi. Ma tanto, bambini, stavamo in mutande e canottiera, quelle di cotone bianco a costine, non sentivamo l’aria frizzante della collina.
Intorno a quella coppa di cialledda poteva arrivare chiunque. Bastava che qualcuno scendesse la scala di pietra che dalla strada portava al piazzale ed era invitato a mangiare, tanto se finiva non ci voleva nulla a farne ancora, pane, pomodori, olio e origano non mancavano mai.
Un cibo semplice, come tutti quelli che si mangiavano a casa di Mammà: la pastasciutta con un sugo di pomodoro che a lei veniva arancione (una volta mi disse che ci metteva dentro un po’ di latte, mentre bolliva sul fuoco) ed era dolce e cremoso, le scaloppine con il prezzemolo e la cipolla, la mozzarella in carrozza. E la pasta al forno, il suo piatto forte, che faceva il giorno del suo onomastico, il 18 agosto, riunendoci tutti: una pasta ‘imbottita’ che cuoceva in un pentolone alto nel forno a legna, ziti spezzati che facevano la crosticina che poi tutti si contendevano, perché sapeva di legna resinosa bruciacchiata.
Ma è alla cialledda che rimando i miei ricordi bambini, con le ombre degli alberi sul piazzale e i piedini nudi sull’impiantito.

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