Cuore Cavo
Autore: Di Grado Viola
Dati: 2013, 166 p., brossura
Dati: 2013, 166 p., brossura
Photo HelenTambo on Instagram |
Editore: E/O (collana Dal mondo)
Lo dichiaro immediatamente: questo romanzo o piace
immensamente o non piace, non credo esistano vie di mezzo, non una scala di
grigi tra cui scegliere, o è nero o è bianco.
A me è piaciuto, senza però. Proprio perché non ci sono
mezze misure.
Non conoscevo l’autrice, alla sua seconda prova con questa
storia originale e inquietante, per quanto il suo nome, Viola, mi suggerisse un
non so che di cupo, funereo, probabilmente per associazione con il colore, che
insieme al nero facilmente si collega al lutto. Forse anche la copertina del
libro, anche lei in una sfumatura viola scuro che vira al blu, con una testa
stilizzata che sembra fiorire mentre si disgrega, suggeriva al mio immaginario
-del tutto ignaro di ciò che andava ad incontrare- qualcosa che sottilmente si
sarebbe allacciato alla morte. Ma queste ovviamente sono elucubrazioni, non è
che se una si chiama Viola deve per forza suggerire immagini tetre.
Volutamente non avevo letto nulla intorno a Viola Di Grado e
al suo libro: senza saperlo però, con le mie fantasie, mi ero avvicinata alla
realtà. Non so se in questo abbia inconsciamente influito un mio interesse
tendenzialmente naturale verso argomenti cimiteriali, come era successo con "I funeracconti" di Benedetta Palmieri ,
dove però l’argomento era chiaro da subito, fatto è che mi sono trovata subito
immersa in un’atmosfera a metà tra il lugubre e lo scientifico, in una miscela
di temi sapientemente combinati: la morte, l’amicizia, l’amore, la madre. Che
detti così sembrano qualcosa di abbastanza comune, su cui si è scritto tanto e
si continuerà a scrivere. Ma ciò che di un insieme di ingredienti fa una
pietanza spettacolare sono le combinazioni, i metodi di cottura, gli accostamenti:
insomma, è lo scrittore che fa la differenza, con la sua capacità di aggiungere
l’ingrediente segreto, il tocco dello chef, non gli argomenti.
Dorotea Giglio è una studentessa di venticinque anni, laureanda in biologia: sceglie una mattina estiva per suicidarsi. Da quel momento il racconto si snoda con la descrizione accuratissima di ciò che accade al suo corpo chiuso nella bara. L’autrice deve avere approfondito le sue conoscenze biologico-chimico-fisiologiche sulla corruzione della materia. C’è una dovizia di particolari che giustifica il ricorso ad un lessico altamente specialistico, molto ricco; ecco così che la lingua è varia, si alternano momenti lirici a tecnicismi molto spinti, il tutto a comporre una prosa chiara, fluida, scorrevole come un’autostrada diretta al mare in pieno inverno (e d’altronde Dorotea, da viva e per come l’abbiamo conosciuta, non potrebbe andare altrove, se non al mare in pieno inverno). Mentre ci racconta in prima persona cosa accade al suo corpo giorno per giorno, quali organismi (loro, viventi) intervengono a corrompere i suoi organi secondo una gerarchia molto precisa, come si sente nonostante sia morta, vedendosi disfare lentamente e inesorabilmente, c’è una vita fuori da quella bara, dove Dorotea sembra muoversi come un fantasma. E c’è un paesaggio urbano, quello di Catania, descritto con precisione in un percorso immaginario nella prima pagina, e poi di altri scorci siciliani, con lo sfondo dell’Etna.
Dorotea Giglio è una studentessa di venticinque anni, laureanda in biologia: sceglie una mattina estiva per suicidarsi. Da quel momento il racconto si snoda con la descrizione accuratissima di ciò che accade al suo corpo chiuso nella bara. L’autrice deve avere approfondito le sue conoscenze biologico-chimico-fisiologiche sulla corruzione della materia. C’è una dovizia di particolari che giustifica il ricorso ad un lessico altamente specialistico, molto ricco; ecco così che la lingua è varia, si alternano momenti lirici a tecnicismi molto spinti, il tutto a comporre una prosa chiara, fluida, scorrevole come un’autostrada diretta al mare in pieno inverno (e d’altronde Dorotea, da viva e per come l’abbiamo conosciuta, non potrebbe andare altrove, se non al mare in pieno inverno). Mentre ci racconta in prima persona cosa accade al suo corpo giorno per giorno, quali organismi (loro, viventi) intervengono a corrompere i suoi organi secondo una gerarchia molto precisa, come si sente nonostante sia morta, vedendosi disfare lentamente e inesorabilmente, c’è una vita fuori da quella bara, dove Dorotea sembra muoversi come un fantasma. E c’è un paesaggio urbano, quello di Catania, descritto con precisione in un percorso immaginario nella prima pagina, e poi di altri scorci siciliani, con lo sfondo dell’Etna.
Leggendo questo libro mi è capitato di avvertire un senso di
soffocamento e allo stesso tempo un’attrazione fatale, qualcosa che mi ha
spinto a non mollarlo fino all’ultima pagina, perché è impossibile non
chiedersi come andrà a finire la ‘vita’ di una morta.
Viola Di Grado dimostra un buon grado di maturità: alla
seconda prova da autrice, che secondo me è sempre la più difficile perché
qualcuno nel frattempo coltiva delle aspettative e devi dimostrare che non si è
sbagliato a puntare su di te, ha tirato fuori una storia strana, inconsueta,
difficile da raccontare ma che lei dipana con molta naturalezza. Impossibile
non seguire lei e Dorotea, fino a dove qui certo non posso dirlo.
Nessun commento:
Posta un commento